Il tribunale del clima

È ormai estate e lei indossa un leggero abito rosso. È stata chiamata a testimoniare al Tribunale internazionale del clima all’Aia. È la prima volta che va all’estero.

Tiene il ragazzo arabo per mano mentre attraversano la città, sono come fidanzati, quindi, o forse fanno solo finta. Adesso lui porta un completo scuro con la camicia bianca. Anche lui è stato chiamato a testimoniare e forse è per questo che indossa quel vestito elegante. Mentre attraversano impettiti la città sembrano una coppia di giovani sposini, ma è solo una recita, o un gioco.

Passano tra gli alti edifici su un grande piazzale dove sono allineate decine di dromedari. Forse una volta lì c’era un parcheggio per le automobili. Per la città girano tuttora dei veicoli a quattro ruote, e ce n’è qualcuno anche sul piazzale, ma non sono molti. I dromedari sono legati agli alberi, mentre i mezzi a quattro ruote sono legati alle colonnine di ricarica.

Diversi anni prima il Tribunale internazionale del clima ha condannato la Norvegia a devolvere il 97 per cento del fondo petrolifero nazionale alla lotta contro la povertà e a diverse misure a favore del clima, come la costruzione di dighe e argini. Anche all’emirato da cui proviene il ragazzo arabo è stata comminata una pena equivalente. Qualcuno è responsabile di tutti i danni inflitti al pianeta e all’umanità con la combustione di petrolio, carbone e gas naturali. Il rapido esaurimento delle riserve fossili del pianeta è stato considerato un furto delle risorse globali, e la condanna per la Norvegia è stata particolarmente dura a causa delle responsabilità della compagnia petrolifera statale nell’estrazione di petrolio da sabbie bituminose. Una sporca faccenda. A sua discolpa, la compagnia ha dichiarato che se non l’avessero fatto loro, ci avrebbe pensato qualcun altro. Adesso questa affermazione è diventata celebre in tutto il mondo: «Se non l’avessimo fatto noi, ci avrebbe pensato qualcun altro, facendo un lavoro ancora più sporco». All’Aia molti criminali di guerra hanno adottato questa linea di difesa.

Salgono le scale del grande palazzo di giustizia dove testimonieranno davanti al Tribunale internazionale del clima. Tutti gli sguardi sono puntati su di loro. Alcuni bambini lanciano loro dei petali di rosa bianchi; dunque vengono scambiati per una coppia di sposi, almeno dai bambini.

In cima alla pedana da cui entreranno in aula, li intervista una troupe televisiva, che chiede lumi sulla loro testimonianza. Lei guarda nella telecamera e dice: «Siamo giovani. Dobbiamo testimoniare che la crisi climatica non è più un conflitto tra nazioni. Esiste una sola atmosfera: dallo spazio non si distinguono le frontiere nazionali. Sono le generazioni ad affrontarsi in questo conflitto, e noi che oggi siamo giovani siamo le vittime di tutte le catastrofi climatiche».

Sente il ragazzo che è con lei stringerle la mano. Forse significa che è d’accordo, o che ritiene che sia brava a parlare, o semplicemente che, insieme, stanno facendo qualcosa di importante.

Prende la parola lui: «Veniamo tutti e due da paesi produttori di petrolio che si sono arricchiti con il commercio del greggio. Ma nel mio emirato siamo dovuti fuggire tutti a causa della siccità. Adesso non abbiamo più una terra. Non è rimasto altro che deserto; il paese non è più abitabile».

Lei lo guarda e sorride. Poi di nuovo punta gli occhi verso la telecamera e aggiunge: «Questo giovane è uno dei milioni di rifugiati del clima della Terra, e adesso è venuto a vivere nel mio paese».