I miei taccuini dicono che il giorno in cui incontro Liliana nel giardino della clinica è il 4 novembre del 1999. Da quel giorno inizio a farle visita almeno una volta alla settimana. Mi riceve incollandosi al mio corpo e dicendomi all’orecchio: «Tirami fuori da qui».
Posso farla uscire, in realtà nessuno la trattiene. Vive in uno stretto regime di medicinali ma può entrare e uscire dall’ospedale quando vuole. Dice la verità quando dice: «Non sono ricoverata qui, Serrano, sono ospite, mi riposo. Mi sento un tricheco che ha appena partorito per quanto sono stanca. Devo avere partorito un bel branco».
Fa già parte del paesaggio della clinica. Negli ultimi tempi, è stata più tempo qui che fuori. È stata ricoverata quattro volte in quattro anni.
La prima per evitare che in carcere le toccasse un processo per lesioni e attentato alle vie di comunicazione. Alla fine di una notte folle aveva scontrato due macchine e piantato la sua contro una palma in un’aiuola di paseo de la Reforma. Il suo stato generale di coscienza quando era stata recuperata era di un’euforia delirante, che si manifestava in un’accelerazione dell’eloquio che i manuali specializzati chiamano tachipsichismo, che vuol dire che parlava come un pappagallo, senza senso e senza sosta. Conosco quel sintomo. La mia esperienza del tachipsichismo di Liliana è per gli effetti della cocaina. Ho avuto il piacere di assistervi in una notte in cui le era venuta voglia di spiegarmi tutte le porcherie che aveva voglia di fare con il mio corpo mentre le faceva.
Il pubblico ministero le concede l’ipotesi attenuante di incapacità o pazzia, e ordina la reclusione obbligatoria di Liliana in un ospedale psichiatrico. Questo facilita il giudizio assolutorio, sebbene renda Dorotea responsabile della paziente fino alle dimissioni dall’ospedale.
Da allora Liliana vive sotto uno stretto regime di medicine e visite. I dottori non le raccomandano uscite prolungate dalla clinica. Gli stimoli frequenti dall’esterno indeboliscono la sua disciplina. Presto o tardi smette di prendere le medicine e si abbandona di nuovo allo scorrere della vita. E lo scorrere della vita la fa impazzire di nuovo, a volte mortalmente, e la fa rientrare in ospedale. Le ultime due volte è stata portata in clinica a forza, tramite quello che qui definiscono «assoggettamento gentile». Entrambe le volte l’ha gentilmente assoggettata uno dei personaggi più in vista del reparto psichiatrico della casa di cura Miranda. È una donnina piccola e compatta, con occhi da orientale e mani di ferro, specializzata nella contenzione dei malati più irrequieti. Quella donnina ha portato con la forza alla casa di cura, con il suo tipico assoggettamento gentile, adolescenti che rinnegano i propri genitori e vogliono accoltellarli, ragazzi che se ne restano fermi sul parapetto di un edificio implorando che qualcuno li ascolti prima di uccidersi, anziani disincantati che si dispongono a ingerire la dose finale di barbiturici che un amico medico gli ha dato per quando sarebbe arrivato il momento. La donnina è andata ad assoggettare gentilmente Liliana a casa di Dorotea due volte. Una volta nella stalla dietro la casa dove Liliana da ore conversava con il cavallo di suo nipote, chiamato Perelman; un’altra volta nello studio di Arno Heiser, il marito di Dorotea, mentre Liliana strappava le pagine dei suoi libri in preda a una sbronza colossale. Da quella seconda volta, Dorotea fa visita a Liliana alla casa di cura e paga per il suo ricovero, ma non la invita più a vivere a casa sua.
Tutto questo me lo spiega il dottor Barranco, uno psichiatra sulla quarantina. Il dottor Barranco è atletico e caucasico. Porta una barba brizzolata dai contorni chirurgicamente delineati. Ha gli occhi chiari, il naso sottile, le mani dalle dita grassocce e unghie limate, ben trattate dalla manicure. Mentre il dottor Barranco parla mi coglie la rabbiosa certezza che in una delle sue sedute terapeutiche si sia scopato Liliana. Barranco deve percepire il fastidio nel mio sguardo o nel mio silenzio perché di colpo il suo discorso si fa esitante, perde il filo, le fregnacce mediche smettono di scorrere con nitidezza dalla sua bocca, raggiante per il filo di luce che, quando parla, tremola sul canale rosato e umido delle sue labbra. Sono labbra fini, minime, che scoprono dei denti bianchi e una lingua rosata. Immagino molto bene quella lingua e quei denti tra la lingua amichevole e i denti di Liliana, pari e anch’essi bianchi, disposti a mordere il mondo.
