Non so perché vado alla veglia del defunto Olivares. Non è mio amico e non conosco la sua famiglia. Felo Fernández mi dà la notizia che la veglia è domani. Mi dice: «In ogni caso ci vediamo lì». Ho un debole per Felo Fernández. Sono anni che non lo vedo, eppure continuo a scoprire cose inverosimili sul suo conto. Per esempio, che mastica vetro quando è ubriaco. Oppure, che ha cavalcato un elefante. O meglio: si è procurato un elefante perché uno dei candidati in campagna elettorale lo cavalcasse entrando in paese. Il candidato vuole comunicare al popolo che i tempi sono cambiati e che lui rappresenta il nuovo. Felo gli suggerisce di fare il suo rivoluzionario ingresso in paese in sella all’elefante di un circo accampato poco lontano. L’idea ha un successo strepitoso, ma Felo è obbligato a montare l’elefante prima del candidato, come i cuochi assaggiano gli alimenti prima dei loro signori.

Alla veglia ci sono tutti gli amici di Olivares.

Non so se è amicizia la parola adatta a descrivere ciò che unisce quelle persone. Sono stati tutti compagni, e poi complici, alla facoltà di scienze politiche della vecchia università nazionale. Chiudo gli occhi e rivedo la cara vecchia facoltà, con il cortiletto e il bar pieno di belle ragazze, delle quali Olivares è sempre stato un diligente cicerone, prima come alunno, poi come professore, alla fine come direttore.

Alla veglia di Olivares c’è il meglio della sua generazione: un ex rettore, una ex guerrigliera, un ex capo di polizia. E il Pato Vértiz, ex di sé stesso. Il defunto Olivares è stato allievo del Pato Vértiz, poi suo segretario, più tardi suo protettore, quando il Pato ha iniziato ad abbandonarsi alla vecchiaia che sfoggia adesso: i denti sporchi, il naso incavato, il ventre un tempo piatto ora scandalosamente gonfio.

Quando arrivo, lo vedo in fondo alla sala. Anche lui mi vede. Tenta un saluto sopra il mare di teste calve e bianche che riempiono la stanza, con il rischio che io lo ignori ma consapevole che a unirci c’è una storia che non posso tralasciare. La storia mi riecheggia dentro come una ferita.

È la seguente: sono ubriaco marcio seduto su una poltrona a casa di Liliana Montoya, ubriaca anche lei. Ho ventiquattro anni; lei, ventidue. Liliana mi dice che la sorella minore è stata disonorata da un tipo che lei, Liliana, ha fatto uccidere; l’ha chiesto al suo nuovo amante, con cui esce da qualche mese, un tizio grande, dottore in diritto penale, di nome Roberto Gómez Vértiz, meglio conosciuto come il Pato Vértiz, lo stesso che ora mi saluta dal fondo della veglia.

Liliana mi racconta il suo crimine a notte fonda dopo una festa di famiglia. Vive ancora a casa della madre, prima di trasferirsi con il Pato. È ubriaca al punto che un conato di vomito la obbliga a correre in bagno. Poi si addormenta sulle mie gambe. La brutalità della storia mi sembra allora un’emanazione dell’alcol, ma il giorno dopo la consegno alle pagine di un taccuino. Per anni non so se quello che mi racconta Liliana sulla poltrona di casa sua è vero o no, se l’ho inventato in preda alla mia sbronza o Liliana in preda alla sua. Tendo a credere che la storia sia vera e che Liliana sia in grado di interpretarla. So da sempre che in quella storia c’è un romanzo.

È arrivato il momento di dire che sono uno scrittore, che le mie frasi non sono innocenti né lo è il mio percorso narrativo. Vado dritto al punto e insieme ci giro intorno; non basta leggere quello che scrivo, è sempre il caso di sospettare.

Il Pato Vértiz è a capo della rete di professori universitari che dopo il ’68 portano lo stigma di essere favorevoli al governo. Sono i peoni del regime che l’università disprezza.

Lo chiamano Pato Vértiz perché cammina come un’anatra e ha la bocca da anatra, ma questa è l’unica somiglianza. Per il resto ricorda più un caimano o un coccodrillo. A quarant’anni, quando conquista Liliana, mostra già la pelle secca e la testa calva sporca che avrà a sessanta. È moro, ha le labbra scure e gli incisivi superiori sporgenti, come il becco di un’anatra. Fuma sigarette aromatizzate alla vaniglia, di carta nera con il filtro dorato. Regna sulla facoltà di diritto come un dio invisibile. È professore di diritto penale ma in realtà è il proprietario della facoltà, l’eminenza grigia delle scorrerie studentesche, il protettore delle bande, l’alchimista delle elezioni per le assemblee degli studenti. Conosce vita, morte e miracoli dei giovani più promettenti e qualche dettaglio poco piacevole di ognuno di loro, o dei genitori. Intuisce l’adulto senza scrupoli nel giovane dissoluto, e le fiamme parallele dell’ambizione e della venalità nella sfacciataggine con cui le studentesse del primo anno portano o no la minigonna. Potrebbe essere un romanziere onnisciente se non avesse il cuore di un corruttore, di un manipolatore e di un poliziotto. Fiuta Liliana Montoya fin dal primo incontro, al primo cenno delle sue gambe lunghe, del suo sguardo attento, della sua risata ordinaria, capace di provocare ogni orecchio.

