Passo i due anni successivi all’Iowa University a scrivere il libro su Huitzilac. Per tutto quel tempo non so né voglio sapere nulla di Liliana. Finisco il libro. Il giorno della presentazione a Città del Messico, Liliana è tra il pubblico. Alla fine della presentazione, viene a farsi firmare il libro. C’è un ardore unico nei suoi occhi neri, un dolore altezzoso, forse solo una dose di cocaina. C’è anche un’aura di ironia infantile nel suo taglio di capelli a paggetto, nel suo tailleur scamosciato color sabbia. Il foularino che porta intorno al collo è dello stesso color ciliegia delle sue labbra.
Si mette in fila per farsi firmare il libro. Quando arriva il suo turno, mi dice: «Non c’è il mio nome in questo libro, ma so che ci sono anch’io».
Questa è la mia dedica: «Per Liliana, che in questo libro non c’è ma c’è».
Quando legge la dedica dice: «Ti aspetto e parliamo dei bei tempi andati?»
Finisco di firmare le copie ed esco a cercarla ma se n’è andata. La sera la chiamo al numero del suo vecchio appartamento, che ho conservato dal nostro ultimo incontro, tre anni fa. Quella sera non risponde nessuno. Nemmeno nei giorni seguenti. Vado a cercarla all’appartamento. Il portiere mi dice che sono mesi che non vive più lì. Un colpo di nostalgia mi spinge a cercare la casa dei Montoya a colonia San Rafael. Ora è un asilo.
Cerco Felo Fernández. Non sa nulla di Liliana, ma sa qualcosa del Pato: si è rifugiato in un sottosegretariato di governo di cui è titolare il futuro defunto Olivares.
Sento il bisogno fisico di Liliana Montoya.
In un battito di ciglia, passano gli anni e ricevo una telefonata di Felo Fernández: «Sono quattro anni che non ci sentiamo, capo. Mi scuso per l’assenza. Ti chiamo perché ieri il nostro comune amico Olivares ha tirato le cuoia. La veglia è all’obitorio Gayosso di avenida Félix Cuevas. Comunque ci vediamo lì».
Più che la morte di Olivares, mi sorprende che siano passati quattro anni dall’ultima volta che ho parlato con Felo, e dall’ultima volta che ho visto Liliana. Dico a Felo Fernández: «Sembra ieri».
La vita se n’è andata senza farsi sentire, e noi con lei.
Il fatto, come ho detto, è che l’apparizione del Pato Vértiz alla veglia del defunto Olivares, mi riporta alla ricerca di Liliana Montoya. L’ho persa dall’ultima volta che l’ho vista, a quella presentazione del libro su Huitzilac. Mi dico che se ci sono tracce di Liliana saranno nella rete degli amici di Olivares e dello stesso Pato, che presumo senta la sua mancanza, la cerchi insaziabilmente. Come me ora. La mia prima fermata nel viaggio verso quelle tracce è Felo Fernández, a cui chiedo prima di tutto di indagare con il Pato e con gli amici del defunto Olivares.
Felo torna dalla sua inchiesta con le mani quasi vuote. Dice: «L’ultima notizia che si ha di Liliana Montoya è che ha trascorso qualche tempo ad Antigua, in Guatemala, dove gestiva un hotel. Prima, ha avuto un bar a Los Cabos, dove cantava. Dopo, nulla».
Gli chiedo se le cose che mi dice gliele ha raccontate il Pato Vértiz. Risponde: «Il Pato è l’unico che riusciva a starle dietro, ma l’ha persa. A parte lui, nessuno. L’unica altra persona che vuole trovarla sei tu. Condivido la tua debolezza venerea o letteraria per quella signora, capo, ma non te la raccomando. È una dama nefasta. Si è fatta desiderare e ha lasciato a bocca asciutta un’intera generazione. Quando dici che l’hai vista l’ultima volta?»
Ripeto che è stato quattro anni fa. Mi risponde: «E speriamo che sia anche l’ultima volta, capo. Per la tua tranquillità e per quella della repubblica. Non c’è nessuno che se la sia voluta scopare e nell’intento non ci abbia quasi rimesso l’uccello».
Felo ha ragione. Liliana è entrata e uscita dalla mia vita in ondate catastrofiche. È rimasta sempre lì, in attesa del proprio turno. Ho amato quella donna più di quanto l’ho temuta, ma il timore ha vinto sempre.