Il problema di Liliana è che non può andarsene dalla casa di cura perché non ha soldi. Secondo i miei calcoli, si è bruciata una fortuna. Secondo i suoi, solo due appartamenti. Quello che davvero la trattiene in ospedale è che non ha i soldi per vivere. L’ospedale lo paga l’azienda farmaceutica tedesca che Arno Heiser, il marito di Dorotea, presiede. Gli costa un occhio della testa. Con la metà di quei soldi Dorotea potrebbe provvedere alla vita di Liliana fuori dall’ospedale. Ma Dorotea non la vuole fuori dall’ospedale perché sa che presto o tardi Liliana si tirerà il mondo addosso e Dorotea dovrà pagarla più cara.
Con il tempo capisco che quando mi sussurra all’orecchio «Tirami fuori da qui», Liliana mi sta dicendo che vuole che la faccia uscire e che la mantenga. Non voglio mettere l’accento su quella consapevolezza ma sul calore del suo respiro e sulla profondità della sua voce quando mi mormora all’orecchio: «Tirami fuori da qui». La sua voce risveglia il desiderio insoddisfatto che sento a fior di pelle: il desiderio di Liliana Montoya. Non c’è, né quella di prima, né quella di mai; quella che ho costruito prima, ora e poi.
Una domenica faccio coincidere la mia visita con quella di Dorotea per dirle che voglio far uscire Liliana dall’ospedale. Le dico che andrò a vivere con lei.
Dopo un concentrato silenzio, Dorotea dice: «Non sono d’accordo».
Avverte Liliana: «Peggiorerai».
A me dice: «E tu te ne pentirai, Serrano».
Mi spaventano la freddezza della sua voce e la fissità ipnotica del suo sguardo. Mi tranquillizza, stranamente, sapere che posso spiarla, che l’ho spiata. Malaquías può frugare fino all’ultimo centimetro della sua vita, e io posso sapere tutto. Di fatto, Malaquías mi ha lasciato un cd con foto e video di uno dei giorni di Dorotea che non ho voluto vedere. Ricordare che possiedo quel disco moltiplica la sensazione di superiorità che mi dà l’averla spiata. La superiorità di cui ho bisogno in questo momento.
Ho annotato su uno dei miei taccuini il giorno in cui faccio uscire Liliana dall’ospedale. È giovedì 25 settembre del 2000. Abbiamo deciso di vivere insieme a casa mia. Il nostro primo accordo coniugale è che lei sistemerà la casa come più le piace, e io pagherò le riparazioni. Vivo nello stesso edificio di colonia del Valle dove ho vissuto tutta la vita a Città del Messico, da quando mi sposai con Aurelia Aburto, la mia gorgone. Vivo anche nello stesso appartamento, anche se ora non sono più in affitto, ma l’ho comprato, e ho comprato anche l’appartamento attiguo. Ho buttato giù una parete per renderli comunicanti e farmi un grande studio, con libri, quadri e due scrivanie imperiali. Qualche critico ha detto che il mio studio e le mie scrivanie sono l’unica cosa grande che c’è nella mia scrittura. Può avere ragione, ma non più di questo.
La prima domanda, quando facciamo un tour della sua nuova casa, Liliana me la fa guardandomi con commovente e forzata concentrazione, la concentrazione di un bambino: «Cosa vuoi che faccia, Serrano? Voglio farti felice».
Quello che viene dopo è molto strano: molti giorni di routine matrimoniale senza essere sposati. Non sono capace di vivere con qualcuno. Mi sorprende trovare Liliana che cammina per l’appartamento o se ne sta seduta come un fantasma in salotto. Passa ore intere ad ascoltare e riordinare le cassette con le sue registrazioni. Ha il progetto di incidere un disco. Gira con un paio di cuffie enormi che le permettono di ascoltare senza inondare l’appartamento di musica. Quel suo silenzio deambulatorio non fa che rendere più irreale la sua presenza. Mentre scrivo so che è lì, dall’altra parte della casa. La sento andare e venire a volte, ma è come se non fosse lì, di fatto sta in un altro mondo, il mondo della sua voce e di sé stessa. Silenziosa e fantasmatica.
