Non è stata mai bella come in questi in giorni in cui è pazza. Non è stata mai pazza come in questi giorni in cui ricade nella sua follia.
Averla con me è condividere quella follia. Una sera non torna a dormire, esce a mezzogiorno e non torna. Non posso far altro che aspettare il suo ritorno. Lo faccio nel modo peggiore: seduto alla mia scrivania di scrittore, a far finta di leggere o scrivere, attento all’unico rumore che mi interessa che è quello della serratura della porta dalla quale apparirà Liliana. Compare a mezzogiorno. Sento girare la chiave nella serratura dalla mia scrivania. Mi metto a fingere attivamente di scrivere.
«Intera e senza un graffio» dice dalla porta la sua voce remota, divertita, ben consapevole della mia attesa.
Non rispondo né mi muovo.
«Senza un graffio» grida di nuovo, sfidando il mio silenzio.
Non lo sfiora nemmeno. Si dirige allora verso lo studio ritta sui tacchi.
«Senza un graffio» dice per la terza volta, in piedi di fronte alla mia scrivania.
Ha i capelli elettrici e gli occhi neri di rimmel sulle palpebre. Ride del mio silenzio e del mio sguardo. Si volta.
«Mi faccio una bella doccia e sono tua».
Torna dal bagno avvolta in degli asciugamani. Ha la faccia lavata di una bambina.
«Non è successo nulla, Serrano. Vuoi che ti racconti o mi offri qualcosa da bere?»
Le offro qualcosa da bere. Casa mia si è pian piano riempita di possibilità di bere qualcosa. Nella credenza ci sono bottiglie di vino che non finiscono perché vengono rinnovate giorno dopo giorno, in un accordo tacito per il quale deve esserci sempre una riserva. L’immaginazione che anticipa il consumo ha riempito scaffali e mensole della sala da pranzo con ornamentali dotazioni di tequila e whisky, file del nostro rum eponimo e dell’immancabile vodka di Liliana.
È scalza e umida, scurissima, avvolta nei suoi asciugamani bianchi. Dice: «Ho fame, Serrano. Mi porti a mangiare alla Cantera?»
Mi sta chiedendo di andare a mangiare a La Casa de Cantera, un ristorante di cucina messicana che vive i suoi giorni migliori in calle Yucatán, colonia Roma. Il tipico posto dove si va in tre, ci vanno le segretarie con i loro capi, c’è una calda atmosfera di coppie che si preparano a chiudersi in una stanza d’albergo fino a sera. Il posto è effettivamente scavato in una pietra rosata. Gli interni di piastrelle e azulejos sono una trovata di architetti che imitano la tradizione. So quello che Liliana dirà quando entreremo: «Qui aveva sempre un tavolo Renato Leduc, poeta, giornalista e donnaiolo».
Questo dice al nostro arrivo: «Il tavolo di Renato».
Allungo una banconota al maître e gli chiedo il tavolo di Renato. Il maître ci permette quella messinscena. Renato non ha mai mangiato né ha mai potuto avere un tavolo qui. Il maître ci porta al tavolo di Renato in un generoso angolo del ristorante.
«Prima di cominciare, recitami il Prometeo sifilítico» chiede Liliana quando ci accomodiamo.
È la poesia di Leduc che abbiamo fatto nostra da quando suo fratello Rubén ce la lesse per la prima volta, mille anni fa. È un’ode al linguaggio e alle puttane del suo tempo. Nella poesia Leduc suggerisce che gli dei abbiano consumato le interiora di Prometeo con una gonorrea perché questi insegnò agli uomini che non c’era una ma quarantasei posizioni per fornicare.
«Dimmela, Serrano, me l’hai insegnata tu. ‘Los hombres miserables por el monte / vagaban, persiguiendo a las mujeres’.3 Dimmela, Serrano. ‘Y tu coito tenía los caracteres / que tiene el coito del iguanodonte’.4 Me l’hai insegnata tu, Serrano. Recitamela tu».
Le dico che è stato Rubén a insegnarcela.