Per anni la sua storia dell’assassinio di Honduras ha fatto parte dei miei brutti sogni, è stata il mio incubo ricorrente. Di solito mi sveglio nel bel mezzo della faccenda, a volte come se fossi io a dover giustiziare Honduras, altre volte come se l’avessi già ucciso e stessi fuggendo dalla legge come un animale braccato. Un giorno mi sveglio in preda a un’atroce rivelazione: sono io che ho ucciso Honduras istigato da Liliana, io che ho cancellato l’accaduto dalla mia coscienza schizofrenica. Sto sudando e tremo. Ci metto qualche lungo secondo a tornare in me. Capisco che il brutto sogno su Honduras si è esteso, chiaro e folle, allo stato di veglia. Ricordo di aver deciso in quegli anni che avrei investigato sulla morte di Honduras. Ricordo anche di aver dimenticato quel mio proposito.
Dopo la veglia del defunto Olivares decido nuovamente di fare luce sulla morte di Honduras. Riaprire quell’enigma è un modo di mettermi in cammino verso Liliana. Facendo un giro lungo, è vero, e quasi con la voglia di non incontrarla, ma cercandola alla fin fine, provando a fare in modo che la casualità della ricerca la riporti da me.
Inizio ricapitolando quello che so.
Liliana mi ha raccontato tre volte la morte di Honduras. Tutte e tre le volte dice di essere stata lei ad aver chiesto al Pato Vértiz che lo facesse uccidere. Qui finiscono le coincidenze. Nella prima versione, il Pato fa uccidere Honduras e le porta delle foto del cadavere come prova. Nella seconda versione, Liliana va con sua sorella Dorotea a vedere il corpo di Honduras e Dorotea lo tocca con il piede per verificare che sia morto. Nella terza versione, Liliana è presente durante l’esecuzione di Honduras, e la dirige.
Tra la seconda e la terza versione, scrivo e distruggo un romanzo breve ispirato ai fatti. Non oso pubblicarlo per paura del Pato Vértiz, animale che Liliana ha saputo domare, ma non certo domestico. Nel romanzo che ho scritto allora, il personaggio che incarna Liliana non ha raggiunto la felicità. Né è stata felice la sorella. La tesi del narratore è che trasgressioni di quell’entità non si curano. La colpa torna sempre a farsi sentire. Ma nella sua terza versione dei fatti, quello che Liliana sottolinea senza volere è che la trasgressione non ha avuto conseguenze. La colpa non è ricaduta su di lei, né ha reso infelice Dorotea, che ha un marito che la mantiene, due amanti che accorrono al suo richiamo come cani fedeli e un figlio mezzo genio.
Liliana, da parte sua, ha congedato il Pato Vértiz e ha servito altri amori, redditizi quanto il Pato. Si direbbe che la disgrazia l’abbia blindata contro la sofferenza, e l’impunità contro il senso di colpa. Nel caso di Liliana Montoya e di sua sorella Dorotea, gli effetti qualificano moralmente le cause, e non il contrario.
Tra gli appunti che conservo del mio penultimo incontro con Liliana, quella volta che siamo andati a Huitzilac, c’è la data dell’assassinio di Honduras. È il 14 febbraio del 1978, il giorno di san Valentino. «Gli abbiamo fatto un bel regalo per il giorno degli innamorati» dice Liliana nei miei appunti.
Vado all’emeroteca alla ricerca dei giornali di quella data. Passo la giornata a sfogliare le pagine di cronaca. Non c’è niente. Lascio i giornali e provo con le riviste. Le casualità sanguinose di ogni giorno fanno paura: crimini, incidenti, catastrofi, stragi storiche. Passo la mattina a leggere, terrorizzato e anestetizzato. Appare il titolo di «un giornalista straniero» che ho conosciuto, scomparso sulle spiagge di Oaxaca. Qualche pagina dopo si segnala un altro straniero, un turista, morto in un bar di malaffare. Poi becco il titolo che annuncia che un agente di moda, anche lui straniero, è affogato a Manzanillo. Scopro che essere straniero significa avere un maggior grado di celebrità su queste pagine. Seguo la parola straniero nei titoli della rivista mentre la sfoglio. Il caos di sangue e incidenti mortali acquisisce per un attimo una certa razionalità, per lo meno un ordine sciovinista. Scorro il tomo dell’anno ’78 soffermandomi solo sugli articoli che parlano di morti di stranieri. Non trovo nulla. Chiedo l’anno ’79. In un’edizione della prima settimana di marzo leggo: «Straniero morto a colpi di pistola per ragioni profilattiche». La nota inizia in modo accattivante:
Il malvivente honduregno Cataldo Peña è stato trovato morto nel bordello dove portava le ragazzine a prostituirsi.
E continua:
Gli hanno sparato due bei colpi in petto e uno in testa, apparentemente altri malviventi come lui, per strapparlo a quella vergognosa professione. Non farà più male a delle giovani innocenti né presterà servizio a quei pervertiti che pagano per approfittarsi di ragazze incaute, istigate al vizio da gente della risma di questo honduregno, vergogna del bel paese nostro fratello.
E continua:
Negli uffici della DIPD, prima Servizi Segreti, che portano avanti le indagini, si è detto che hanno preso il controllo del caso per verificare eventuali connessioni con l’azione di altri gruppi criminali, poiché l’honduregno è un pezzo grosso.
