Il mio incubo ospedaliero con il Pato Vértiz come protagonista si avvera all’uscita dall’ospedale. Resto a casa convalescente per due settimane. In quelle due settimane Liliana ha ricominciato a prendere le pillole che le assicurano la pace. Fa le veci di un’infermiera, molto calma, o sul punto di calmarsi. Si prende cura di me con sollecitudine e sottomissione da monaca, anticipando nelle sue cure che l’ho persa. Che lei ha perso sé stessa. E ha perso me.
Un pomeriggio in cui i riflessi dorati del sole riscaldano le finestre Felo Fernández fa entrare nel mio studio il Pato Vértiz. Lo fa con il consenso di Liliana. Il Pato, dice Felo, vuole raccontarmi un segreto, mettersi nelle mie mani. Devo ascoltare e decidere. Ho per Felo Fernández un debole equivalente a quella che lui ha per il Pato Vértiz. Mi rassegno ai fatti compiuti. Il Pato entra nel mio studio portando con sé un fardello di carte tra il braccio destro e il fianco titubante. Liliana esce dallo studio con circospezione malinconica, in quella che mi sembra una fuga architettata con Felo. Distratto dall’uscita di scena di Liliana, Felo resta qualche momento in più. Liliana riappare sulla porta e gli chiede con l’indice che esca anche lui.
Resto da solo con il Pato Vértiz: la testa calva e lentigginosa, il naso ammaccato, la pancia oscena, le labbra scure per l’asma o l’enfisema. So di essere vittima di un’imboscata.
Il Pato mette le sue carte sul tavolo della piccola sala che c’è tra le mie due scrivanie imperiali. Si dispone a dirmi quello che vuole. Lo interrompo prima che parli. Dico che ascolterò quello che ha da dirmi solo se mi dice anche tutto quello che sa di Honduras e Dorotea. La mia condizione lo fa sprofondare nella sedia sottolineando che vive in preda alla paura. A partire da quel momento la conversazione è nulla per me, sebbene il Pato abbia qualcosa di interessante da raccontare riguardo questa storia.
Le carte che ha messo sul tavolo riassumono, dice, le ricerche che ha fatto in questi anni sul suo antico protetto Antúnez. Non sta eludendo la mia domanda su Dorotea e Honduras, precisa, né ha intenzione di farlo. Sono anni che raccoglie prove dei crimini della polizia proprio all’epoca dell’omicidio di Honduras, origine remota, secondo lui, di tutto quello che sta succedendo adesso, compresa la mia convalescenza. Fa tutto parte della vendetta di Antúnez, dichiara.
Gli dico che non capisco perché Antúnez dovrebbe preoccuparsi di una denuncia sugli usi e costumi della polizia negli anni Settanta, quando lui non era altro che un burocrate. Il Pato dice di aver scoperto nelle sue ricerche che Antúnez continua a offrire il servizio di «igiene sociale» che offriva la polizia di allora. «Igiene sociale» significa che, dietro richiesta della parte lesa in seguito a delitti di sangue o d’onore, la polizia di allora liquidava il delinquente. Il Pato dice di avere le prove di vari di quei crimini. E di vari di quelli che Antúnez ha compiuto in tempi più recenti. Nel caso di Antúnez non si tratta di un residuo criminale del passato, ma di un’associazione per delinquere di adesso.
Il Pato dice di aver commesso l’errore di aver confidato le proprie scoperte al defunto Olivares e questi di averlo commentato, un po’ scherzando un po’ sul serio, con Antúnez. Olivares parlava ad Antúnez con una confidenza sdegnosa perché erano amici da molto tempo e perché Antúnez offriva servizi di spionaggio politico al sottosegretariato di cui Olivares era titolare e dove il Pato, suo mentore di altri tempi, aveva una borsa di studio. La risposta di Antúnez era stata niente meno che la morte del defunto Olivares.
«Olivares è morto poche settimane dopo la sua conversazione con Antúnez» sentenzia il Pato.
Secondo il Pato, quella morte non era stata altro che un’avvertenza funebre per lui.
