Mi chiama Felo Fernández per sapere di che cosa ho parlato con il comandante Neri. Di un caso poliziesco intorno al quale vorrei strutturare un romanzo, rispondo. Mi dice che Neri è andato a trovare il Pato Vértiz, gli ha detto che aveva parlato con me e gli ha chiesto dei soldi. Felo vuole sapere di che cosa ho parlato con Neri.
Non voglio dirglielo. La storia di Honduras è un segreto tra Liliana e me (e il Pato e Dorotea). È chiaro che non sono affidabile nel mantenere il segreto, l’ho anzi messo nella mira di almeno altre due persone: Antúnez e Neri. Antúnez è il capo di Neri. Neri avrà riferito ad Antúnez quello che ci siamo detti. Entrambi si saranno chiesti il perché del mio interesse e avranno drizzato le antenne. Neri come un poliziotto che sente odore di soldi negli enigmi non risolti. Antúnez come un politico che sente odore di miseria umana dove può fare fortuna. A questo penso mentre Felo mi spiega che Antúnez odia il Pato. Prova per lui un robusto odio generazionale. Nella sua visita al Pato, Neri gli fa presente che Antúnez è la persona che l’ha messo in contatto con me. Il Pato teme che Neri sia l’emissario di un nuovo tiro mancino di Antúnez ai suoi danni. Mentre Felo mi dice queste cose, mi rendo conto di aver stretto troppo il tubetto di dentifricio e, una volta fuori, è impossibile far rientrare il contenuto. È quello che i grandi strateghi della storia catalogano sotto la voce «conseguenze impreviste». Vogliono distruggere una fabbrica di armi e distruggono anche una scuola piena di bambini. Vogliono far dimagrire una grassona infelice e la trasformano in un’anoressica suicida. Indago sulla morte di Honduras e faccio resuscitare un poliziotto in cerca di bustarelle e un politico che odia il Pato quanto me, ma desidera che il suo odio abbia delle conseguenze.
Il Pato trema, dice Felo. Vuole sapere quello che mi ha detto Neri e quello che ho detto io a lui. Intuisco che il Pato non ha confidato a Felo il nostro grande segreto su Honduras e che Felo non ha confidato al Pato di essere stato proprio lui a farmi da intermediario con Antúnez.
A questo proposito Felo mi dice: «Ho commesso un grave errore a metterti in contatto con Antúnez, capo. Quel tizio ha con il Pato una storia di amicizia trasformata in odio. Delle peggiori. Antúnez ha fatto strada in politica grazie al Pato. Poi però si è preso il posto di cui il Pato aveva bisogno. Pensavo che fosse un odio ormai sepolto, ma mi sbagliavo. È ancora profondo, cosa che avevo sottovalutato. Non ti chiedo di aiutarmi a risolvere la situazione. Ti chiedo però di parlare con il Pato e chiarirgli quello che puoi. So che lo detesti, non sei l’unico. Ma il Pato di oggi non è che un povero cristo al quale la vita ha riservato tutto il peggio che gli si possa desiderare. È un Giobbe senza nemmeno il conforto della fede, capo. Un relitto».
Mi piace quello che dice Felo ma non mi convince. L’unica cosa che mi convince è l’idea oscena di constatare da me la decadenza del Pato Vértiz. Spettri dell’infamia: l’infamia come volontà e come rappresentazione.
Accetto di incontrare il Pato in un Sanborns di calle de San Antonio, vicino a casa mia, entra guardandosi intorno e dietro le spalle come se credesse che qualcuno lo stesse seguendo. Ho già descritto il Pato. Ha i denti sporchi, il naso incavato, lentiggini nere sulla testa calva e giallognola, una panza da settimo mese di gravidanza su un corpo dalle spalle curve. Ha in mano un mio libro appena comprato. Non ha ancora tolto la plastica che lo avvolge. Vuole che gli faccia una dedica in nome dei bei tempi. Non ho bei tempi da ricordare con lui, ma glielo dedico in nome dei bei tempi che sono quelli di adesso, ora che ai miei occhi è spacciato. Penso che se fossi Antúnez mi starei godendo questo momento. Non sono Antúnez eppure me lo godo lo stesso. Poi inizia la conversazione.
