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Rhys assestò un calcio con il tacco dello stivale facendo cadere per terra quattro pesanti tomi, che formarono una pila di dorsi piegati e pagine stropicciate. Quell’angolo del giardino d’inverno era dannatamente freddo a notte fonda, tuttavia lo spazio arioso, dove aveva fatto portare lo scrittoio e la sedia di sua madre, era preferibile ai confini ristretti e soffocanti dello studio del padre.

Gli occhi bruciavano, la testa pulsava e non si raccapezzava nei numeri e nelle annotazioni dei libri contabili della proprietà. Dopo avere esaminato per ore le pagine senza ottenere alcun risultato, tanto valeva lasciarli sul pavimento.

Felice di essersene liberato, si lasciò cadere con un sospiro sulla seduta di pelle screpolata. Poi allacciò le mani sulla nuca e posò le gambe sulla scrivania. Con gli occhi chiusi, cercò di apprezzare il silenzio, la quiete del luogo e la pace della mente.

Dopo soli quattordici secondi, un gemito di insoddisfazione gli uscì dalla gola.

Chi stava cercando di ingannare?

Lui detestava il silenzio, la solitudine. Da quando era arrivato a Edgecombe ne aveva avuto in abbondanza. Sua sorella, che non l’aveva ancora perdonato, trascorreva gran parte del tempo in visita alle amiche del villaggio o chiusa in camera.

L’unica volta che lui aveva provato a scusarsi era fuggita in lacrime in biblioteca che, a quanto pareva, considerava il suo rifugio come quando era una bambina.

In quel momento, come se fosse bastato il pensiero per farla comparire, Rhys la udì arrivare.

«Quando ero piccola, mi sdraiavo per terra con un libro.» I passi felpati di Margaret risuonarono alle spalle del fratello. «Adesso non credo che mi piacerebbe leggere appoggiata sui gomiti.»

«Mi sembra una posizione scomoda.»

«Non quanto quella di quei registri. Hai piegato le pagine.»

«Se lo meritavano.»

«E perché sei in collera con loro?» Meg si avvicinò alla sedia e lo fissò con le braccia incrociate davanti a sé.

«Hanno avuto la meglio su di me.»

«Posso aiutarti?» chiese lei in tono dolce, titubante.

«È una mia responsabilità, tu devi pensare alla tua Stagione.»

Non era il caso di parlarne. Rhys era sicuro che la risposta ai debiti del padre fosse tra le pagine dei libri mastri, ma non voleva che la sorella si preoccupasse. Era già abbastanza apprensiva.

«A proposito...» Meg giunse le mani e continuò con voce eccitata: «Un’amica mi ha raccomandato una brava sarta che ha realizzato gli abiti di diverse debuttanti. È qui a Londra, perciò dobbiamo andarci presto. Dovrò ordinare dei vestiti, delle scarpe, dei cappellini...».

«D’accordo.» Rhys emise un sospiro rassegnato. «Possiamo rimandare di una settimana?»

Meg aprì le braccia e cominciò a tirare un nastro del polsino del mantello. «Se qualcosa non va, dovresti informarmi. Nostro padre non mi diceva mai niente e io non lo sopportavo.»

Rhys alzò lo sguardo e notò le rughe di preoccupazione che le increspavano la fronte. Quanto doveva essere stata infelice, sola con il padre in quella dimora isolata. Un pensiero si affacciò alla sua mente. Sarebbe dovuto andare a trovarla più spesso o avrebbe potuto portarla a Londra ogni tanto. Che sciocchezza! La sua reputazione le avrebbe nuociuto.

«Ti prego, non preoccuparti. Ti assicuro che la tua prima Stagione sarà un successo.» Non aveva idea di come avrebbe fatto, ma così sarebbe stato.

«Ha lasciato dei debiti, vero?»

Non avendo ottenuto una risposta, Meg si avvicinò ai libri mastri.

«Lascia perdere. Fidati di me. Andrà tutto bene.» Rhys si sforzò di sorridere e la sorella, con un cenno, gli comunicò che non avrebbe insistito. Almeno per quella sera. L’argomento sarebbe stato sollevato di nuovo. Ne era sicuro, Meg era una ragazza tenace.

«Se mi prometti che non farai cadere nient’altro questa notte, torno a letto.»

«Dormi bene.»

Dopo che se ne fu andata, Rhys non riuscì a smettere di pensare a quei dannati registri. Farli cadere, anche gettarli da una finestra non sarebbe servito a niente. C’erano delle irregolarità. Malgrado la sua scarsa attitudine per la matematica, era evidente che i conti non tornavano. Era difficilissimo interpretarli. Non solo erano scritti con una grafia disordinata e alcuni erano stati cancellati. Persino quelli leggibili erano una sfida per lui. Negli anni, la sua capacità di decifrare le parole in una pagina era migliorata. Aveva imparato anche ad annotare i pensieri; tuttavia, quando era molto stanco, quando i problemi si accumulavano nella sua testa, leggere era la sua spina nel fianco.