«Chi si ricorda di Rubén, Serrano? Chi vuole parlare di Rubén? Vuoi che mi rinsecchisca a forza di pensare a Rubén? Leduc me l’hai insegnato tu, Serrano. Qui aveva sempre il suo tavolo, un po’ in disparte. Ti confesso che ho cercato di portarmelo via un giorno da un altro ristorante, credo che si chiamasse El rincón de Cúchares. Era già sulla novantina, qualche anno prima che morisse. Gli ho detto: ‘Io ti sostengo, Renato, ti copro e ti appoggio e puoi morire tra le mie braccia’. Ma era già molto cieco, e molto vecchio, anche se era un vecchio molto bello. Nei suoi anni migliori, dev’esser stato una delizia. Tu assomigli a Leduc, Serrano, ma ne hai approfittato ben poco. Dimmi quell’altra poesia che dicevi sempre di Leduc, quella del fumo e del vento. Mi sei sempre piaciuto quando declamavi, Serrano. Mi sei sempre piaciuto, cazzo. E ora che stiamo insieme, ancora di più. Non mi voglio trattenere, non inibirmi. Come diceva? ‘Si el humo fincara, si retornara el viento’.5 Dillo, Serrano: ‘Si usted, una vez más, volviera a ser usted’.6 Tu sei tornato a essere quello che non sei mai stato con me, Serrano. Che cosa beviamo?»
Ordina il doppio di quello che beviamo. Mentre lo fa, ricordo la palma secca e scura che c’era di fronte a La Cava, il ristorante di lusso di un altro tempo. A La Cava andai con Liliana la prima volta che la vidi pagare un conto con i soldi del Pato Vértiz. Aveva appena iniziato a frequentarlo ed era già piena di carte di credito e banconote nuove di zecca, credo di averlo già detto in un altro momento. Mi diede appuntamento lì come chi invita a cena con il primo stipendio che ha guadagnato al lavoro. Mi disse: «Non immagini le cose che fa il Pato né quello che io faccio a lui. Non sono cose per scrittori come te. Gli scrittori come te devono immaginarsi tutto». Riesco ancora a sentire la sua voce roca che dice: «Io sono già decollata, Serranito. Ti aspetto in cielo». Più tardi quando ce ne stavamo andando da La Cava, mi disse: «Quando arriverà il momento di farla finita con il Pato e avrò la possibilità di venire per conto mio in questo posto, io e te ci incontreremo qui, Serrano, e vivremo la storia che è già scritta per noi sul palmo delle mani. Tu e io saremo di te e di me».
In quel periodo, adorava che le recitassi dei versi di García Lorca che io le avevo messo in testa, insieme a quelli di Leduc. Quelli di Lorca erano questi:
Las piquetas de los gallos
cavan buscando la aurora
cuando por el monte oscuro
baja Soledad Montoya.7
Quando le dicevo quei versi, mettevo il suo nome, Liliana, al posto di Soledad. La conquistava. Mi chiedeva: «Di che monte oscuro parli, Serrano?» Parlavo del suo, ovviamente.
Siamo usciti da La casa de la Cantera al tramonto.
«Voglio cantare, Serrano. Vuoi che canti per te? Conosco un bar perfetto, mi ci porti?»
Mi trascina al bar dell’hotel Amberes dove c’è un pianista di nome Antonio che la riceve come fosse l’ospite d’onore. Liliana ordina una bottiglia e canta tre canzoni. Ha una voce tersa e profonda, si è messa il rossetto rosso sulle labbra e brillano quando modula le parole, come se le baciasse nella penombra del bar. L’ultima me la dedica dal pianoforte, con il microfono. La canzone si chiama La mentira, la bugia. Viene a cantarla al nostro tavolo. Canta di fronte a me, con gli occhi accesi come le labbra:
Se te olvida
que me quiere a pesar
de que lo dices.8
Un idiota viene a chiedere se ci può offrire un bicchiere e chiederle una canzone. Rispondo che non è un jukebox. Liliana sorride vanitosa.
«Solo una volta ti sei battuto per me, Serrano. Mi basta quella. Non farci caso».
