Capitolo Due

Sono ferma in un parcheggio pieno perlopiù di motociclette vintage e grosse Sedan che probabilmente avrebbero dovuto essere demolite da tempo. Ci sono due pick-up, di cui uno nuovo. Oltre alla mia macchina, l’unico veicolo tra questi con cui mi farei vedere in giro è un furgone, per l’amor del cielo. Io odio i furgoni. Sono così… grossi e campagnoli.

Questa dev’essere la peggior decisione parentale che mia sorella abbia mai preso. Che cosa le è successo? Non può essere solo il correttore automatico del telefono. Il suo ex-marito, Miles, questa volta deve averla spinta oltre il limite.

Felix e io entriamo nel locale e ci fermiamo subito dopo la porta per studiare l’ambiente. Cerco di convincermi di non essere nervosa, dopotutto sono una donna adulta che ha frequentato un sacco di locali e non ha alcun motivo di temere nessuno. Peccato che non funzioni. A ogni momento che passa i palmi delle mani mi sudano sempre di più. Vago con lo sguardo per la sala, cercando una donna disperata che si strappa i capelli e tre bambini piccoli appesi ai lampadari.

Invece vedo degli sgabelli da bar con sopra dei grossi sederi maschili, con i portafogli incatenati alle tasche; tavoli da biliardo con intorno gruppi di uomini che stringono stecche, tutti con indosso gilet di pelle e copricalzoni di cuoio; e un paio di donne (che, ne sono piuttosto sicura, vengono pagate a ore per esercitare il mestiere più antico del mondo), a cavalcioni su degli sgabelli nell’angolo.

Mi chiedo per una frazione di secondo se a qualcuno di loro serva una fotografa per matrimoni. È la mia disperazione che parla, la parte di me che pensa sempre al conto in banca e a quanti pochi soldi ci siano sopra. Poi il mio cervello razionale riprende il controllo e mi rendo conto che, se mai qualcuna di queste persone dovesse sposarsi, molto probabilmente lo farebbe in un municipio e alla cerimonia seguirebbero bicchierini di whiskey per suggellare l’accordo. La gente che festeggia in questo modo gli eventi della vita di solito non prenota sessioni fotografiche che implichino persone vestite.

E a proposito di essere fuori dal proprio elemento, mi guardo i piedi. Le espadrillas rosa devono essere state una pessima idea. Le occhiate torve che ricevo dagli avventori in cuoio non aiutano nemmeno un po’ il mio problema di palmi sudati.

Di fronte a me c’è un arco che conduce a un’altra area aperta al pubblico; da dove mi trovo non riesco però a scorgerne i particolari. Poiché non vedo i membri della mia famiglia in questa sala principale, presumo che debbano essere lì. Posso solo immaginare che cosa ci sia laggiù. Forse droga. Forse altra pelle e portafogli con la catena. Ora al festival del sudore si sono aggiunte anche le mie ascelle. Fantastico.

Che passava per la testa di mia sorella? È venuta in questo bar ed è andata nella sala sul retro? È improbabile che lì succeda qualcosa di buono. Nella migliore delle ipotesi? Partite a poker. Il suo ex ci si butterebbe a pesce. È sempre più che felice di rimarcare i fallimenti di mia sorella come madre. È evidente che Jen si trovava sul confine tra l’essere una mamma stressata e una mamma impazzita e nella merda. Ora so che quel confine sottile l’ha attraversato ed è finita in un luogo molto oscuro. Povera sorella. Poveri bambini!

Prima d’ora, non mi sono mai dovuta confrontare con Jenny sulle sue discutibili scelte parentali. Era stressata, certo, ma non è mai stata così fuori di testa. Quando con il divorzio la situazione si era fatta davvero grave, si era presa una pausa; aveva sistemato i bambini da me e si era assicurata che stessimo tutti bene prima di andare in vacanza per una settimana.

Non ne sono certa, però penso di poter effettuare un intervento in solitaria senza che tutti i presenti nel locale si accorgano che non li ritengo la migliore delle compagnie per mia sorella, la mia povera, incauta sorellona che la pagherà cara per avermi trascinata in questo posto.

