Capitolo Otto
«Wow. Bel machete» esclamo, entrando in quella che penso sia una specie di salotto. Ci sono divani, un grande tappeto e un tavolino, ma la somiglianza con l’interno di una casa si ferma lì. La pesante porta si chiude dietro di me con un rumore metallico.
Ci sono armi in mostra ovunque, alcune sistemate come manufatti artistici, altre sembrano di uso quotidiano. Ho delle difficoltà a deglutire mentre la paura si impossessa di nuovo di me. Chi usa armi come quelle? Ninja? Non i bravi ragazzi, che io sappia. Neanche per idea. Tuttavia non ho visto asiatici in giro, quindi questo dev’essere un covo della mafia. Getto un’occhiata alle mie spalle e vedo che la porta attraverso la quale sono appena passata ha un tastierino digitale sulla parete interna. Sono chiusa dentro. Intrappolata!
Sono così nella cacca che non è per niente divertente. Forse riuscirò ad allontanarmi per andare al bagno e manderò un messaggio d’emergenza a Jenny o alla polizia o alla Guardia Nazionale.
«Non è un machete» spiega Dev. «È una spada da samurai.»
May “Samurai” Wexler. Uhmmm… No. Continua a non piacermi l’idea di unirmi alla loro cosca mafiosa o quello che è. Posso andare a casa adesso? Esito all’entrata della stanza, per decidere quale dovrebbe essere la mia mossa successiva. Non mi viene in mente niente. Tutto mi spaventa da morire, con l’eccezione di quest’uomo. Mi fa venire voglia di comprare una confezione di popcorn e guardare un film con lui, più come un fratello-barra-amico, non un assassino. Il pensiero mi aiuta a riportare il respiro sotto controllo.
Felix a quanto pare si è stancato di aspettare che io prenda una decisione sul da farsi e decide per me. Si lancia fuori dalla borsa e corre via, scomparendo dietro un angolo, dentro quella che posso solo presumere sia un’altra stanza.
«Felix!» grido, preoccupata per la sua piccola vita.
«Oh, merda» esclama Dev. Poi si porta le mani alla bocca e urla: «Attenzione! Chihuahua in libertà!».
Sento rumore di mobili che strisciano, piccoli latrati e poi quelli che forse sono i mastini dell’inferno liberati dalle catene per far piombare la loro furia assassina sulle nostre teste. Supero Dev di corsa, spingendolo da parte, incurante della mia sicurezza, mentre mi precipito a salvare la vita del mio bambino.
«Felix, nooo!»
Svolto l’angolo, pregando di non vedere il mio cane fatto a brandelli sul pavimento. Non so cosa corra più veloce, se le mie gambe o i battiti del mio cuore.
Quel che vedo quando entro nell’altra stanza, però, mi blocca sui miei passi. Penso che tutti siano sbalorditi quanto me.
Nel mezzo di una grande cucina di tipo professionale, c’è un cane più grosso di qualunque animale domestico abbia mai visto, immobile, con la coda dritta all’insù. Le persone che ho visto arrivare prima sono impalate lì accanto, a fissare i cani. Al lavello c’è un uomo che tende le mani in un gesto rassicurante, uno strofinaccio sulla spalla.
Caspita, è davvero sexy. Non ho mai visto muscoli così scolpiti se non sulle riviste di salute e benessere. Più tardi dovrò esaminarli meglio. Dopo aver salvato il mio cane da un pericolo certo.
A Felix non potrebbe importare di meno del fisico di quest’uomo. Saltella intorno al cagnone, cercando di leccargli la faccia, il torace, il sedere… qualunque punto su cui riesca a mettere la lingua. Quando però ben presto si rende conto di non riuscire a raggiungere altro che le caviglie del bestione, decide di averne abbastanza.
La coda del cagnone ricade in una posizione più naturale, poi il cane abbassa la testa verso Felix, leccandolo con sufficiente forza da spostare di lato il mio bambino. Felix si drizza con un salto, ovviamente, e va di nuovo a nozze con le zampe del cane. Lecca, lecca, leccaleccalecca. È diventato un leccatore automatico. Prima d’ora non gli ho mai visto pulire delle caviglie con tanto entusiasmo.