Mi chiedo perché Antúnez abbia deciso di allontanare dal mondo il defunto Olivares, che era solo il messaggero, e non la vera minaccia, che era il Pato. Perché lui e Antúnez si controllavano da anni, risponde il Pato, e Antúnez sapeva che non sarebbe stato facile beccarlo. E poi, perché quando aveva saputo che Olivares aveva parlato con Antúnez, il Pato aveva messo in salvo le proprie carte e aveva avvertito Antúnez che le avrebbe rese note se gli fosse successo qualcosa. Antúnez si sfogò quindi contro Olivares. Il giorno successivo alla veglia di Olivares, il Pato fece sapere ad Antúnez che aveva ricevuto il messaggio e che accettava i suoi termini di silenzio. Lo fece attraverso un necrologio di cui il Pato mi ripete il messaggio cifrato parola per parola e io lo cancello man mano che me lo ripete.
È in quel momento che entro in gioco io, secondo il Pato. L’allarme per Antúnez scatta quando io chiedo a Felo Fernández se conosce qualcuno che mi può procurare il fascicolo di Honduras. Felo non sa niente della cosa e fa riferimento ad Antúnez. Antúnez crede di leggere nella mia domanda che il Pato si è rimesso sulle sue tracce, usando questa volta lo scrittore idiota per far scoppiare lo scandalo.
«Avevi le tue ragioni per chiedere notizie di Honduras, scrittore» dice il Pato, «ma Antúnez ha avuto l’impressione che, una volta morto Olivares, io volessi buttare te nell’arena».
Gli chiedo se crede che anche la coltellata che mi sono preso sia un avviso di Antúnez per lui. Mi dice che ha la certezza che sia così: tutto questo, secondo lui, è legato.
Tutto questo è un argomento così debole che forse il Pato non si sta inventando nulla e, in effetti, non fa che ripetere la realtà. A peggiorare le cose è il tono di forzosa rivelazione con cui il Pato lo racconta. Divaga penosamente, fa pause e giri di parole che appartengono a uno stile di discorso pubblico la cui specialità è nascondere i dubbi e dissimulare le convinzioni. La mia opinione sulla sua storia mi si deve leggere in faccia. Esco dall’impasse dicendo che nulla di quanto ha detto risponde alla mia domanda su Dorotea e Honduras. Allora il Pato si chiude. Lo guardo con quella che giudico una fissità gelata per sottolineare che non può andare avanti né con una premessa né con un giro di parole. Prende nota e dice: «Quella sera sono stato sul luogo della morte di Honduras».
Guarda il soffitto, si sfrega le mani.
Continua: «Mi hanno fatto delle foto».
Si passa la mano sinistra sulla pelata, poi la destra.
«Con quelle foto mi hanno poi ricattato, scrittore».
Alza lo sguardo, lo abbassa. Aggiunge: «Me e chi era con me».
In me freme il palpito della divinazione, l’imminenza della scoperta. Gli chiedo chi c’era lì con lui. Ripeto lo sguardo che lo intimorisce, lo sguardo che non lo guarda, che gira intorno a lui suggerendo un’impazienza omicida che potrebbe traboccare se lui facesse la mossa sbagliata.
Si alza in piedi, si sfrega i fianchi magri sotto il pantalone floscio che ormai non riempie più.
«Non è stata Liliana a venire con me, scrittore, te lo devo dire».
Lo guardo ora fisso negli occhi. Ordinandogli di andare avanti. Ha iniziato a sudare come se lo illuminasse un fiammifero da vicino. Dice: «È stata Dorotea».
Un fiotto di gioia divinatoria scorre dalla mia sudatissima schiena di malato al mio ampio petto di veggente. Il Pato continua.
«Questo sì che ti avrebbe fatto rizzare i capelli, scrittore. Dorotea in quel posto».
Cammina di fronte a me, ora assorto nella visione di quello che racconta: «Dorotea che guarda il cadavere di Honduras, scrittore. Pensa questo: gli ha girato la testa con il piede per vederlo di lato. Poi l’ha fatto di nuovo per vederlo di fronte. Io avevo visto Dorotea e Honduras insieme, scrittore. Eravamo usciti con loro io e Liliana. Avevo visto Dorotea completamente abbandonata a Honduras, innamorata, come Liliana con me. Non è presunzione, non scaldarti, era davvero così. Non so come fosse possibile che io e Clotaldo avessimo quelle due incredibili sorelle ai nostri piedi. Qualcosa nel mondo non funziona quando possono accadere cose del genere, scrittore, ma succedono. Le ho viste succedere per tutta la vita. All’università, fuori dall’università. Ragazze che cercano di farsi strada nel mondo. Che vuoi che ti dica. Le amavamo e abusavamo di loro. Ma loro volevano che lo facessimo. Non ti arrabbiare. Non gli piaceva se non abusavamo di loro. Volevano essere parte del mondo, macchiarsi. E noi le abbiamo macchiate, scrittore. Le abbiamo macchiate, davvero».