Non vuole uscire per evitare le tentazioni. Un ristorante può essere l’inizio dell’inferno. Per consolarsi e consolarmi, cucina. Cucina tre pasti al giorno: colazione, pranzo e cena. Non ha più il gusto di un tempo per il cibo, mangiare con lei è come stare a dieta. La dieta è definita dagli alimenti stessi: verdure, zuppe leggere, bibite senza zucchero. Un giorno mi racconta che è andata a trovare il prete della parrocchia vicino a casa. Gli ha chiesto se è possibile non credere a nulla. Il prete le risponde che è impossibile: la fede è la vita stessa. Liliana gli risponde che non è così nel suo caso. Il prete le dice che non le crede. Liliana gli racconta la sua vita in una versione abbreviata ma truculenta. Questo la tranquillizza. Le chiedo che mi racconti quello che ha raccontato al prete: «Tu non puoi saperlo, Serrano. Cose così, solo ai preti».
Si rende conto di quello che mi sta raccontando. Si porta le mani al viso e dice con divertito disgusto: «Sono una monaca, Serrano, vuoi ripudiarmi? Che cosa direbbe mio papà se lo sapesse?»
Il giacobino dottor Montoya l’avrebbe ripudiata quanto me.
Tra l’altro, è la prima volta che la sento fare il nome di suo padre da quando la conosco. Attribuisco tutto quanto alla falsa pace data dalle pillole. Tra il dolore e il nulla, le pillole, direbbero i classici.
Per il resto, bisogna dire questo: si spoglia, ci si mette, si muove, geme, mi avvolge con braccia e gambe, chiude gli occhi. Questo è quello che vedo quando mi alzo su di lei: ha gli occhi chiusi. Non è distratta, non guarda il soffitto aspettando che tutto sia finito. Guarda dentro sé stessa per capire se sta sentendo qualcosa. Non come una professionista al lavoro, ma come una complice che asseconda le richieste del suo complice. Ama questo complice che si muove sopra di lei. La commuove il suo amore, vuole ripagarlo ed esserne all’altezza, ma non può offrire nulla in cambio se non questo placebo dell’amore che è non negarsi, ma essere disponibile. Il complice se l’è guadagnato, si è meritato la sua devozione e il suo corpo, anche se gli mancano ormoni e cuore.
Le pillole.
Liliana sotto cure mediche è un angelo, una bellezza che elude il desiderio. Affascinante, ma neutra. Il suo corpo non ha quel tocco elettrico per cui qualsiasi cosa provocata dalla sua presenza, uno sguardo, uno sfioramento, dei peli sotto l’ascella o la pianta nuda del suo piede che prende la forma delle piastrelle di un pavimento brillante, potevano essere l’inizio di un amplesso.
La nostra prima vita insieme trascorre come immersa nella nebbia. O meglio: come sotto anestesia. Tutto è placido, pulito, sano, flebile e smorzato. C’è solo un’eccezione: le pillole non hanno avuto effetti sulla sua voce, non l’hanno toccata. Conserva la sua tipica asprezza, il suo timbro roco, indomabile. La sento cantare sotto la doccia. Canta Paloma negra. La canzone inizia già su note alte:
Ya me canso de llorar y no amanece
Ya no sé si maldecirte o por ti rezar1
Anche Liliana accentua le note alte, come se fosse sul palco. È in bagno sotto un getto di acqua bollente, dietro la porta di vetro che circonda la doccia. Posso vedere il suo corpo nel cubo di vapore dove sta cantando, gridando, mentre si fa la doccia. Posso vedere che non le succede niente, che l’acqua cade tersa e brillante sul suo corpo accendendone il colore bruno. Lei si liscia con le mani i capelli umidi che ha appena sciacquato dalla prima passata di shampoo. La guardo dalla porta del bagno alla quale mi avvicino senza farmi vedere. La sua voce attraversa la porta di vetro che sigilla la doccia. Quando arriva alla parte della canzone che dice:
quiero ser libre
vivir mi vida
con quien io quiera2