Capitolo Ventinove
«Devo riconoscertelo» dice Toni, girando piano il volante del furgone così che possiamo parcheggiare a lato della strada, un mezzo isolato più avanti rispetto all’obiettivo della nostra sorveglianza. «Il tuo approccio con Dev questa mattina è stato fantastico.»
«Non è che mi abbia lasciato altra scelta.» Mi infilo i capelli dietro l’orecchio e mi giro sul sedile per guardarla, mentre si sposta sul retro del furgone. È un minuscolo centro operativo, con due sgabelli bassi sistemati di fronte a una serie di schermi e due laptop su un ripiano molto stretto costruito sul fianco. Ho provato un certo sollievo quando ho saputo che tutto quell’affare è a prova di proiettile.
«Avevi molte scelte. Avevo scommesso che ti saresti voltata e te ne saresti andata.»
Il mio sorriso svanisce. «Oh.»
«Maaa… sarai felice di sapere che tutti gli altri pensavano che saresti rimasta.» Traffica con i fili sotto la mensola, corrugando la fronte quando qualcosa non va come vorrebbe.
Non voglio indugiare sulla sua mancanza di fiducia in me, così cambio argomento. «Che stai facendo lì sotto?»
«Sto cercando…» Fa una smorfia. «… di trovare…» Tira con forza dei cavi. «… l’alimentatore…» Un cavo vola fuori e le colpisce la testa. «… dei computer.» Si mette a sedere e sorride. «Eccoti. Puoi sfuggirmi ma non puoi nasconderti, piccolo bastardo.» Collega i laptop e apre quello davanti a lei.
«Allora, che cosa facciamo di preciso qui?» Mi sposto sul sedile in modo che i muscoli delle gambe non siano più così sacrificati. Qualunque posizione sceglierò non funzionerà, però. Il mio corpo è del tutto malridotto.
«Prima dobbiamo stabilire che tipo di sorveglianza può funzionare per quello che succede su questa strada e poi dobbiamo predisporla. Il termine massimo entro cui dobbiamo finire è… oggi.» Guarda fuori dal parabrezza. «Dovresti venire qui con me e tirare quella tenda.» Indica un punto dietro i sedili anteriori.
Mi sposto nella parte posteriore del furgone e sgancio la tenda nera dal suo fermo dietro il sedile del passeggero. Scorre da destra a sinistra su un binario di metallo incassato nel tettuccio. Una volta che è a posto, l’ambiente posteriore diventa buio tranne che per gli schermi dei laptop. Toni si protende in avanti e preme un pulsante sul pannello davanti a lei e una luce fioca si accende.
«Fa così super spie» commento in un sussurro.
«Se lo dici tu.» È troppo occupata a battere sulla tastiera per guardarmi.
Mi volto e trascino la rigida valigia di plastica, piena di attrezzature, vicino a me. «Presumo di dover esaminare questa roba.»
«Buona idea. Prova un paio di obiettivi. Vedi se ce n’è qualcuno che riesce ad arrivare fin dentro la casa.» Fa una pausa e si allunga verso di me per raggiungere la tenda. «Puoi tirare giù questo piccolo lembo e mettere lì l’obiettivo. Cerca di non abbassarlo finché non sei pronta a coprirlo con la lente.»
La tenda nera ha uno spioncino per la macchina fotografica. Fico.
Il primo obiettivo che scelgo funziona come funzionerebbe qualunque obiettivo fotografico, va detto; quando lo posiziono contro il foro nella tenda, riesco a inquadrare la piccola cassetta delle lettere appesa accanto alla porta principale. La targhetta sbiadita con il nome dice JUAREZ. Sembra, però, che i nostri bersagli non facciano le pulizie da quando è stata costruita la casa, negli anni Sessanta, così forse sarà impossibile vedere all’interno.
«Non so quanto vedrò attraverso quelle finestre marroni» dico. «Mi ricordano Mio cugino Vincenzo.»
La sua reazione mi sorprende. «Adoro quel film. Uno dei miei preferiti. I due “giovini”.» Ride, scuotendo la testa con un sospiro.
Cerco di non entusiasmarmi troppo per il fatto che abbiamo gli stessi gusti cinematografici. Ogni volta che inizio a pensare che lei e io potremmo essere amiche, Toni mi prende in contropiede. Come l’aver scommesso contro di me questa mattina. Mi domando che cosa ci voglia per guadagnarsi il suo rispetto. Spero non sia necessario che mi sparino.
La porta d’ingresso della casa si apre. «Qualcuno sta uscendo!» Il mio cuore inizia a battere forte e all’improvviso mi è difficile respirare. Sono sia eccitata che spaventata a morte. E se ci vedono? E se capiscono cosa stiamo facendo? Un furgone a prova di proiettile è anche a prova di bomba?