Ho i piedi letteralmente incollati al pavimento. Per avanzare devo staccarli dal… Che cos’è?… Moquette? Linoleum? È impossibile stabilirlo. Rabbrividisco al pensiero di quanti batteri sto accumulando sul mio corpo in questo momento. Lascerò senz’altro le scarpe fuori dalla porta, dopo questa escursione. Forse dovrei bruciarle e basta, per impedire il diffondersi del contagio. La cosa mi rattrista, perché amo le mie espadrillas rosa.

Numerose teste si girano per fissarmi mentre riprendo a camminare.

Mi tiro la borsa di Felix più su sulla spalla: la sua testa fa capolino e lui dà uno sguardo intorno.

«Che ne dici, Fee?» gli chiedo piano, con voce un po’ troppo acuta. «Ti va una birretta?»

Invece di fiondarmi nella sala sul retro, per dire a mia sorella di andarcene subito, decido che mostrarmi disinvolta è il modo migliore per gestire la situazione. A volte lei sa essere proprio ostinata. L’ho vista darsi la zappa sui piedi in più di un’occasione e non voglio che questo si ritorca contro di me o che finisca col diventare una di quelle situazioni da “qualcuno chiami la polizia perché un’altra divorziata ha sclerato”. Rimarrò qui al bancone per un paio di minuti e cercherò di trovare il coraggio per affrontare il faccia a faccia che di certo sta per arrivare.

Felix ansima eccitato. Lo prendo come un “Magari!” alla mia domanda sulla birra.

Mentre mi dirigo al bar, mi vibra il telefono: ho un messaggio.

Jen: Dove diavolo 6?

Io: Mantieni la calma. Sono qui.

Jen: Dove? Vedo solo un’oca con un cane da borsetta.

Mi si sloga la mascella mentre fisso a bocca aperta il suo messaggio. È proprio uscita di senno. Oca? Da quando in qua sono un’“oca”? Sa che mi sono laureata con lode. Le mie dita volano sui tasti.

Io: Sarà meglio che tu ti dia una calmata o il nostro team di salvataggio inizierà a usare il tuo petto come sacco da boxe.

Jen: Considerati un uomo morto. Ti ho avvertito a proposito di quella faccenda del petto.

Sbuffo. Dev’essere sbronza. Annullo il programma di ordinare una birra e mi giro per dirigermi, invece, nella sala sul retro. Il nervosismo ha lasciato il posto all’indignazione. La mia amata sorella mi ha appena chiamata “oca” e “uomo morto”. Dev’essere ubriaca davanti ai bambini, perciò basta amorevole e premuroso intervento della sorella più piccola. Adesso si fa sul serio. Mi scrocchio le dita, preparandomi ai pugni che le ho promesso.

La sala in fondo è più buia di quella nella parte anteriore del bar. Non c’è nessuna pista da ballo, niente coppie e nulla che assomigli a delle decorazioni, a meno che non si considerino arredamento d’interni le insegne rotte di birra e le pareti macchiate di nicotina. Il posto è completamente vuoto, ma nell’angolo più estremo della stanza vedo quelle che potrebbero essere le porte del bagno. Lei e i bambini saranno lì.

Sono sotto l’arco che unisce il davanti del bar con la sala sul retro, quando alle mie spalle si sente una forte esplosione. Non ho nemmeno il tempo di voltarmi prima di ricevere uno spintone sulla schiena.

«Che diavolo?!» Le parole mi sgorgano dalla gola mentre mi curvo leggermente all’indietro e inciampo, piegandomi poi in avanti.

Sento odore di fumo. L’adrenalina mi pompa nelle vene mentre recupero l’equilibrio. Felix sta abbaiando come un rabbioso mezzo Chihuahua posseduto dal demonio. Mi sento come se stessi per avere un infarto.

La persona che mi ha spinta mi afferra per il braccio e in pratica mi rimette in piedi, spostandomi a forza nella sala posteriore, che mi piaccia o no.

«Che stai facendo?» strillo, dimenandomi per sottrarmi alla presa dell’uomo.

Ora sono spaventata e infastidita. Non ho idea di cosa stia succedendo, ma non mi piace essere maltrattata. Mi ricorda troppo l’aggressione che mi ha lasciata con un occhio nero, un ginocchio sbucciato e un portafoglio sparito.