«Cazzarola» esclama l’uomo basso che guidava il SUV all’uomo in piedi davanti al lavello. «Il tuo cane è una vera fighetta.»
L’uomo al lavello lancia lo strofinaccio alla velocità di un fulmine, colpendo l’altro dritto in faccia. «Dillo ancora e vedrai cosa succede.»
Al mio cuore manca un battito quando riconosco la voce.
Lo osservo, dimenticando tutto ciò che mi circonda. Dev’essere imparentato con il mio salvatore. Stessa voce, stessi occhi, stesso corpo gigantesco, ma tutto il resto è diverso. I capelli sono corti, tagliati in stile militare. Ha il volto rasato, le sopracciglia curate e non c’è traccia di bandana o di giubbotto di pelle. Indossa jeans e una maglietta nera come l’amico dall’altro lato della stanza, e i suoi bicipiti tendono talmente tanto le maniche che temo per le cuciture. Stampato sul pettorale sinistro ci sono un piccolo stemma e alcune parole: BSB SECURITY SPECIALISTS.
«Cane grazioso» commenta la donna, alzando lo sguardo su di me.
È bellissima, un po’ come tutti gli altri presenti, il che mi fa desiderare di essermi almeno pettinata i capelli prima di uscire di casa questa sera. Posso solo immaginare quello che queste persone stanno pensando di me, qui in piedi con le mie espadrillas.
«Grazie.» Rivolgo di nuovo l’attenzione ai cani. «Vieni qui, Felix. Smettila di fare la peste.» Il mio battito è più calmo, ora che mi sono accertata che il mio cane non morirà oggi.
Il cagnone si lascia cadere sui gomiti, poi si gira sul fianco. A quel punto mi rendo conto che non è un lui, è una lei. Non so perché il mio cervello mi diceva che cane grosso significava cane maschio, quando ho una bestiolina di tre chili che mi porto in giro nella borsetta e che non è certo una femmina.
Felix si arrampica sulla cassa toracica della gigantessa, gira su se stesso diverse volte e poi si sdraia con la testa fra le zampe. A quanto pare ha confuso quel gigantesco lupo sbrana uomini con un cuscino.
«Mi prendi in giro?» esclama il cuoco, e sembra davvero offeso. «Sahara, un po’ di dignità, per piacere.»
Lei alza la testa per lanciargli un’occhiata, poi la rimette giù e fa un lungo e rumoroso sospiro. Batte le palpebre un paio di volte, ma per il resto non si muove. È come se volesse che Felix stesse a suo agio e fosse disposta a essere torturata, piuttosto.
Il cuore mi si scioglie solo a guardarla. Naturalmente è un cane splendido, anche se le sue cacche probabilmente saranno grandi come Felix.
«Mangiamo» esclama Dev con entusiasmo.
Il cuoco indica il fornello con un altro strofinaccio. «Servitevi. Il pane è in forno.» Getta il canovaccio sul bancone ed esce dalla cucina, diretto verso luoghi sconosciuti.
Si muovono tutti nello stesso istante, si spostano al lavello per prendere una ciotola dalla credenza e poi verso la pentola sul fuoco. Si forma in fretta una fila.
«Che sta succedendo?» chiedo a chiunque voglia rispondere.
«Lo stufato. Bon appétit» dice il Cajun basso con un sorriso.
Osservo mentre ciascuno si riempie una scodella, prende una fetta o due di pane da una leccarda nel forno e poi si siede a un lungo tavolo di metallo, dalla parte opposta dei fornelli.
Quando sono tutti seduti, qualcuno recita una veloce preghiera e poi si tuffano sui piatti. È possibile che non mangino da un po’; dire che sono entusiasti dello stufato è un eufemismo.
«Mmmh, mmmh, buonissimo» esclama Dev con la bocca piena.
Distolgo lo sguardo per non vedere i particolari.
«Non delude mai» concorda la donna.