«Scatta qualche foto!»
«Oh, giusto.» Il mio dito preme il pulsante dell’otturatore. Mi concentro in fretta sul soggetto e faccio del mio meglio per fotografarlo di profilo e a figura intera. Lui si gira nella nostra direzione per raggiungere la sua auto, parcheggiata a solo pochi veicoli da dove ci troviamo. «Oh, cavolo, sto scattando delle foto favolose in questo momento.»
«Continua. Non sono mai troppe.»
«Sia ringraziato il cielo per il digitale, eh?»
«Già.» Toni si sposta dietro di me, ma non posso fermarmi per capire che cosa stia facendo. «Senti, se viene più vicino, dovresti allontanarti dalla tenda e chiuderla.»
«Quanto vicino?» Sto ancora scattando foto.
«Entro tre metri.»
Faccio qualche altro scatto e indietreggio, poi tolgo la macchina fotografica dal foro e chiudo il lembo.
All’interno del furgone si fa buio pesto. Toni deve aver spento la luce mentre io ero occupata a scattare un centinaio di foto in dieci secondi.
«La prossima volta avvisami quando stai per farlo» mi dice.
«Perché?»
«Perché è meglio se dentro è buio, quando ti stacchi, così non vedono un riquadro di luce nella tenda.»
«Oh. Scusa.»
«Nessun problema. Mi sono immaginata che stavi per farlo, perciò ho spento. La prossima volta, basta che prima mi dai un avvertimento.»
«Qual è l’avvertimento?»
«Luci.»
«Oh. È facile.»
«Cerchiamo di mantenere tutto il più semplice possibile, così nell’impeto del momento non lo dimentichiamo.»
«È un buon piano.» Mi ci vedo a dimenticarmi una parola in codice più complicata di “luci”. Tra me e me ringrazio il genio responsabile delle password e dei segnali, chiunque sia. È Ozzie? Sembra probabile. Mi dà l’impressione di essere una persona seria e pratica.
«Ottenuto qualche buono scatto?» chiede lei.
Passo la fotocamera in modalità PLAY e scorro le fotografie. «Sì. Diversi.» Le porgo la macchina. «Conosci questo tizio?»
«No. Ma non significa niente. Lo passeremo nel nostro programma di rilevamento facciale e vedremo cosa salta fuori.»
«Ce l’avete? Il programma, intendo.»
«Sì.» Sembra sulla difensiva.
«Scusa, è solo… difficile credere che abbiate qualcosa di tanto sofisticato in un’agenzia di sicurezza. Non è che siate la polizia o che.»
«Innanzitutto, non siamo un’agenzia di sicurezza qualunque. Ozzie partecipa solo a operazioni di alto livello. E secondo, collaboriamo con il dipartimento di polizia. Ci danno accesso a ogni genere di database. Diversamente, non potremmo svolgere bene il nostro lavoro.»
Annuisco, riflettendo. «Ha senso.» Sono ancora più colpita da Ozzie di quanto lo fossi prima. Se non sto attenta, presto inizierò a sbavare ogni volta che entra nella stanza.
«Questo è interessante» commenta Toni, osservando lo schermo.
«Che cosa?»
Si inclina un po’ a destra così che io possa guardare lo schermo del suo computer. È una foto aerea del quartiere, che mostra le case, i vialetti e persino le auto.
«Quella cos’è?»
«Noi siamo qui» dice, indicando un punto sulla mappa.
«Non vedo il nostro furgone.»
«La foto è stata scattata un po’ di tempo fa. Non è un’immagine in tempo reale. A ogni modo, la vedi quella?» Indica una casa sulla strada, dietro quella che stiamo osservando. «Ti sembrava disabitata ieri, quando ci siamo passate davanti?»
«Non lo so. Non mi ricordo.»
«Dovresti memorizzare questi dettagli.» Chiude il laptop e inizia a scavalcarmi.
«Non capisco.» Temo di aver fallito un altro test con lei.
Toni sbircia da un angolo della tenda per qualche secondo prima di aprirla abbastanza per sedersi al posto di guida. «Andiamo a dare un’occhiata.»
«Posso venire con te?»
«Se vuoi.» Accende il motore ed esce dal nostro parcheggio.
Mi arrampico davanti con lei e mi allaccio la cintura. «Che cosa intendi quando dici che avrei dovuto ricordare l’altra casa?»
«Il tuo lavoro, quando siamo fuori per un appostamento, è notare i dettagli e archiviarli nel cervello per usi futuri.»