Aveva bisogno di una persona con una mente matematica e analitica. Non si fidava dell’amministratore di Edgecombe. Oltre a essere partito per una vacanza prima del suo arrivo, quell’uomo non si era accorto degli errori nei libri mastri. Oppure aveva raggirato il duca di Claremont per anni. L’aveva incontrato una volta parecchio tempo addietro e, malgrado le maniere impeccabili, non gli aveva fatto una buona impressione.

La domanda era: Mr. Radley sarebbe tornato al lavoro o invece sarebbe scomparso portando con sé il denaro dei Claremont? Sempre che fosse stato lui a sottrarre i soldi dai conti.

«Maledizione!»

Rhys abbassò le gambe dalla scrivania e si alzò in piedi, guardando la bottiglia di bourbon che aveva vuotato poco prima. Pensò di chiamare una cameriera per farne portare un’altra, poi decise che la mente annebbiata dall’alcol non lo avrebbe aiutato ad affrontare il problema.

Lui non era mai stato capace di risolvere i rompicapo, a differenza della fanciulla che aveva illuminato ogni giorno della sua infanzia. Istintivamente girò il capo verso sinistra per fissare le pareti di vetro del giardino d’inverno. Con gli occhi della mente, oltre la facciata di mattoni di Edgecombe, vide Hillcrest, la dimora dei loro vicini.

Chissà che cosa stava facendo in quel momento?

L’ultima volta che l’aveva vista era felice. I genitori non avevano badato a spese per organizzare la festa di compleanno in giardino e, diversamente dal solito, Arry si era concessa di apprezzare le attenzioni che di norma rifuggiva.

Rhys strinse le mani a pugno quando il ricordo si fece più nitido. La delusione nel suo sguardo, le lacrime spazzate via con il dorso della mano. Che essere spregevole era stato. E non le aveva mai chiesto scusa.

Seguendo l’istinto, afferrò la giacca senza preoccuparsi di cercare il fazzoletto da collo. Uscì dal giardino d’inverno e procedette a grandi passi, con il rumore degli stivali che echeggiava nei corridoi deserti di Edgecombe, fino al portone.

Anche in una notte luminosa la distanza impediva di vedere la proprietà di Hillcrest, tuttavia Rhys conosceva la strada a memoria. Con le pulsazioni accelerate, varcò la porta spinto dall’entusiasmo. La voce della coscienza gli intimava di tornare indietro, ma lui abbassò la testa e partì affrontando il vento gelido.

Se fosse rimasto a Edgecombe per un certo periodo, se dopotutto voleva essere duca, farsi perdonare dalla famiglia più ricca e benvoluta del villaggio aveva un senso.

Non che lui fosse assennato. Prendere una carrozza e non presentarsi alla loro porta spettinato e con la barba lunga sarebbe stato un comportamento assennato.

Rhys però seguì l’istinto, che gli diceva di non fermarsi.

Procedette a grandi passi, attraversando i campi a ovest di Edgecombe. Ormai vedeva le lunghe finestre della facciata di Hillcrest, illuminate da un caldo bagliore. Mentre avanzava a fatica sul terreno sconnesso, si rese conto che quelli non erano più i prati ben tenuti di Edgecombe, vanto del suo giardiniere. Era arrivato ai campi sassosi, un appezzamento di terra che da sempre forniva una grande quantità di pietre per il muretto lungo un miglio che divideva la proprietà ducale da quella del vicino.

Il profilo del muro spiccava alla luce della luna. Era molto più basso di quello impresso nella sua memoria. Quante volte si era arrampicato su quelle rocce puntute per raggiungere la dimora dei Prescott? Quante volte aveva aiutato la fanciulla dai riccioli ramati a scavalcarlo per passare dalla parte opposta?

Prima della nascita di Meg, la sua infanzia solitaria era stata una successione di bambinaie e istitutori. Era normale che Arabella fosse diventata la sua compagna di giochi, l’amica del cuore. Si era unita con piacere alle sue buffonate infantili, si era scatenata con lui per la campagna. Era più giovane di quattro anni, eppure riusciva a superarlo in tutto. Impavida e fin troppo intelligente, era un tipo avventuroso e la più leale tra i suoi amici.

Solo a lei Rhys aveva confidato le sue difficoltà nella lettura e il desiderio disperato di compiacere il padre. Solo a lei aveva concesso di leggere le poesie e le storie incompiute scritte in gioventù. Bella non aveva mai riso di lui, non aveva mai perso la pazienza. Anzi, aveva incoraggiato ogni suo sforzo.