Inizio scusandomi per aver attirato lo sguardo di Neri e Antúnez sulla «nostra questione». «La nostra questione» è la formula che propongo per fare riferimento all’assassinio di Honduras. Gli racconto del mio incontro con Neri, di quello che gli ho chiesto e quello che Neri mi ha detto di ricordare di quel giorno. Dico che Neri, quando ci ho parlato, non ricordava bene chi fosse il tizio che era andato con la ragazza a vedere il cadavere. Gli dico che forse Neri ha fatto uno sforzo per ricordare, gli è venuto in mente lui ed è andato poi a chiedergli dei soldi in nome dei bei tempi.
«Neri non doveva farsi venire in mente nulla» mi dice il Pato. «Ricordava tutto perfettamente».
Le sue parole interrompono la mia indulgenza. Gli chiedo se conosceva Neri.
«Mi ha ricattato per anni» dice il Pato.
Devo essergli sembrato molto sorpreso, perché il Pato assume ora l’aria indulgente con la quale io ho dato inizio al nostro incontro. Mi dice: «Te lo racconto io, scrittore. Ti racconto quello che so della ‘nostra questione’. Mi ascolterai finché non avrò terminato?»
Annuisco, sconcertato: di colpo il Pato prende il comando della partita che ha iniziato in netto svantaggio.
«Per prima cosa, scrittore, io non diedi ordini di nessun tipo circa ‘la nostra questione’. Ricevetti una richiesta assurda di Liliana al riguardo. Prima la ignorai per evitare problemi. Poi la soddisfai per evitare problemi. Come dice il detto: meglio promettere che pentirsi di non averlo fatto. O come si dice. Avevo dei conoscenti nel governo della città. Il procuratore, che riposi in pace, era mio amico. A lavorare con lui avevo messo Antúnez, uno dei miei uomini di fiducia. E proprio ad Antúnez chiesi come in confidenza di verificare se c’era qualche grado di verosimiglianza, per non dire di verità, nella storia di quel tale Honduras. Gli diedi i dati che mi aveva dato Liliana. Tutte cose vaghe, tranne l’indirizzo del bordello proprio a colonia San Rafael, lo stesso quartiere di Liliana. Antúnez mi chiese perché volevo trovare quella carogna. Incorsi nell’errore sentimentale di dirgli che si trattava di una faccenda sentimentale, che c’era un affronto di famiglia e che la famiglia voleva vendicarsi. Lui capì quello che volle capire, tra le altre cose che la mia richiesta fosse implicita nell’atto di non chiedergli nulla. Perché gli dissi solo di informarsi al riguardo, non gli ordinai di fare nulla. Dopo circa un mese gli chiesi se aveva saputo qualcosa, se c’era stato qualche progresso. Era un una semplice domanda la mia, non gli ordinai nulla. La seguente cosa che venni a sapere da Antúnez fu che Honduras era stato ucciso quel pomeriggio. ‘Missione compiuta’, disse Antúnez, in attesa di ulteriori istruzioni. ‘Nessuna istruzione, Antúnez. Non ti ho dato nessuna istruzione’, gli dissi. ‘Tacitamente sì’, mi rispose quello stronzo. ‘Tacitamente un corno, Antúnez’, gli dissi. ‘Che cos’hai fatto, pezzo di merda?’ Be’, aveva fatto uccidere Honduras. Mi mandò le foto per calmarmi. O per farmi diventare matto. Le mostrai a Liliana quella sera stessa».
Fa una pausa teatrale. Gli chiedo qual era stata la reazione di Liliana davanti a quelle foto. Mi risponde: «Gli occhi le lacrimavano di rabbia».
