Dorotea è la minore dei Montoya. Il maggiore è Ángel, nato nel 1940, medico come suo padre. La seconda è Matilde, 1941, infermiera come sua madre. La terza è Arcelia, 1942, che muore ancora neonata. La quarta è Arcelia seconda, 1943, che sostituisce l’Arcelia morta. Il quinto è Antonio, 1945, che soffre di un ritardo mentale. La sesta è Regina, 1946, che si sposa ben due volte. La settima è Margarita, 1948, che muore da bambina. L’ottavo è Sigfrido, 1950, che è chimico ed emigra a Colonia. Il nono è il mio amico Rubén, 1952, che si dedica al teatro. Il decimo è Ricardo, 1954, gemello di Liliana, morto durante un pellegrinaggio a Chalma. L’undicesima è Liliana, gemella di Ricardo, 1954, che è la protagonista di questa storia. Il dodicesimo è Teodoro, 1955, che diventa antropologo e vive tra gli indios di Oaxaca. Passano cinque anni nella famiglia Montoya prima che nascano la tredicesima: Margarita seconda, 1960, che sostituisce la Margarita morta, e la numero quattordici: Dorotea, 1961, la cui storia in parte esploreremo. Due anni dopo la nascita di Dorotea, il dottor Montoya, suo padre, muore di un’embolia. Liliana ha nove anni, Rubén undici, e io pure.

Non lo decido realmente, quando me ne rendo conto sto già dicendo a Felo Fernández che ho bisogno di qualcuno che investighi su Dorotea. Mi dice che conosce un tipo il cui nome di battaglia è Malaquías. Mi fa arrivare un biglietto da visita che dice:

Investigazioni 360.

Malaquías (L’occhio di Dio)

360 vuol dire che lo sguardo di Malaquías è circolare, vale a dire, che usa tutti i metodi di spionaggio disponibili: pedinamento fisico, intercettazione telefonica, intervento digitale, videoregistrazione in casa, fuori casa e al lavoro.

Malaquías è un grassone tranquillo e marmoreo. Parla come attraverso un microfono di sicurezza. Mi chiede: «Quanto spionaggio vuole?»

Mi chiedo a mia volta quanto spionaggio ci potrà essere.

Chiede: «Vuole conoscere quello che succede dentro casa o fuori casa?»

Mi piace molto la parola conoscere usata in questo contesto. La parola dentro invece mi spaventa. Sono una spia rispettosa, gli dico solo fuori.

Mi chiede: «Pedinamento?»

Acconsento alla tecnica di pedinamento.

«Foto e video del pedinamento?»

Acconsento a foto e video del pedinamento.

«Intercettazione telefonica?»

Intercettazioni telefoniche, no. Mi fanno paura le intercettazioni telefoniche. Sono una spia rispettosa.

«Luoghi o attività specifica da monitorare?»

Alla fine confesso che in realtà non sto cercando Dorotea, ma sua sorella.

«Nome della sorella?»

Quando Malaquías finisce di chiedermi quello che voglio sapere mi rendo conto di quante cose so di Dorotea, di quanto poco mi manca per arrivare a Liliana. Quel poco che manca è la parte di cui Malaquías si deve occupare. È un altro modo di ritardare l’unica cosa che voglio e non oso ammettere: trovare Liliana.

Felo Fernández mi ha detto che Malaquías è un principiante. C’è da aspettarsi che commetta errori da principiante, ma è l’unico Malaquías che conosce.

La parte principale e finora la migliore della tecnica di spionaggio di Malaquías, è pedinare. Le sue intercettazioni telefoniche lasciano molto a desiderare. È lui stesso a dirmelo, confessione di debolezza professionale che, curiosamente, accresce la mia fiducia in lui. Soprattutto perché non l’ho incaricato di fare intercettazioni telefoniche. Sono una spia rispettosa.

Eppure Malaquías ignora il mio rifiuto e fa intercettare le telefonate di Dorotea. Scopre che Liliana chiama Dorotea tutte le settimane. Lo rimprovero, lo insulto, quasi lo prendo a pugni quando me lo dice, ma accetto di ascoltare il suo nastro clandestino. La conversazione ha luogo qualche giorno dopo la mia visita a Dorotea. Dorotea dice: «È venuto il tuo vecchio fidanzato a rompere le palle».