Alla fine del suo turno, il pianista Antonio ci raggiunge al tavolo. Ha della brillantina sulle tempie argentate e dei baffetti brizzolati, come un crooner d’altri tempi.
«Lei deve registrare un disco, signora» dice a Liliana. «Non può non incidere la magia di questa voce».
Canticchia con quello che le resta di una voce annegata dalle sigarette:
Se te olvida
que hasta puedo hacerte mal
si me decido.9
«Si decida, signora» le dice il pianista.
«Sono decisa, Antonio. Per ora scelgo questo signore».
«Questo signore» sono io.
Il tipo che vuole una canzone da Liliana si avvicina di nuovo al tavolo. Il pianista Antonio si alza e lo porta al suo tavolo. Il recidivo mi guarda incolpandomi e mi indica con il dito. Indossa una camicia blu con una spilla da colletto e una cravatta rossa. Ha una gran testa di capelli color paglia, disordinati dall’alcol.
«Rumba?» dice Liliana quando usciamo dall’Amberes.
Torniamo a colonia Roma, a un paio di isolati da La Casa de la Cantera dove siamo stati a mezzogiorno. Il posto si chiama El gran León. È quello che resta, in una versione urbana, corretta e aumentata, del Bar del León di calle de Brasil, in centro, dove andavamo da giovani. Ci suona lo stesso complesso riciclato di anni prima: Pepe Arévalo e i suoi mulatti. Ci danno un tavolo vicino alla pista. Viviamo l’epifania di un ritorno al passato. La musica è più forte, le luci più accecanti, il viaggio verso i nostri ricordi più rumoroso. Liliana ha in borsa la bottiglia non finita del bar dell’Amberes ma ne chiede un’altra. Appena la portano, entra un gruppo che si siede accanto al nostro tavolo. Nel gruppo c’è il tizio che chiedeva canzoni al bar Amberes. È più ubriaco di noi ed è più alto di me. La cravatta rossa continua a essere bloccata dalla spilla sul colletto della sua camicia blu, ma i suoi capelli di paglia sono più arruffati.
«Tu sei quello di prima, eh?» dice, prima di sedersi al tavolo accanto. «E lei è quella che non vuole cantare per i suoi ammiratori. Capito, amico. Check».
Liliana chiama il cameriere e gli dice qualcosa all’orecchio. Poi sussurra a me che farà finta di andare in bagno, e che io dovrò poi alzarmi e uscire dal locale. Lei mi aspetterà fuori.
Quando Liliana si alza il tizio con la cravatta rossa le dice: «Qui me ne canti una?»
Ha tirato fuori un sigaro che accende guardando fisso Liliana mentre aspira e ingrandisce la brace.
«Quando torno dal bagno» gli dice Liliana.
Aspetto che faccia la sua mossa e io faccio la mia verso l’uscita.
«Voglio portarti nella mia tana» dice Liliana una volta in strada.
Dà istruzioni al taxi di attraversare paseo de Reforma, lasciare colonia Roma, prendere verso colonia Cuauhtémoc fino a calle de Río Rhin. Le strade di colonia Cuauhtémoc hanno nomi di fiumi. Il taxi si ferma di fronte a un palazzo di pietra e ferro battuto spagnolo, il cui enorme garage si è trasformato in un sontuoso foyer che dà accesso ai tre piani della casa. Il posto si chiama Olimpus, è un club di coppie che cercano coppie. Ci sono stanze scure di diversa grandezza dove si mescolano coppie in numeri diversi: quartetti, sestetti e orchestre sinfoniche. C’è un bar dove ci si accorda su tutto, e si può anche bere e basta. Dal fondo della cucina che ora è l’intendenza, stiva di alcol e sostanze stimolanti, esce, antico come lui solo, il pusher del vecchio Cíngaros, l’immutabile ed elettrico Minerva. Sulla fronte ampia ha la stessa zazzera da leone, ora però non è liscia ma arruffata in una cresta, come un’ortensia nera in cima al gambo retto e sottile del suo corpo.
«Solita camera?» chiede Minerva.
«Solita camera» dice Liliana.
«Pacchetto completo?» chiede Minerva.
«Prima facci svegliare e poi facci rilassare» ordina Liliana.