Gli chiedo se Liliana gli aveva creduto. Esita, ma poi dice: «Sì, mi credette».
Gli chiedo se, pur credendogli, Liliana gli aveva chiesto di portarla a vedere il cadavere.
«No, scrittore. Sei matto. Chi ti ha detto una cosa simile?»
Gli dico che me l’aveva detto Liliana.
«Era ubriaca? Da ubriaca diceva questo e molto altro. È arrivata a dire di esser stata lei a dirigere l’esecuzione. Tutte stronzate, scrittore, tu non farci caso. Non è andata così».
Prende un sorso di caffè, lo fa passare con difficoltà per il suo collo da tacchino, si ricompone sulla sedia prima di parlare nuovamente: «Liliana inventava, scrittore. La nostra Liliana inventava le cose. Inventa. Moriva dalla voglia di essere una femme fatale. Per questo si è messa con me. Per tirarsela da grande, da adulta. Non è mai successo niente del genere. La storia tra me e Liliana è stata molto più semplice, basilare. L’ho tirata fuori di casa, le ho dato dei soldi, le ho fatto vedere il mondo, si è stancata di me e ha seguito per la sua strada. Magari ci fosse stato un morto tra noi. Un morto figlio della nostra complicità, del nostro amore. Non l’avrei lasciata andare via. Sarebbe ancora mia prigioniera. Liliana è stata la cosa migliore della mia vita. Guarda».
Mette la mano nella tasca posteriore dei pantaloni e tira fuori il portafoglio. Da una piega nascosta del portafoglio, pieno di carte e cartacce, prende una foto avvolta in due pezzi di carta stropicciata. Mi mostra la fotografia sfocata, in bianco e nero, in cui Liliana lo sta abbracciando. Lui guarda diretto in camera, sorridendo con aria di sufficienza. Lei gli bacia un orecchio, come i tennisti vincitori quando baciano la coppa di Wimbledon.
«Questo è stato per me Liliana finché è durata» dice il Pato. «Guarda che faccia felice avevo» riconosco la sua aria di sufficienza. «È stato così per il tempo che è durata. E per me è ancora così. Come in questa foto. Nient’altro. Non gridare al lupo prima del tempo, scrittore».
Ha il dono di scombinare i proverbi, in una fallita imitazione di Felo Fernández, che in questo è un maestro, modello della sua generazione («Il potere offusca le persone intelligenti, capo, e fa impazzire gli idioti»).
Gli chiedo che cosa c’entra questo con Neri.
«Neri mi fece da cicerone in tutta quest’avventura. Fu lui a portarmi a vedere Honduras la sera che lo uccisero».
Gli chiedo di nuovo se quella sera c’era anche Liliana.
«Ti ho già detto che Liliana si inventa le cose, scrittore» dice il Pato. «Fa la sofisticata».
Accetto senza convinzione la storia su Liliana, gli chiedo se quella sera al bordello ha visto Honduras morto.
«Non ebbi il fegato di guardare, ma mi recai sul posto, risvegliato da Neri e Antúnez».
Dice «risvegliato» ma intende «sorvegliato».
Chiedo se si riferisce allo stesso Neri che conosco io, di cui abbiamo parlato.
«Lo stesso» dice il Pato. «E allo stesso Antúnez, quel figlio di puttana che mi ha affibbiato Neri. Era mio nemico già allora, scrittore. Il maledetto Antúnez, la mia mimesi» vuole dire nemesi. «E quello stronzo di Neri mi ha fatto delle foto, con le quali poi mi ha ricattato».
Non credo nemmeno alla metà delle cose che mi racconta il Pato. O meglio, non credo alle parti fondamentali. Credo che l’insuccesso e la sfortuna gli abbiano dato l’occasione di pentirsi di quello che ha fatto, ma quello che ha fatto resta lì, suggerito da lui stesso. Non spiega ad Antúnez cosa deve fare ma gli fa intuire che qualcosa deve essere fatto, in modo che lui possa ritrattare in caso le cose andassero male. Quello che viene dopo non è chiaro, è il dilemma e l’enigma di questa storia. Le possibilità sono due.