Qualcosa che assomiglia in modo travolgente alla voce di Liliana risponde all’altro capo del filo: «Ho sempre saputo che sarebbe tornato».

Malaquías mi chiede se riconosco in quella voce la voce della persona che sto cercando, Liliana Montoya. Dico di sì. Mi chiede se voglio conservare il nastro, anche se non l’avevamo previsto: non avrà alcun costo extra. Annuisco di nuovo. Mi chiede se voglio che continui a registrare le telefonate.

Rimetto i panni di spia rispettosa, dico di no.

Nella registrazione di Malaquías c’è questo dialogo:

«È venuto il tuo vecchio fidanzato a rompere le palle».

«Quale?»

«Quello».

«Che dolce. Ho sempre saputo che sarebbe tornato. Come sta?»

«Vecchio e magro».

«Povero. Quando è passato?»

«Tre settimane fa».

«Perché non me lo avevi detto?»

«È la quinta volta che te lo dico. Perché non ti segni le cose nel quaderno?»

«Odio quel quaderno. Quando vieni a trovarmi?»

«Il mese prossimo».

«Mi porti quello che avevamo detto?»

«È proibito quello che avevamo detto».

«Non fare caso alle cose che proibiscono qui, Dorotea. Sono matti qui, pensano che io sia matta».

La chiamata che Malaquías ha registrato collega il cellulare di Dorotea con il telefono del reparto psichiatrico della casa di cura Miranda, la clinica dove pensano che Liliana sia pazza. Ci metto un mese e tre tentativi per arrivare al bancone del reparto psichiatrico. Per tentativi intendo che per tre volte arrivo al parcheggio della clinica e poi mi pento. Alla fine ce la faccio. All’accettazione c’è una biondina dall’aspetto un po’ infantile a cui brillano gli occhi come se avesse un segreto da nascondere. Penso che sappia chi sono, perché sono lì e quante bugie sono disposto a dire.

Mi piacciono gli ospedali dove ci sono ancora alberi e spazi all’aria aperta. Nella casa di cura Miranda ci sono alberi di eucalipto, lunghi prati e sentieri ondulati tra gli edifici dei vari reparti. Ci sono anche gatti che prendono il sole. Gatti ciccioni e dormiglioni. Un po’ polverosi, anche. Non conosco altri ospedali in cui ci siano dei gatti. Qui si danno alla caccia contro ratti e altre bestiacce. Per non parlare degli uccelli. Ho sentimenti contrastanti per i gatti, invidio la sovranità e la concentrazione dei loro sguardi. Vorrei avere entrambe per fare senza tentennare quello che faccio balbettando: chiedere all’accettazione della paziente Montoya e dichiararmi suo parente. Vorrei potermi leccare i baffi e fissare la biondina felice che mi guarda da sopra i suoi occhiali di tartaruga pallida, dai suoi occhi luminosamente acquamarina. Mi dice che la mia paziente si trova nel Cortile 1 e mi chiede se so dov’è. Senza aspettare che le risponda dice che devo uscire da dove sono venuto, girare a sinistra sul sentiero di mattoni rossi che dice Cortile 1 e continuare in quella direzione fino alla porta dove troverò un altro bancone come il suo, e al bancone una collega come lei alla quale chiedere di nuovo.

Ricordo di aver visto il cartello che indicava il Cortile 1 quando sono entrato qui, quindi torno al posto del mio ricordo e trovo il cartello. Seguo la freccia, camminando accanto a una parete che termina in una recinzione di filo spinato. La recinzione prosegue fino al limite esterno dell’ospedale, un grande muro di mattoni con delle torrette merlate. Da lì non si può entrare, ma i minuscoli rombi della recinzione lasciano intravedere un cortile con giardini secchi e sentieri di cemento a forma di S. Lì deambulano in presunta pace o prendono il sole i pazienti del reparto psichiatrico, normalmente accompagnati da infermieri. Nelle curve di alcuni sentieri, ci sono pazienti seduti sulle loro sedie a rotelle. In una di queste sedie, custodita da una pacifica infermiera tettona, credo di vedere Liliana. Guarda fisso il muro di fondo che circonda l’ospedale. Ha i capelli lunghi fino alle spalle e una frangia mossa dal vento, il naso dritto e affilato, le gote pallide, la fronte ampia dovuta a un’incipiente perdita dei capelli o alla sua piccola frangia scostata dal vento. La schiena di Liliana è ritta come lo schienale della sedia. Ha il collo lungo, la vita alta e armoniosa sulla sedia ortopedica, le cosce e le ginocchia sotto la vestaglia bianca da paziente sono di una rotondità atletica, proprio come i polpacci, che spuntano dalla vestaglia. Sono quei polpacci scuri, levigati, come appena spalmati di crema, a catturare la mia contemplazione. Proprio in quel momento Liliana guarda verso la recinzione dove mi trovo io, come rispondendo all’elettricità del mio stesso sguardo. Scrolla il capo come un passero matto e alza una mano da foca che mi saluta dicendo: «Sei tu».