Quando alla fine mi volto, dietro di me vedo un uomo grande come una montagna, che sfoggia una folta barba nera e una massa di capelli crespi abbinati, circondati da una bandana blu. Potrebbe avere qualunque età tra i trenta e i sessant’anni; è impossibile stabilirlo con buona parte del volto e della testa nascosta da… puah… quella pelliccia da grizzly.

«Ti faccio uscire di qui» borbotta lui, spingendomi di lato.

Perdo un po’ di terreno prima di riuscire a puntare i piedi. «Devo trovare mia sorella e i suoi bambini!» Mi divincolo dalla sua stretta, cercando di infilare la mano nella borsa per prendere il Taser e insegnare a questo bestione un paio di cosette su come si tratta una signora. Basta essere spaventata! Mia sorella è lì da qualche parte e ha bisogno di me. Qualche folle sostanza chimica nel mio cervello mi ha trasformata in una specie di supereroina. Ho persino un aiutante di nome Felix. Dovremmo avere mantelli abbinati.

«Non ci sono bambini qui, sei matta?»

Non accetterà un no come risposta. Sono già in mezzo alla sala sul retro quando assimilo quello che ha detto. Rinuncio a trovare il Taser sotto il sedere peloso di Felix per concentrarmi sull’impedirmi ogni passo avanti.

Il tizio ha ragione, non ho ancora visto mia sorella. Ma ciò non significa che non sia qui. Potrebbe essere in bagno o in qualunque altro punto del bar, dove io non posso vederla. Mi ha mandato dei messaggi e io sono venuta, e non me ne andrò senza di lei e quei bambini.

«Perché mi stai spingendo?» Cerco di afferrare lo schienale di una sedia mentre ci passo accanto, ma perdo la presa e la sedia cade dietro di noi con uno schianto. Il frastuono di gente che urla nell’altra sala si fa più forte. Si uniscono alla confusione grida provenienti dalla zona anteriore del bar e non tutte sono femminili.

«Esci» dice lui. «Devi andartene.»

Afferro il bordo di un tavolo che per fortuna è inchiodato al pavimento e blocca i nostri passi.

«Non vado da nessuna parte» sbotto, piegandomi in due quando lui cerca di prendermi per la vita. «Devo raggiungere mia sorella.» Gli tiro un calcio, prendendolo nello stinco.

«Ahi!» Lui si china, sorpreso dal dolore, e mi lascia andare.

Sento una detonazione e un colpo secco. Sgrano gli occhi quando noto un buco enorme nel legno accanto a me, dove prima c’era una superficie perlopiù liscia. Alzo lo sguardo e vedo un uomo in piedi all’ingresso della sala posteriore, una pistola puntata nella nostra direzione. Per un paio di secondi il mio cuore smette di battere e mi sembra che il petto mi si squarci dalla paura.

Non mi vergogno di dire che a quel punto strillo piuttosto forte, e non è uno di quei graziosi urletti femminili. Sembro più un pollo impazzito a cui qualcuno non è riuscito a tirare il collo.

Il gigante che stava cercando di portarmi fuori dal bar mi afferra per la borsa e mi tira a terra. Cado in ginocchio, tremando in maniera incontrollata.

Felix lo ringrazia mordendogli la mano.

«Figlio di…!» L’uomo si infila la mano in bocca per un attimo, poi la tira fuori. «Andiamo!» Sempre chinato, prende la mia e mi trascina fuori dalla stanza, usando i tavoli e le sedie come riparo.

Per metà corro, per metà inciampo, cercando di mettere più distanza possibile tra me e lo squilibrato che ha avuto la sfacciataggine di spararmi.

Ci seguono altre esplosioni e altri colpi che fanno volare schegge di legno e mi feriscono un lato del viso. Inizia subito a bruciarmi da morire.

«Sono stata colpita!» Di scatto mi porto la mano libera al volto e trovo qualcosa di bagnato e appiccicoso. Quando la scosto e la guardo, vedo che è macchiata da una sostanza scura. Porca vacca, è sangue? «Oh mio Dio, sto sanguinando!»

Ora sento un fragore nelle orecchie, ma non viene dall’esterno del mio corpo. Penso sia il cuore che sta per esplodermi. Questo è il peggior salvataggio di sorella di tutti i tempi!

«Continua a correre e basta!» grida il mio salvatore, spingendomi fuori da una porta.