Tutto questo è per me ridicolo e misterioso.
Minerva ci porta in una camera dell’ultimo piano, a suo tempo la terrazza, dove tutto il pavimento è materasso. Un materasso ad acqua. C’è una sola finestra che non ha tende né si affaccia da nessuna parte. Questa sera lascia entrare la luna.
Mentre Minerva arriva con la dotazione, Liliana si spoglia, mi spoglia e ci avvolgiamo nella trapunta che c’è piegata sul letto. È leggera e lisa. Ci si può immergere e coprire più volte, come in un mare di seta.
Minerva porta a Liliana una bottiglietta d’acciaio con della vodka in un secchiello per raffreddare lo champagne. Ci lascia anche un portapillole di lapislazzuli con una bustina di coca e pasticche a me sconosciute. Liliana apre la bustina con frettolosa distrazione. Parte della polvere cade sulla trapunta. Ne cerca le tracce con il naso e aspira con una narice. Poi con l’altra. Solleva quello che resta della polvere con le dita e me lo passa sul naso, poi mi mette le dita tra le labbra e le sfrega contro le mie gengive. Mentre lo fa respira profondamente, quasi gemendo, come se fosse sul punto di venire.
«Non ti sei mai preso cura di te, Serrano. Ora ci penso io».
Poi parla senza sosta. Di noi, del tempo perduto. E di Honduras. I riti sono riti: «Ti ho raccontato di quando ho fatto uccidere uno, Serrano?»
Eccoci infine dove dobbiamo essere, dove siamo sempre stati.
Le dico che me lo ha raccontato tre volte.
Tre volte?
Le dico che le tre volte la storia era diversa, le versioni non coincidono tra loro, né con la data dell’esecuzione che ho controllato.
«Non corrispondeva? Che data non corrispondeva, Serrano?»
Non corrispondeva con la data che mi hai detto tu, le dico.
«E che data ti ho detto, Serrano?»
Le dico che era il giorno di san Valentino, il 14 febbraio del 1978.
«Non del 1978, Serrano. Del ’79. Il 14 febbraio del 1979, non essere stupido».
Le dico che ho già corretto la data da solo, ho scoperto l’errore indagando.
«Indagando, Serrano? Hai fatto indagini su quello che ti ho detto? Perché?»
Le dico tanto per sapere.
«Per sapere un corno, Serrano. Perché? Per scrivere un romanzo con la mia storia, eh? Non ti basta viverla? Non hai imparato niente, Serrano. Vuoi sapere una cosa? Fai quello che ti pare, ma non venire qui con queste stronzate dell’investigazione. Perché mai dovresti investigare? Chiedimi quello che vuoi, e io te lo racconto, non come i tuoi testimoni della strage di Huitzilac che non sapevano un bel niente. Una cosa te la dico, Serrano: mi sembri un avvoltoio che fruga tra i cadaveri. Non ti importa, mi chiedo. Dimmi solo una cosa prima: mi credi capace di una roba come quella che dici che ti ho raccontato o credi che parli tanto per parlare?»
Le dico che credo entrambe le cose.
«Allo stesso tempo, Serrano?»
Le dico prima una e poi l’altra.
«Prima l’ho fatto e poi me lo sono inventato, Serrano?»
Annuisco e lei si infiamma: «Quindi credi che io sia stata capace di farlo, stronzo che non sei altro? E poi di inventarmelo, par farla più grossa di quello che era?»
Annuisco di nuovo.
«E per questo ti faccio paura, Serrano? Per questo ti ho fatto paura tutto questo tempo?»
Annuisco doppiamente.
«E per questo non mi hai amata, brutto stronzo?»
Le dico che non ho mai amato nessuno quanto lei.
«Senza avere le palle, però» rimprovera.
Ammetto di sì, senza palle.
«Almeno hai le palle di riconoscerlo, stronzo. Ma a cosa ci serve ora?»
Le dico che almeno può avermi come mi ha. Con un’erezione degna di un ragazzino di quindici anni, di quelle che non mi vengono più se non nel sonno.