Liliana è la sorella minore del mio amico Rubén Montoya. La madre di entrambi, vedova, ha avuto quattordici figli, sei maschi e otto femmine. Le mancano i due denti davanti e quando mangia le sue labbra si arricciano con piacere alla ricerca dei denti mancanti. Ho usato il suo sguardo scuro e quello che intuisco del suo cuore in un racconto su una madre che cerca il figlio nelle celle d’isolamento del carcere e, quando scopre che è stato ucciso, adotta il detenuto di turno come fosse il sostituto del figlio. Ed è proprio quello che fa con me la mamma di Rubén. Il giorno in cui mi conosce mi trasforma nel sostituto filiale di Ricardo, il figlio che ha perso, gemello di Liliana. Ricardo muore nel ribaltamento di un pullman di pellegrini diretto al santuario della vergine di Chalma. Ricardo non ha nulla a che fare con quel pullman perché non è un pellegrino né è diretto a Chalma. Sta andando da Morelia a Città del Messico, ma alla stazione degli autobus di Morelia ha come un presentimento e decide di salire sul pullman diretto a Chalma per mischiarsi con i pellegrini e conoscere il santuario. Conosce invece la morte.

A introdurmi a casa di Liliana è Rubén, il fratello di Liliana con cui vado all’università. Lo stesso giorno in cui varco la porta della casa dei Montoya, soffitti alti e camere antiche, a colonia San Rafael, di fronte alla stazione di Buenavista, la mamma di Liliana mi dice: «Sei come il mio Ricardo». Mi segna tre volte: una sulla fronte, una sulla bocca, una sul petto. Poi mi guarda negli occhi come se vi cercasse un segreto accessibile solo a lei. Mentre la madre di Rubén mi benedice, io guardo in fondo alla sala da pranzo. C’è un pozzo di luce che filtra in un solo bagliore la primavera nascente della città. Nel bel mezzo della pozza di luce c’è una ragazza scalza. La luce disegna il suo corpo sotto il vestito. Ha il collo del piede alto, le gambe lunghe, i fianchi pieni, la vita fine, come una bambina, le spalle dritte, le braccia lunghe e piene, come le gambe. Nella pozza di luce i suoi occhi di ragazza brillano. La diverte la scena di sua madre che mi bacia. Ha i denti bianchi e gli zigomi felini. I suoi capelli sotto la luce sono scuri, quasi blu. Mentre sua madre mi bacia lei mi guarda. Sa tutto di me. Sa già tutto di me.

Come prova della sua adozione, la madre dei Montoya mi dà una chiave dell’ingresso. Io e Liliana ripaghiamo la sua confidenza con un incesto. Un pomeriggio arrivo a casa loro, quella casa dalla cucina enorme e dai lunghi corridoi, e trovo Liliana che sta sciacquando la biancheria nel lavello. È giovedì santo. Sua madre è andata a Morelia con il resto della famiglia. Liliana non è voluta andare ed è sola a casa. Dice: «Non ho più cambi, guarda». Alza la gonna perché io veda. Le sue cosce e il suo ventre sono bruni, i peli del pube neri, quasi blu. Non dimenticherò mai quel corpo e quei peli. Né loro dimenticheranno mai me. È meglio che lo capiate fin da subito: non dimenticherò mai quel momento. Liliana si apre per me seduta sul lavello. Dea dell’umidità. Odora di legna appena tagliata e del detergente con cui lava le mutandine e di un profumo dolciastro da cabaret. Ride come una pazza mentre sono dentro di lei. Dice che racconterà tutto a sua madre, tutte le cose che le faccio. Quello che dice quel pomeriggio diventa una specie di codice fra noi: «Racconterò tutto a mamma». Da quel momento in poi dirà quella frase per guidare le mie azioni. Se la dice quando siamo da soli vuol dire che posso sollevarle la gonna e penetrarla senza preavviso, perché è già pronta. Se la dice di fronte ai suoi fratelli o a sua mamma, alla fine del pranzo, o quando gli dà la buonanotte prima di andare a dormire, vuol dire che devo far finta di andare in bagno dove lei mi aspetterà già con la gonna sollevata seduta sul lavandino o appoggiata alla parete.

Tutto questo mi torna in mente quando il saluto del Pato Vértiz mette alla prova la mia memoria alla veglia del defunto Olivares. Non mi avvicino a salutarlo, faccio in modo che la casualità delle conversazioni mi impedisca di arrivare in fondo alla sala, ma il Pato si muove con astuzia per la stanza piena di gente, e sento la sua voce roca alle mie spalle: «Maestro, come stai».

Quando mi volto, vedo che mi sta tendendo una mano grande e tremante.

Ripete: «Come stai?»

Rispondo che sto bene. E lui, come sta?

«Ti leggo, maestro. Imparo. Chi l’avrebbe mai detto che saresti diventato uno scrittore».

Mentre parla fischia, a causa dell’asma o di un enfisema. Ha una palpebra più cadente dell’altra. L’occhio socchiuso è di una fissità mortale. Ha le ciglia lunghe e curve, l’unico accenno di salute che c’è sul suo volto. Dice: «Dobbiamo parlare. Ci hai praticamente abbandonati».

Non so di quale noi stia parlando, perché non lo frequento. Né lui né nessuno che faccia parte della sua cerchia. Penso che con quel plurale stia preparando ciò che poi descriverà come un «rincontro».

Felo Fernández mi viene in soccorso facendosi strada tra i parenti. Dice: «Il nostro amico rettore vuole salutarti».

«Ex Rettore» precisa subito il Pato Vértiz, accanto a me, con malizia.

Felo risponde, con invincibile umorismo: «Se i nostri stipendi sono validi in banca, capo, anche i ruoli che li giustificano devono esserlo».

La risata del Pato rompe il luttuoso mormorio della sala. Sghignazza con un vigore che smentisce i suoi anni, come se la vecchiaia non fosse che una maschera per la sua anima allegra e predatrice.