«Io me ne prendo un secondo piatto» dice l’uomo bello come un attore. «Sono stato in missione tutto il giorno.»
«Si va in ordine di arrivo» specifica il Cajun, «e l’amica di Ozzie non ha ancora mangiato.»
Penso che stiano parlando di me. «Ozzie è quello con la barba orribile?» chiedo, prima che possa pensare a un altro aggettivo per i suoi peli del viso. Ooops.
«Sì» risponde la donna. «L’unico e il solo.»
«Pensavo che Ozzie fosse il cuoco» affermo, ora del tutto confusa.
«È lui. Il migliore.» Dev è impegnato a cacciarsi in bocca lo stufato, così le parole gli escono un po’ più sbrodolate del previsto.
«Esistono cose chiamate tovaglioli» gli suggerisce la ragazza, gettandogliene uno in faccia.
Lui lo afferra prima che gli colpisca la fronte, senza nemmeno distogliere lo sguardo dal cucchiaio. «Mi piace gustarmi lo stufato e tovagliolarmi il mento alla fine.»
Prima d’ora non ho mai sentito usare la parola tovagliolo come un verbo, ma capisco cosa vuole dire. Gli serviranno un bel po’ di tovaglioli quando avrà finito. Non sono nemmeno sicura che prenda fiato tra un boccone e l’altro. Come fa a non soffocare? Mi sembra di vedere una goccia di sugo sulla sua guancia, proprio sotto l’occhio.
«Sarà meglio che tu te ne prenda un piatto prima di restare a bocca asciutta» mi consiglia il Cajun, indicando il lavello con il cucchiaio. «Lucky farebbe fuori sua nonna per l’ultima porzione.»
Immagino che il nome di Hollywood sia Lucky. Lui non sembra in disaccordo con la descrizione del suo carattere.
Mi avvicino piano alle ciotole, la mente che vortica confusa. Chi sono queste persone? Vivono qui insieme? Come fa Ozzie a essere sia il cuoco sia l’uomo con la barba? E chi era il tizio sexy al lavello, se non Ozzie? È evidente che lo stufato non è avvelenato, perché lo stanno mangiando tutti. Perché mi trovo qui? Perché non mi fanno domande? Perché Felix sta dormendo su un lupo?
Niente di tutto ciò ha un briciolo di senso, così mi faccio avanti e mi servo un mestolo di stufato nel piatto. Essere confusa e affamata non è una buona combinazione. Lascio stare il pane, però. Ne vorrei davvero un pezzo, ma continuo a immaginarmi che qualcuno possa assalirmi mentre sono girata di schiena e mi abbasso verso il forno. Sarei troppo vulnerabile. Vorrei che Felix la smettesse di essere così calmo. È pur sempre una situazione di semi emergenza, per quel che mi riguarda.
Mi avvicino al tavolo con il mio piatto di stufato e la testa piena di cautele. Ci sono quattro posti vuoti, ma solo uno mi garantisce una buona via di fuga, essendo il più vicino alla porta.
Sto per sedermi e quasi mi viene un infarto quando tutti gridano nello stesso istante: «Non lì!».
Mi alzo e faccio un balzo all’indietro.
«Quello è il posto di Ozzie. Siediti qui.» Lucky dà una pacca alla sedia accanto a sé. È tra lui e la ragazza. Lei, forse, potrei sopraffarla. Lui… non ne sono così sicura.
«Ti assicuro che non mordiamo» precisa lei.
«Non molto» aggiunge Lucky.
Lei sbuffa ma non lo smentisce.
Il mio stomaco decide per me, visto che brontola come un orso infuriato. Prima poso la ciotola, poi mi tolgo la borsa dalla spalla.
La donna arriccia il naso mentre la metto a terra. «Sento puzza di piscio.» Si gira e guarda di traverso i cani. «Ormai dovresti saperla fare nel vasino, Sahara.»
«Non è lei… sono io» preciso.
Smettono tutti di mangiare nello stesso istante e mi fissano.
Divento paonazza. «Cioè, è la mia borsa, non io. Felix prima ci ha fatto la pipì dentro.»