Quest’ultima frase gli fa affiorare sulle guance una congestione di emozione e una patina di lacrime sugli occhi.
Gli chiedo di risparmiarsi i commenti e tornare ai fatti. Dice che Honduras fu ucciso a mezzogiorno. Antúnez gli mandò le foto di Honduras morto nel pomeriggio e lui le portò a Liliana la sera. Liliana le mostrò a Dorotea. Dorotea volle vedere il cadavere. Antúnez ordinò a Neri di accompagnarli sul luogo del delitto. Neri ce li portò. Mentre contemplavano il cadavere di Honduras, senza dirgli niente, Neri gli fece due fotografie. Antúnez le fece arrivare tempo dopo al Pato. Il Pato le distrusse. Anni dopo, quando si ritrovarono a spartirsi un posto da deputato a Città del Messico, Antúnez gli mandò di nuovo le foto e gli disse che le avrebbe fatte avere alla stampa, con tanto di storia, se il Pato non si ritirava e non lasciava il posto a lui. Il Pato ritirò la propria candidatura dal partito.
Fu il suo peggior errore, dice. Far capire ad Antúnez che aveva paura. Antúnez diventò in effetti deputato, e poi fece la carriera politica che sarebbe toccata a lui. Non molto lunga, dati i suoi meriti, ma quella che toccava a lui. Quando tutto era finito Neri si presentò un altro giorno con le foto. Anche lui ne aveva conservato una copia e voleva dei soldi. A Neri diede soldi per dieci anni. Non sa se Antúnez lo controllava. Per molto tempo pensò di sì, che quello era il modo di Antúnez di ricordargli che era nelle sue mani. Pensò di vendicarsi facendo una ricerca sui crimini dell’epoca nei quali Antúnez era almeno complice minore. Voleva una vendetta politica nell’altra accezione della parola politica. La politica come responsabilità, dice, come servizio alla comunità contro gente come Antúnez. Seguendo quelle tracce, scoprì che Antúnez era ancora legato alla vecchia scuola. Uccideva delinquenti per «igiene sociale».
Le ricerche non sono finite qui, dice il Pato. I fascicoli, di cui mi lascia una copia sul tavolo, non contengono prove. Non esiste una corrispondenza giuridica precisa tra imputazioni e prove. Per questo non ha ancora diffuso quelle informazioni. Vuole fare le cose per bene: non vuole mettere a repentaglio nessuna informazione che possa trasformarsi in un’accusa penale. Non vuole ammassare prove buone per i giornali e l’opinione pubblica, ma deboli per i giudici. Vuole affondare Antúnez, non semplicemente togliergli un po’ di prestigio.
Dice tutto questo tra esitazioni e scuse anticipate. Sento la profonda debolezza non delle informazioni che può aver raccolto ma della prospettiva morale dalla quale pensa di utilizzarle. È in preda alla paura. Ha perso da molto tempo il senso dell’impunità o la certezza dell’innocenza che sono la corazza spirituale del coraggio. Ho l’impressione che in fondo alla sua testa non voglia combattere con Antúnez, ma negoziare con qualcuno. Non ha chiara né una cosa né l’altra, e per questo non può, come non ha potuto fare in passato, combattere né negoziare.
Gli chiedo se Neri ha portato le foto di Honduras anche a Dorotea, se ha cercato di ricattare anche lei. Scopro mentre lo dico che a questo punto della mia convalescenza l’unica cosa stimolante che ho in testa è Dorotea.
«Non lo so» dice il Pato.
Per la prima e unica volta quel pomeriggio sento che dice la verità e quella verità è che in effetti non sa quello che mi interessa.
Quando Felo Fernández e Liliana tornano nello studio con espressioni interrogative, penso che ci sia una linea sottile ma infrangibile che separa le persone vicine dai parenti, gli amici dagli amanti. C’è anche una linea che separa dentro di noi le nostre diverse età, l’età di quando eravamo giovani e di quando abbiamo smesso di esserlo e di ogni cambiamento successivo, finché non ci perdiamo sulla linea sottile della vita.