Mi scopre e sorride: «A chi starai pensando, Serrano?»
Allunga la mano per toccarmi mentre parla, perché quello che vuole fare è parlare.
«Vuoi sapere che cosa è successo davvero, Serrano? Tu mi credi capace di tutto quello che ti ho raccontato perché sei molto credulone, o molto presuntuoso, non so. Come te lo dico? Io non ne ero capace, Serrano, ma lo sono diventata. Sai chi mi ha spinto a farlo? Dorotea. Ci credi che è stata Dorotea? Non mi ha lasciata in pace finché non ho detto al Pato che bisognava far fuori Honduras. Non mi ha lasciata in pace finché il Pato non ha detto sì. E poi, finché il Pato non ha portato a termine la cosa. E poi nemmeno ti racconto. È stata Dorotea, tutto il tempo, Serrano. Mi credi?»
È molto ubriaca e lo sono anch’io. I riti sono riti.
Le dico: «Tu hai ordinato che lo uccidessero ma non l’hanno ucciso perché l’avevi ordinato tu. L’hanno ucciso per caso. Poi hanno fatto credere al Pato che fosse il suo morto, e il Pato l’ha fatto credere a te».
Non sente quello che dico perché quello che vuole è parlare. L’autonomia del suo discorso è assoluta, si sofferma solo sulla propria necessità di propagarsi: «C’è una cosa che voglio confessarti, Serrano. Non sono stata io a farlo uccidere. L’idea non era mia. L’idea era di Dorotea. Era Dorotea che mi chiedeva tutti i giorni di pretendere dal Pato una resa dei conti. Mi credi? Era Dorotea che voleva andare a vederlo morto. La mia sorellina Dorotea. Mi credi? Poi venne il processo per Honduras, su richiesta dei suoi familiari. Il procuratore amico del Pato chiese al Pato una spiegazione. Il Pato si inventò una storia, disse che l’esecuzione gliel’aveva chiesta un gerarca dell’università, il cui nome non poteva rivelare. Disse che il gerarca si sentiva oltraggiato perché Clotaldo aveva fatto prostituire la figlia».
È la prima volta che dice il nome di Honduras: Clotaldo. Uno dei nomi che avevo letto sui giornali. Lo dice con una familiarità che mi suggerisce un risvolto ancora ignoto di questa storia. Continua nella sua deriva inarrestabile: «Il gerarca universitario di cui parlava il Pato ero io. Il Pato volle coprirmi, come io avevo coperto Dorotea. Il procuratore amico del Pato fece sparire il fascicolo giudiziario, ma poi lo sventolarono sotto gli occhi del Pato quando stava per diventare deputato. Un suo amico di tutta la vita, un suo uomo di fiducia, lo minacciò di far arrivare quel fascicolo e tutta la storia alla stampa. Ti ricorda qualcosa, Serrano? Ne sai qualcosa? Credi almeno a una parola di quello che ho detto? Ordinami un’altra bottiglietta di vodka. Qui, con questo campanello. Vado in bagno con quello che resta della coca».
Quando torna dal bagno le dico, le ripeto, dall’alto della nostra sbronza: «Tu hai fatto uccidere Honduras ma non l’hanno ucciso perché tu l’avevi ordinato. L’hanno ucciso per un’altra ragione, l’hanno ucciso per caso. Poi l’hanno venduto al Pato come il suo morto, e il Pato a te».
«Di cosa parli, Serrano. Non fare il romanziere. Dammi un bacio, vieni qua. Dammi un bacio che serva a qualcosa».
La luce del mattino entra dalla nostra finestra quando scendiamo. Mentre attraverso l’ingresso a braccetto con Liliana qualcosa mi colpisce e cado a terra. Dal pavimento vedo il tizio con la camicia blu e la cravatta rossa che mi invita a rimettermi in piedi per batterci. I capelli color paglia sono diventati una zazzera folle sulla sua testa.
L’ultima cosa che ricordo è che il tipo mi si avvicina con un pugnale, Liliana si mette tra noi, io ho una tovaglia su un braccio e una bottiglia in mano per riceverlo. Sento gente strillare e correre intorno a noi.