«Oh. E quali dettagli archivio e quali scarto?»
«Non scarti niente.»
Non rispondo con l’ovvia replica, che sarebbe: “Oh, quindi vedrò di accendere la mia memoria fotografica”.
«Se non hai buon occhio per i dettagli, farai meglio a scattare un sacco di foto» aggiunge.
Mi sporgo verso il retro e dalla valigia dell’attrezzatura tiro fuori una macchina più piccola con un obiettivo più maneggevole.
«Bene. Posso scattare fotografie.» Non è un problema. Non sembrerà affatto sospetta una donna che cammina scattando foto di ogni singolo dettaglio.
«Alla fine imparerai quali cose sono importanti e quali no.» Svolta nella via che corre dietro la casa che è il nostro obiettivo. «Dovresti fotografare la strada da questa angolazione, le case collegate all’obiettivo, particolari insoliti che sembrano fuori posto…»
«Tipo che cosa, per esempio?»
«Tipo una donna seduta sulla veranda. Non si vede spesso da queste parti, ma quando accade, significa che abbiamo una nonna all’antica che ama osservare il vicinato o qualcuno pagato da uno spacciatore per tenere d’occhio la polizia.»
«Le nonne lo fanno?»
«Le nonne devono mangiare.» Toni rallenta mentre si avvicina alla casa che ha indicato sulla fotografia satellitare. «È come pensavo» dice sorridendo.
Scatto qualche foto, anche se non so perché.
«Che succede?» chiedo, sporgendomi per guardare meglio la casa mentre lei la supera.
«È vuota, ne sono piuttosto sicura. E lo steccato è collegato in parte a quello del nostro obiettivo. Potremmo vedere il retro della nostra casa se riuscissimo a entrare in questo cortile.»
«Vale la pena correre il rischio?»
«Scommetto di sì. Vieni… Andiamo a vedere.»
Ora le nostre tute blu scolorite iniziano ad acquisire un senso. «Vuoi dire che usciremo dal furgone?»
«Sì. Tirati su i capelli e mettiti il cappello. Gli occhiali da sole sono un optional.»
Sono troppo sconvolta per protestare. Le mani mi si spostano sui capelli e seguo le sue istruzioni, usando l’elastico che avevo al polso. Ho paura, ma posso farcela. Non voglio che Toni sia disgustata dalla mia codardia, anche se so che si tratta di un comportamento utile a evitarmi di mettermi nei guai con le persone sbagliate.
L’ego. A volte è una cosa terribile.
Mi infilo il cappello da baseball sulla testa mentre Toni lascia il furgone. Devo contare fino a dieci prima di riuscire a costringere le dita a prendere la maniglia della portiera e a tirarla. I miei muscoli urlano di dolore mentre scendo a terra dall’alto sedile del passeggero.
«Porta la macchina fotografica, ma tienila nascosta.»
Prendo l’attrezzatura e la metto dentro la spaziosa tasca sulla gamba della tuta, chiudendola al sicuro con il velcro.
«Tieni, prendi questa.» Toni mi passa una cassetta porta attrezzi.
«Che c’è dentro?»
«Niente di cui devi preoccuparti. Fingi solo che sia normale che ti trovi qui e andrà tutto bene.»
Sto già sudando. Non fa ancora così caldo, ma importa? No. Perché questa tuta, che si sta trasformando in una sauna progettata per cuocere il mio corpo, non è calda a causa della temperatura esterna; è calda perché sto andando nel panico. Io non sono a prova di proiettile!
«Faremo il giro sul retro. Siamo letturisti di contatori.»
«Oh. D’accordo. Siamo letturisti.» Non c’è niente di sospetto in due ragazze letturiste. Ah ah.
Seguo Toni lungo il fianco della casa, notando che le finestre sono rotte o perlomeno crepate. L’odore di muffa è forte. Mi domando se questa sia una di quelle abitazioni mai recuperate dopo l’Uragano Katrina. Ho sentito che ce ne sono ancora alcune in giro.
Toni va dritta verso il contatore. Io la seguo da vicino. La cassetta degli attrezzi mi sbatte contro la gamba e qualcosa di pesante e metallico sferraglia all’interno.
«Stare davvero zitta sarebbe una buona idea a questo punto» dice Toni a bassa voce.
Il mio cuore manca un battito. Cerco di camminare in punta di piedi attraverso l’erba, senza riuscirci.
Lei si ferma nell’angolo all’estremità sinistra del cortile sul retro. Mi rendo conto, mentre arrivo accanto a lei, che siamo anche vicine alla recinzione posteriore della casa che dobbiamo sorvegliare. Temo che mi farò la pipì addosso.