Quando torno dalla veglia di Olivares, cerco tra le mie carte tutto quello che riesco a trovare su Liliana Montoya. Ci sono più tracce della mia relazione con lei in quei vecchi taccuini che nei miei ricordi.

La mia frequentazione incestuosa con Liliana Montoya inizia quel giovedì di aprile del 1972, sul lavello di casa sua. Poco prima di quella scena, a febbraio, Liliana ha compiuto diciotto anni, e io ne ho fatti venti a gennaio. Due anni dopo, nel 1974, Liliana inizia la facoltà di scienze politiche. All’epoca io sono al terzo anno di lettere e filosofia. Liliana fa il secondo anno di scienze politiche quando inizia a uscire con il Pato Vértiz, nel 1976. Il Pato ha vent’anni più di lei. La porta a cena in uno dei posti più kitsch della città, dove si mangia a lume di candela e al suono dei violini. Fino a quel momento Liliana è stata solo con me e con altri della sua età. La sua promiscuità è un affronto, ma l’attrazione che provo per lei è più potente della gelosia. Mi dice in continuazione di portarla via da casa sua, di portarla a vivere con me, ma non ho soldi né una casa da offrirle. E poi, voglio fare lo scrittore, e Liliana non mi sembra la sposa adatta per lo scrittore che voglio diventare. Ha una voce roca, pungente. Chi la sente cantare non la dimentica. Ride sonoramente di tutto, in modo volgare, specialmente di me. La gente la guarda di traverso quando scoppia a ridere, per esempio in metro: così bella e con quella risata.

Ripenso ora alla sorella minore di Liliana. Si chiama Dorotea. Nel primo ricordo che ho di lei è una ragazzina in uniforme scolastica viola, con dei calzini bianchi e flosci. Sul suo corpo di bambina si affacciano già i lineamenti di una donna, ma quella donna non è ancora sbocciata. È alta e magra, dalla carnagione di un color nocciola particolarmente raffinato, come dipinto da qualche pittore specializzato in ritratti, diciamo Romero de Torres. Ha un’aria attenta e allegra, ma in fondo annoiata. Nel suo sguardo c’è uno stampo ironico, l’anticipazione di un giudizio. Faccio fatica a immaginare quella bambina nelle mani di qualcuno che la profani.

La notte in cui Dorotea corre da Liliana con le vene del polso mezze tagliate, dicendo che l’hanno violentata, Dorotea ha diciotto anni, la stessa età che aveva Liliana quando è stata per la prima volta con me. Il ragazzo di Dorotea ha vent’anni più di lei, proprio come il Pato Vértiz quando inizia uscire con Liliana. Liliana ascolta con attenzione le vessazioni che Dorotea subisce dal ragazzo, un honduregno che da quel momento in poi chiamano appunto «Honduras», per la sua provenienza. Honduras gode se lei soffre, dice Dorotea. Le fa prendere delle pastiglie e inalare sostanze che la spossano. Le chiede di truccarsi tutta per lui, di fare la vecchia o la bambina, o la monaca, o la Madonna per lui. Dorotea piange mentre racconta queste cose. Liliana pensa che Honduras non è nemmeno messicano. Non so perché, ma il fatto che sia straniero è per lei un ulteriore affronto. Decide di chiedere al Pato Vértiz di far uccidere Honduras. Glielo chiede il giorno dopo. Il Pato ride di quella richiesta, gli sembra una follia. Si offre di dargliele di santa ragione, di allontanarlo se necessario. Liliana lo guarda come se non avesse capito che cosa lei gli sta chiedendo. Ripete quello che vuole. Il Pato passa dall’incredulità all’imbarazzo. Non sa cosa dire. I giorni passano. Liliana torna alla carica: quando la farà finita con Honduras? Il Pato risponde vagamente. Liliana annuncia uno sciopero: non dormirà con lui finché quello non sarà morto. Lo sciopero di Liliana dura un mese e mezzo. Il Pato scopre di non riuscire a gestire l’astinenza da Liliana. Gravita fatalmente verso di lei, proprio come me, anche se in un modo più inaspettato, perché il Pato si sente padrone del proprio destino e di quello degli altri, mentre io mi sento solo quello che sono, cosa della quale non ho mai avuto un’opinione molto alta.

Un giorno il Pato ordina a Liliana di tornare. Un altro giorno la implora. Una notte ammette di avere un disperato bisogno di lei. È diventato dipendente da Liliana, come me. Un pomeriggio il Pato fa alzare Liliana dal pranzo di famiglia nella casa di San Rafael e le dice per telefono: «Missione compiuta».