Cado sulle mani e sulle ginocchia in un vicolo sporco, puzzolente e viscido; la borsa atterra al mio fianco. Felix ruzzola fuori e poi si mette in piedi, abbaiando come se fosse posseduto dal diavolo in persona. So con precisione come si sente. Penso che tra poco vomiterò.

La porta sbatte dietro di me. «Metti a tacere quel cane» sbraita l’uomo.

«Sei ancora qui?»

Sto gridando. Non sono felice perché so per certo che quelle pallottole erano dirette a lui, non a Felix e me. Non abbiamo mai suscitato in nessuno un tale livello di odio. Forse un paio di parole forti per minuscole cacche di cane lasciate sul prato di un vicino, quelle sì. Ma pallottole? Mai. Quest’uomo è pericoloso. Chiunque può vedere che è un motociclista malavitoso o uno spacciatore di droga, e io non lo voglio intorno.

Un attimo prima sto annusando quello che sono quasi certa sia il contenuto dello stomaco di qualcun altro sull’asfalto, quello successivo sto volando in aria. Sono solo un po’ disorientata quando i miei piedi toccano di nuovo terra e mi ritrovo dritta, nel verso giusto.

«Cos’è successo?» sussurro, in un tono di voce troppo acuto per un normale essere umano. Mezzo secondo dopo mi rendo conto che sono in piedi perché lui mi ha sollevata con la stessa facilità con cui avrebbe sollevato un foglio di carta.

«Prendi il cane e andiamo.» Ha la mano sulla porta del retro, sotto un cartello luminoso che indica l’uscita, e la tiene chiusa. Se non fossi così spaventata per la mia incolumità, sarei impressionata dalla sua cavalleria. A quest’ora avrebbe potuto essere a un chilometro da qui, se si fosse preoccupato solo della sua pelle.

Mi trema tutto il corpo, inclusa la voce. «Vieni qui, Felix. Entra nella borsa.»

Felix sta abbaiando a tutti e a tutto, vero o immaginario che sia. Saltella qua e là con un’energia rabbiosa.

«Vieni qui, Felix! Dobbiamo andare!»

Quando finalmente metto le mani su di lui, mi colpisce per quanto appaia posseduto dalla sua collera; sta vibrando come la corda di una chitarra appena pizzicata. Mi metto in movimento, ancora prima di averlo sistemato. Il tizio con la barba ha ragione, mia sorella non è in quel bar. Perché pensavo che ci fosse? Forse sta bevendo a casa sua e mi ha mandato dei messaggi sotto gli effetti della sbronza. Ho intenzione di ucciderla.

«Dai, Fee, entra. Smettila di bighellonare.» Spingo Felix di testa dentro la borsa e la chiudo stringendo il braccio contro le costole. «È ora di filare da qui.» E di lasciarsi alle spalle questo malvivente.

Inizio a camminare veloce verso l’estremità opposta del vicolo, quando vengo afferrata ancora una volta per il gomito.

«Che c’è?!» grido, voltandomi di scatto verso il bestione che ovviamente non ritiene importanti né l’igiene personale né le buone maniere. «Che c’è adesso?» Il cuore mi sta scoppiando nel petto mentre saetto con lo sguardo dalla porta al mio rapitore. So che il folle con la pistola raggiungerà quell’uscita da un momento all’altro e quando uscirà non voglio farmi trovare da quelle parti.

«Non puoi andare di lì… Loro ti staranno aspettando. Seguimi.»

Mi sento un pochino dispiaciuta per aver pensato male di lui, perché è evidente che sta cercando di aiutarmi. Quando però parte di corsa, lasciandomi lì, il mio senso di colpa scompare. E tanti saluti alla cavalleria. Non guarda nemmeno indietro per vedere se lo stia seguendo, l’idiota.

I miei piedi iniziano a muoversi di loro spontanea volontà. «Chi sono loro? Perché mi stanno aspettando?»

Lui non risponde. Invece svolta diversi metri più avanti, lasciandomi sola nel vicolo vomitoso disseminato di immondizia. Quando guardo nella direzione opposta, verso la strada dove mi aspetta la mia macchina, giuro che riesco a vedere la sagoma di un cattivo con la pistola, così inizio a correre dietro al tizio con l’orribile barba, pregando di non dovermi pentire di quella decisione quanto mi sto pentendo di essermi lanciata in un salvataggio che, fin dall’inizio, non era mai stato necessario.