La ragazza mi scruta per un paio di secondi, l’espressione disgustata. «Oh. È molto meglio così, piuttosto che fossi stata tu.»
Rimango a bocca aperta. Non so se stia cercando di essere divertente o del tutto scortese.
Il Cajun mi chiarisce il dubbio. «Non essere così stronza, Toni. È un po’ traumatizzata. Tu non lo saresti?» Scuote la testa, forse deluso, e torna al suo stufato. Sorbisce rumorosamente il sugo dal cucchiaio.
Toni non replica. Dà solo un morso al pane, come se non mi avesse appena supplicata di colpirla con la mia borsa pisciata.
Poiché sono in ampia inferiorità numerica rispetto alla forza muscolare intorno al tavolo, che presumo rappresenti quasi una famiglia per lei, decido di godermi almeno il pasto. Chissà? Potrebbe anche essere l’ultimo.
Il primo boccone mi fa capire perché Lucky sarebbe disposto a far fuori sua nonna per averne un altro piatto.
«Wow» esclamo, gustando un pezzo di salsiccia piccante. «Questo stufato è sbalorditivo.»
«Te l’avevo detto.» Dev mi sorride. «Aspetta di aver provato la sua jambalaya. Una cosa dell’altro mondo.» Il Cajun alza gli occhi al cielo. «Oh là là, farò una richiesta speciale la prossima settimana… puoi contarci.» Mi fa l’occhiolino. «È il mio compleanno.»
Annuisco, tornando allo stufato. Tre bocconi e sono sempre più innamorata dell’uomo che l’ha cucinato. «Be’, ma dov’è Ozzie?» chiedo. «Lui non mangia?» Non sono così impaziente di rivedere quella barba, ma vorrei ringraziarlo. Per ora non mi ha uccisa, mi ha anche salvata da un inseguitore e mi ha nutrita. Tutto ciò si merita come minimo un po’ di gratitudine.
«Probabilmente ha già mangiato. Non mangia spesso con il gruppo» spiega Lucky.
«Come mai?» Continuo a fissare il suo pane, domandandomi se abbia intenzione di mangiarlo. Avrei dovuto prenderne un pezzo quando ne ho avuto la possibilità.
Dev si alza e va verso il fornello. Dietro di me sento che si versa un’altra cucchiaiata di stufato.
«Ha un sacco di scartoffie da sistemare» dice Lucky.
«È un solitario» aggiunge Toni. «Molto.»
«Oh.» Non ho niente da replicare. So solo che è un cuoco eccellente. Spero che non ci siano peli di barba dentro, però.
Dev posa un pezzo di pane tostato all’aglio sul tavolo, accanto al mio piatto. «Ho visto che adocchiavi la fetta di Lucky. Non voglio che tu finisca con le dita mozzate a morsi.»
«Chiudi il becco, coglione, ho fame. Ce l’avresti anche tu se avessi pedinato quel pezzo di merda per dodici ore.»
Dev apre la bocca per rispondere ma è bloccato da una voce adirata proveniente dalla porta.
«Non voglio sentire fiatare. Lei non resta.»
Alzo lo sguardo e vedo sulla soglia l’uomo che ha gettato lo strofinaccio.
«Oh, dai, Oz, non essere troppo intransigente» replica il Cajun. «Può restare per un po’. L’hai detto tu che potrebbe essere in pericolo.»
E finalmente faccio due più due. Questo bel pezzo di manzo che torreggia su di noi con i suoi muscoli non è il fratello di Ozzie. È Ozzie. È lui il Barbuto. È lui l’uomo che mi ha detto di lasciar stare la mia auto e che poi mi ha condotto qui quando non l’ho ascoltato. Ed è lui quello più sexy di quel che dovrebbe essere un uomo, con i muscoli che gli gonfiano la maglietta e la mascella contratta dal fastidio, mentre mi guarda di traverso. Sembra del tutto diverso.
«Cos’è successo alla tua orribile barba?» chiedo, prima di riuscire a trattenermi.