Poi le porta alcune foto. Le foto mostrano un uomo con una pallottola in testa. Ha un occhio mezzo aperto, la nuca galleggia in una pozza di sangue. Dorotea vede le foto e scoppia piangere. È lui.

Questo me lo racconta Liliana, come ho detto, alla fine di una tumultuosa sbronza. Dalla sbronza mi risvegliano i postumi e la paura. Paura di quello che ho sentito e paura della donna che me lo ha raccontato. Fuggo via da Liliana, decido di non vederla più. All’epoca ancora non sapevo che non sono io a prendere certe decisioni.

Non la vedo né rispondo alle sue chiamate durante le feste di Natale di quell’anno. Ho finito l’università, e non ho occasione di incontrarla. Ma Liliana compare alla mia festa di compleanno del 14 gennaio seguente. La serata finisce in una baraonda senza precedenti. Mi risveglio in un infimo hotel con Liliana al mio fianco. Non ho ricordi del giorno prima, ma posso ricostruire quello precedente. Ricordo soprattutto che Liliana mi racconta per la seconda volta l’omicidio di Honduras. Aggiunge alla sua versione un dettaglio sinistro: lei e Dorotea vanno a vedere il cadavere. Dorotea lo tocca con il piede per verificare che sia morto.

Sparisco, di nuovo spaventato, dalla vista di Liliana. Lei mi cerca ma non mi faccio trovare. Alla fine le mando una lettera chiedendole una tregua: possiamo non vederci per qualche mese? Voglio fare chiarezza, farò un viaggio, devo scrivere un libro. Liliana risponde: «Non è la fine del mondo, scemo».

E invece lo è.

Il giorno in cui Liliana va per la prima volta in vacanza con il Pato Vértiz mi telefona. Dice: «Se mi ci porti tu, vengo con te».

Non ho soldi per portarla in vacanza, né voglio farlo. Mi vengono le vertigini a pensare a dove potrebbe trascinarmi, e a sapere che ci voglio andare. La mia storia con lei è così.

Il giorno in cui Liliana finisce l’università, il Pato le regala un appartamento perché vadano a viverci insieme. Lei accetta. Prima di trasferirsi, mi manda una busta con un messaggio in cui mi avverte di quello che avrebbe fatto. Alla fine scrive: «Se me lo chiedi tu, vengo con te».

Non glielo chiedo, ma le telefono per dirle di non andare a vivere con il Pato.

Risponde: «Cosa mi offri?»

Le dico che non posso offrirle nulla ma che non si deve trasferire con il Pato.

Risponde: «Il treno della vita passa una volta sola, Serranito».

Serrano è il mio cognome. In quella conversazione inizio a essere Serranito. Il diminutivo dice tutto quello che c’è da dire: la paura che ho della donna che amo mi sminuisce ai suoi occhi. E ai miei.

L’anno successivo, per fuggire dal ricordo di Liliana, mi sposo con Aurelia Aburto, una collega del giornale dove ho iniziato a lavorare. È un quotidiano di sinistra dal quale mi licenzieranno e dove mi farò nemici per tutta la vita. A cominciare da Aurelia.

Un venerdì di settembre del 1980, come ho riportato su un taccuino, vedo per la prima volta Liliana nel suo ruolo di fidanzata del Pato Vértiz. Succede all’alba in una locanda per insonni in calle de Tlacoquemécatl, a pochi passi dall’appartamento dove vivo, a colonia Del Valle, Città del Messico. Nella locanda di Tlacoquemécatl fanno zuppe piccanti e costolette alla brace. Vado spesso a fare colazione lì all’alba. Di solito prendo uova strapazzate e salsiccia, tortillas di mais e café de olla. Faccio colazione presto per prepararmi alle mie mattinate di scrittura. In quel periodo scrivo dalle otto di mattina alle tre del pomeriggio, orario in cui devo andare al giornale. Liliana e il Pato arrivano alla locanda mentre sta facendo giorno, ebbri dalla notte appena trascorsa. La vedo ridere e cantare insieme al Pato, gettarsi tra le sue braccia, massaggiargli la nuca, baciargli il collo, dargli da bere da una bottiglia di rum che tira fuori dalla borsa. Né Liliana né il Pato mi vedono perché quando entrano sgattaiolo in cucina. Li osservo di nascosto, tra i fumi delle fritture e le pentole di brodo bollente, con la complicità di una cuoca di nome Chole.