Certo che sono io, ma non so se lei è lei. O meglio: chissà chi siamo noi che facciamo gesti a distanza, a quei quindici metri che ci sono tra il sentiero dove si trova Liliana e la recinzione dove mi trovo io.

Nella mia testa succedono cose strane. Mentre Liliana mi saluta ricordo la storia della moglie di uno dei successori del Pato Vértiz. Quando scopre che suo marito se la fa con Liliana, quella stupida si getta da un dirupo vicino alla Quebrada, ad Acapulco. Un’altra versione vuole che si precipiti da una curva delle montagne russe di Chapultepec. Un’altra, più letteraria, la vede morire sui binari del treno diretto a Nonoalco Tlatelolco, dove Ixca Cienfuegos dice in un romanzo di Carlos Fuentes: «Qui ci è toccato vivere».

Ritorno da dove sono venuto al bancone della ragazza biondina e seguo questa volta le sue indicazioni. Arrivo allo stesso Cortile 1 ma adesso sono all’interno della recinzione. Mi avvio verso Liliana. La prima cosa che vedo e voglio vedere quando mi avvicino a lei da dietro sono le sue cosce piene sotto la vestaglia e le sue ginocchia agili, i suoi polpacci scuri fuori dalla vestaglia. È scalza, il collo del piede alto, le caviglie grandi, le piante dei piedi gialle, l’alluce è un embolo sul quale è incastonata un’unghia piatta di un inaspettato, raggiante, color ciliegia. L’alluce smaltato mi fa svenire dalla voglia di baciarla.

Cammino fino a mettermi di fronte a lei e la guardo di fronte. Anche lei mi guarda, sorridendo come dopo un grande sforzo. È smagrita dall’età e dal male che la affligge. O meglio: dalla cura. Le pastiglie che prende la fanno mangiare poco, dormire molto, pretendere nulla. La cura è un presente chimico perfetto: rassegnazione priva di ansia. Il regime dei medicinali la rende pacifica.

A me, cosa volete che dica, sembra più bella che mai. Un po’ istupidita, senza quella sua antica fiamma, ma in mancanza di quel guizzo, il suo volto privo di ombre, il fulgore giovanile della sua bellezza: quella bellezza originale del suo viso, ancora non macchiata dalla vita, non deformata né abbellita da questa. Voglio dire che è più bella che mai e meno desiderabile che mai. Neutra, pura, astrattamente bella. E anche: sedata, diafana, digiuna di guerra e desiderio. C’è un vuoto cristallino nel suo sguardo. Come se le si fossero indurite le cornee. Eppure, anche così, quella fissità di vetro ha la luce commovente, serena, della fine della sofferenza.

Ricordo allora, con i miei ricordi così frequenti, la prima volta che vidi Liliana a braccetto con il Pato Vértiz all’università. Il suo volto aveva ancora quella nitidezza che ora ha recuperato. Vederla allora con il Pato accende in me la rabbia del fratello che trova la sorella ubriaca, truccatissima, che si vende a un angolo di strada. Ma quel giorno Liliana non è ubriaca né molto truccata, è splendente. Cammina accanto al Pato ben pettinata e ben vestita, con il vigore di una compagna giovane, docile e orgogliosa, sotto il controllo indifferente del suo accompagnatore. Non è nemmeno vergogna fraterna quella che provo, ma il risentimento del rivale vinto. La scena consuma orrendamente la mia decisione di perderla. Sono io a lasciarla andare, a metterla tra le braccia del Pato Vértiz. Non ho il coraggio di misurarmi con lei, di intraprendere l’avventura che c’è in lei, quella sua voglia di andare oltre, di provare tutto, di uscire radicalmente da sé stessa, dal luogo che le è toccato nel mondo.