Ricontrollo i giornali correggendo di un anno la data di ricerca. Inizio dal mese di marzo 1979. Non c’è niente. Torno a febbraio: non c’è niente il 15, e niente il 16, ma il sabato 17 si trova un articolo che menziona la morte del «ruffiano Clotaldo Peña». La polizia della città, dice l’articolo, sta indagando sul crimine, apparentemente legato a una banda di rapinatori colombiani che operano da diverso tempo in città. Cerco nei giorni successivi, fino a luglio di quell’anno. Niente. Torno alle riviste e controllo l’anno intero. Nemmeno una riga.
Cerco Felo Fernández. Gli chiedo se conosce qualcuno che possa portarmi negli archivi della polizia dell’anno ’79, la celebre DIPD (Divisione di Investigazioni per la Prevenzione della Delinquenza), scomparsa nel 1983.
Felo Fernández mi presenta il suo coetaneo Ricardo Antúnez, un tempo protetto del Pato Vértiz, poi suo acerrimo nemico.
Antúnez è stato capo della sicurezza della città, il primo civile a ricoprire quell’incarico. Un fallimento totale. Del suo periodo di gloria ricordo un pessimo aneddoto che mi unisce a lui. Un aneddoto triviale, ma di quelli che non si dimenticano. Semplicemente, una sera rifiuto pubblicamente una bottiglia di vino che mi manda, da tavolo a tavolo, in un ristorante alla moda chiamato Cícero, dieci anni fa. Antúnez dice a Felo che mi incontrerà con piacere ma che la sua condizione è che il luogo del nostro incontro sia il Cícero.
Mi sta già aspettando con Felo quando arrivo. Mi riceve cerimoniosamente, dice che è una cena tra amici ma che perché lo sia pienamente conviene che io sfoghi le mie curiosità fin dal principio. Mi chiede cosa voglio. Gli ripeto quello che ho detto a Felo Fernández. Voglio una copia del fascicolo giudiziario dell’omicidio di un honduregno chiamato Clotaldo o Cataldo Peña, morto all’incirca a metà febbraio del 1979.
Antúnez ha dei baffi da tricheco e una testa calva come una palla da biliardo. Ha gli occhi con grandi ciglia arricciate e mani dalle dita grasse coperte di peli. Il suo viso è affabile ma ha modi molto freddi. Porta un orologio enorme al polso robusto, anche quello coperto di peli. Non mi chiede la ragione del mio interesse. Dice soltanto, ostentando la propria conoscenza dell’argomento: «Io ti faccio avere il fascicolo, contaci. Ma vuoi sapere quello che è successo davvero o quello che c’è scritto sul fascicolo?»
Gli dico entrambe le cose. Antúnez spiega la propria domanda: «Ciò che è riportato sul fascicolo non è necessariamente quello che è accaduto. Esiste la memoria giudiziaria e la memoria della polizia. La memoria della polizia è più esatta della memoria dei fascicoli».
Ci metto un po’ a capire che Antúnez mi sta offrendo qualcosa. Felo Fernández intuisce il mio disorientamento e mi spiega: «Quello che Antúnez ti sta chiedendo è se vuoi che ti cerchi anche qualche comandante in servizio all’epoca che possa aver avuto a che fare con il caso».
Dico di sì, naturalmente.
«Ti costerà una bottiglia di vino» dice Antúnez, accennando uno sbadiglio.
Accetto. Antúnez dà un’occhiata alla carta dei vini e ordina il più caro della lista, un vino spagnolo. La generazione del defunto Olivares non dimentica nulla.
Antúnez mantiene la promessa. Una settimana dopo mi manda una copia fotostatica del fascicolo giudiziario. Poi mi chiama per convocare una seconda cena avvertendo che pagherà lui il vino. Ci diamo di nuovo appuntamento al Cícero. Per il dessert arriva un uomo in là con gli anni, che sembra sconvolto e concentrato allo stesso tempo. Ha un’abbondante testata di capelli, grigi e poco curati, che gli inizia sulla fronte. Prima di sedersi, mentre raggiunge il nostro tavolo seguendo il cameriere che gli fa strada, osserva il locale con rigore, come se lo stesse filmando. Saluta con una mano callosa i cui tratti spigolosi incutono un po’ timore. Siamo al dolce. Antúnez finisce il suo caffè e si congeda dalla conversazione che mi ha fissato.
«Chiacchierate pure, certe cose si trattano meglio in due».
Felo Fernández si ritira insieme a lui. Ha le proprie faccende da sbrigare.
Mi ritrovo di fronte al comandante come di fronte a un muro. Il muro dice: «Il dottor Antúnez mi ha raccontato quello che cerca. Posso parlarle fuori dai denti?»