Alla fine di quell’anno mi separo da Aurelia Aburto. Inauguro un’epoca da single sfrenato. Imparo ad arrivare alla locanda di Tlacoquemécatl sottobraccio a donne con cui ho bevuto e ballato tutta la notte. Evito con attenzione Liliana, ma sento parlare di lei. Storie di promiscuità, storie di alcol, storie di soldi alle spalle del Pato. Felo Fernández mi tiene informato.

Penso che Liliana sia stata disonorata dal Pato come sua sorella Dorotea da Honduras. Ma nessuno fa uccidere il Pato come Liliana ha fatto uccidere Honduras. Liliana ha difeso Dorotea meglio di quanto io abbia difeso Liliana.

Un giorno Felo Fernández mi dice che il Pato è stato ricoverato già due volte in clinica per disintossicarsi dall’alcol. Saperlo mi rende felice. L’anno dopo scopro che Liliana canta in un bar. Vedo l’annuncio per caso sul giornale. Una sera ci vado di nascosto, all’ultimo spettacolo, ormai è notte alta. Mi siedo a un tavolo buio in fondo. La vedo brillare sul palco. Ha le labbra argentate, brillano sotto l’unico riflettore come fossero laccate. La scollatura bianca fa vedere l’inizio dei suoi piccoli seni rotondi. Anche le braccia nude sono rotonde. Canta con una voce che mi annebbia la vista. Piango, pago e me ne vado prima che Liliana finisca di cantare.

In quel periodo mi sbattono fuori dal giornale e mi sposo una seconda volta con una donna che qui chiamerò Josefa. Pubblico un romanzo ambientato nella redazione di un giornale. I miei ex colleghi si sentono malignamente ritratti in quella storia. Lo ritengono un tradimento alla confraternita dalla quale mi hanno espulso. Il libro ha un successo ragionevole. La casa editrice dove lavoro da quando ho lasciato il giornale, dove lavora anche Josefa, la mia seconda moglie, mi offre un posto nella sede principale, a Barcellona. Passo sei anni in Spagna, Josefa compra un appartamento, perdiamo un bambino, scrivo e pubblico due romanzi.

Felo Fernández mi scrive regolarmente. Da lui so il poco che so di Liliana in quegli anni: altra promiscuità, altro alcol, diversi protettori. Con uno di loro mette su un bar. Con un altro un negozio di articoli da regalo. Il Pato resta in disparte. Ha perso potere, ha perso Liliana, è tornato con la prima moglie e vive della protezione di Olivares. È l’ombra di sé stesso.

A mio modo, lo sono anch’io.

Torno dalla Spagna divorziato da Josefa, che mi lascia durante una vacanza di riconciliazione a Melilla. Quando torno in Messico ho trentasei anni, Liliana trentaquattro, il Pato Vértiz cinquantaquattro.

Un pomeriggio incontro Liliana in un ristorante a sud di Città del Messico. Il ristorante, oggi scomparso, si chiama Los comerciales. Ha la particolarità che i camerieri fanno degli scherzi ai clienti, gli mettono in testa buffi cappelli, cantano in coro per il loro compleanno, gli portano pasticcini con candeline accese. Si mangia molto bene da Los comerciales. Liliana è seduta a un tavolo e parla animatamente con un uomo che si tinge i capelli di nero. Indossa un blazer con un fazzoletto turchese dello stesso colore della sua cravatta. Liliana viene a salutarmi attirando l’attenzione di tutta la sala. Mi tocca con entrambe le mani il petto e le braccia, più volte, come chi invita a combattere.

«Sei molto magro» mi dice, «perché così magro?»

È truccatissima, con le labbra di un arancio acceso il cui retrogusto dolciastro le impregna il fiato, insieme a una traccia di tequila che sta bevendo a pranzo o ha bevuto la sera prima. Dice: «Dobbiamo vederci, stronzo».

Mi dà il suo numero di telefono e si segna il mio. Quando torna al tavolo posso guardarla senza che mi veda. È quello che vuole, e questo faccio. Ha un vestito verde che le lascia le braccia scoperte, le sottolinea la vita, le cinge i fianchi. Sa che la sto guardando. Cammina a lunghi passi, sicuri del proprio effetto. Quando si avvicina al suo tavolo si mette la mano sinistra fra i capelli che le cadono sulle spalle, e li solleva fino a mostrare la nuca. Poi li lascia cadere con abbandono da diva.