Uno: Antúnez fa ciò che il Pato gli chiede, uccide Honduras, poi gli fa arrivare la notizia che i suoi ordini sono stati eseguiti e si assicura di avere dei testimoni, ed ecco spiegata la presenza di Neri, che scorta il Pato e la sua accompagnatrice sul luogo del delitto e gli scatta delle foto.
Due: Antúnez non fa quello che il Pato gli chiede, ma il caso vuole che sulla sua scrivania arrivi la notizia di un morto che corrisponde a quello che gli ha chiesto il Pato. Ne approfitta e si comporta come se il Pato gli avesse ordinato di farlo, comunicandogli che gli ordini sono stati eseguiti. Quando il Pato chiede di vedere il cadavere, Antúnez si assicura di avere dei testimoni grazie alla complicità di un apprendista poliziotto, Neri, che scorta il Pato e la sua accompagnatrice sul luogo del delitto e gli scatta delle foto mentre guardano il cadavere.
In entrambe le ipotesi, l’equilibrio dei giochi di potere si è spostato. Il Pato resta nelle mani di Antúnez, suo subalterno, il quale in seguito vorrà riscuotere il debito, trasformando in vendetta la propria obbedienza.
Quello che mi interessa della versione del Pato non è il fatto che tenti di discolparsi, ma l’angoscia che lo divora mentre parla di quel momento oscuro. L’emozione centrale, per me l’improvvisa rivelazione, della vulnerabilità del Pato non dipende dal fatto che in quel caso era innocente, ma dal suo essere responsabile attivo della faccenda in qualità di capetto sfidato dall’amante. In mezzo alla sua disperazione amorosa, vuole provare che ha la stoffa di quell’uomo forte e senza scrupoli che dice di essere. Ma non lo è. Il fatto centrale delle sue confidenze di questa mattina al Sanborns è che l’omicidio, di cui si sente causa efficiente, lo distrugge. La passione per Liliana lo porta a insinuare la necessità di un crimine per il quale non è tagliato. È un mezzo furfante, un corruttore, e crede di poter ordinare un omicidio. Ma non può. Come Macbeth, l’omicidio gli toglie il sonno, tocca il fondo morale di un uomo profondamente immorale. Il suo complice, Antúnez, dei due quello veramente spietato, ha ora la sua vita in pugno.
Penso che potrei alleggerire la coscienza del Pato se gli raccontassi quello che mi ha detto Neri. Ovvero: che Antúnez gli ha venduto una falsa esecuzione, che Honduras è stato ucciso per caso: non perché il Pato l’abbia chiesto ad Antúnez, il suo uomo di fiducia, la sua mimesi e la sua nemesi, ma perché una squadra di poliziotti vuole fare piazza pulita dei testimoni di un omicidio molto più grande. Eppure non gli dico nulla. Se saperlo può giovare a qualcuno, non voglio che quel qualcuno sia il Pato Vértiz.
Dedico i giorni successivi a sfogliare libri e articoli su quei sordidi giorni a Città del Messico, per me dimenticati. Appaiono in tutta la loro crudezza gli usi e costumi della polizia dell’epoca. Credo proprio che qualcuno dovrebbe occuparsene a livello antropologico, o storico, o semplicemente denunciare le consuetudini per cui una banda di poliziotti può giustiziare un delinquente, se chi ha influenza nella società fa richiesta di una vendetta privata al commissariato corrispondente. Abbandono rapidamente queste verifiche. Mi bastano a convincermi del fatto che la versione di Neri su quanto successo è la più vicina alla verità, perché è la più semplice e la più conforme al proprio tempo: Honduras è stato ucciso per caso, nel bel mezzo di una caccia ben più grande.