Ricordo di essere scappato a lungo, a scuola, da un tipo grande e grosso che mi picchiava ogni volta che mi vedeva. Scappai da lui per un anno intero finché poi smisi di scappare. E allora lui smise di picchiarmi. Decido che non scapperò di nuovo da Liliana Montoya.

Quando mi avvicino, lei dice all’infermiera di lasciarci soli. L’infermiera si ritira. Liliana non si alza dalla sua sedia. Mi chiede di avvicinarmi, sporge il viso verso il mio e mi dice: «Tirami fuori da qui, Serrano».

Ha le guance fredde, velate di sudore. Mi prende la nuca con la mano e mi stringe a lei. Poi mi odora il collo sotto l’orecchio. Poi verso il mio petto sulla camicia. Odora la mia ascella sotto la giacca. Conclude: «Nessuno si prende cura di te, nemmeno tu. Ti sei preso cura solo di me».

Si alza dalla sedia, mi prende per mano e inizia a camminare. Camminiamo per il Cortile 1.

Dice: «Ti direi che conosco questo cortile a memoria, Serrano. Ma non è così. Non c’è niente che sia degno di essere memorizzato in questo cortile».

Avverto che non sono più Serranito. Anche lei ha smesso di essere quella che è.

«Che cosa vuoi sapere di me, Serrano? Sono disposta a raccontarti tutto».

Scopro che il Pato Vértiz le fa visita. A Felo Fernández non ha detto nulla. Anche Dorotea le fa visita, e non ha detto nulla a me. Si vergognano della sua malattia, dice Liliana. Le chiedo qual è la sua malattia.

«Mi accendo e mi spengo, Serrano. Passo dal cielo all’inferno. Per curarmi sono costretta a galleggiare nel mezzo, ma nel mezzo non c’è nulla. Qui, come vedi, sono in mezzo al nulla».

La vedo splendida, l’ho già detto. Fresca, rinnovata.

Il sole è forte, come è normale che sia sull’altopiano. Le fa corrugare la fronte quando si volta a guardarmi, ma né il sole né la sua espressione corrugata offuscano i suoi gesti o induriscono il suo sguardo che ha, l’ho già detto, la brillantezza della fine della sofferenza. Su un altro volto sarebbe un tratto angosciante, su di lei è adorabile.

Mi spiega: il suo malessere è cronico e ciclico, si può correggere con delle pastiglie fino a raggiungere lo stato di correzione attuale.

«Non è un bell’effetto, Serrano. La mia salute si chiama tedio. È uguale al tedio. Sto bene solo se mi annoio. La bella vita per me è la vita priva di sapore. La vita senza sapore è una felicità noiosa. Non c’è angoscia, non c’è dolore. Nemmeno desiderio. Né festa. Non c’è niente in me che voglia fare festa. Ora sono la donna che desideri. Ma non la donna che ti ama perché quella che ti ama è la matta, Serrano. Quella che sono adesso ti ricorda come un fratello. Capisci quanto è triste?»

Mi dice che è la terza volta che la ricoverano dall’ultima volta che ci siamo visti, quattro anni fa. La prima di quelle tre volte fu in seguito all’incontro che abbiamo avuto e non avuto il giorno che venne alla presentazione del mio libro su Huitzilac. La sua spiegazione del perché non mi aspettò quel giorno è di una falsa profondità.

«Ti ho sentito così lontano dalla mia vita, Serrano, che mi è presa la rabbia. E poi la disperazione. Mi sono detta: mi umilierà, mi dirà che con me è una battaglia persa, e questa volta avrà ragione. Perché eri cambiato, Serrano. Non eri più il mio Serranito, eri Serrano. La verità è che mi hai fatto paura».

Non mi convincono quelle stronzate. Il mio silenzio è eloquente. Lei completa la sua spiegazione: «Avevo bisogno di farmi un bicchiere. Sono andata al bar dell’hotel in attesa che tu finissi. Mi sono svegliata tre giorni dopo a casa di Dorotea, chiedendo di te».

Il mio silenzio è eloquente anche ora.

«Non odiarmi, Serrano. Tirami fuori da qui».