Rhys riusciva a fingere di essere sicuro di sé, Arabella Prescott invece era una donna che realizzava ogni obiettivo che si proponeva.

Malauguratamente, aveva deciso di evitarlo. E lui aveva cercato di ignorarla con uguale determinazione. Una volta l’aveva incontrata a un ballo, si era accorto che l’aveva visto, ma lei si era allontanata. Non si erano più salutati né rivolti la parola.

Rhys la capiva. Il ricordo di ciò che aveva fatto lo disgustava e preferiva non pensarci.

Bella lo aveva idolatrato, ammirato, e lui, come faceva di solito con tutte le persone a cui teneva, l’aveva delusa. Aveva tradito la fiducia e la confidenza costruite in anni di amicizia.

Era talmente giovane e arrogante che non le aveva nemmeno espresso il suo rammarico. Bella era talmente in collera che glielo aveva impedito.

Erano trascorsi cinque anni. Era giunto il momento di rimediare.

«Tua madre ha superato se stessa» sussurrò Louisa a Bella, seduta accanto a lei sul divano. Era una giovane frenetica, sempre in movimento, e quella sera stava fremendo sul cuscino.

«Sicuramente mi ha messo nel sacco.» Bella sorrise. O meglio continuò a sorridere. In verità lo stava facendo da tanto tempo da temere che il viso presto le si sarebbe irrigidito in un’espressione poco convincente.

«Non è una donna intrigante, lo sai. È esasperata a causa tua, Bell. Ha organizzato le prossime due settimane come un comandante militare.»

«Me ne rendo conto.» Bella sapeva anche che avrebbe dovuto lavorare al suo libro e scrivere lettere agli editori, invece di stare seduta nel salotto dei suoi genitori con diverse paia di occhi maschili puntati su di sé. Aveva acconsentito a provare, ma dopo tre giorni la sua unica certezza era che nessuno degli uomini che sua madre aveva invitato le aveva fatto cambiare idea sul matrimonio.

«Ne mancano due» osservò Louisa.

«Forse non amano le serate musicali.» Lady Yardley aveva organizzato un intrattenimento per ogni serata. In quel momento due gentiluomini stavano eseguendo con grande abilità un pezzo di Schumann al pianoforte. «Se ne sono andati appena la musica è iniziata. Torneranno.»

Bella sospettava che la madre avesse informato ogni corteggiatore che il loro unico scopo durante quelle due settimane era di contendersi il suo affetto. Alcuni avevano già iniziato l’assalto. Quando si erano incontrati nel vestibolo, Lord Wentworth aveva osato cantarle una canzone, cercando di conquistare il suo cuore con un’aria troppo lunga. Un altro le aveva donato dei fiori, delle rose che lei stessa aveva piantato e che preferiva ammirare nelle aiuole mentre passeggiava, piuttosto che vederle appassire in un vaso.

Sopra le note del pianoforte, Bella aveva l’impressione di sentire il ronzio delle rotelline che giravano nella mente dei gentiluomini alla ricerca del suo punto debole. O del modo per fare breccia nel suo cuore, come avrebbe detto sua madre da inguaribile sentimentale qual era.

Quando Lady Yardley si avvicinò, Louisa si alzò in piedi. «Vado a vedere che cosa stanno combinando i due ospiti che si sono allontanati.»

«Mr. Nix non è nobile, però è il più bello di tutti» sussurrò la madre di Bella, mentre le si sedeva accanto sul divano.

«Ho già avuto delle proposte da uomini avvenenti.»

«Lo so» dichiarò la madre, dandole una pacca affettuosa sul braccio. «E capisco che tu preferisca un uomo arguto e intelligente. Sei come me. Perché pensi che abbia sposato tuo padre?»

«Papà è bello.»

La bocca della madre si incurvò in un sorriso malizioso. «In effetti lo è. Tuttavia non è perfetto. Nessun uomo lo è.»

«Io non cerco la perfezione.» Bella avrebbe voluto aggiungere che non cercava un marito, ma ne avevano già discusso tante volte che sua madre probabilmente era in grado di recitare a memoria le sue parole.

Come se le avesse letto nel pensiero, Lady Yardley cambiò tattica. «Cerca la gentilezza, mia cara. Un uomo gentile ti darà soddisfazione, una casa e una famiglia tue.»

Un tempo la vecchia Bella aveva accarezzato quel sogno. Aveva addirittura disegnato la casa che desiderava, i figli che avrebbe avuto. Un maschio e due femmine. Naturalmente tutti con i riccioli biondi di Rhys. Ricordando come era stata ingenua, come si era lasciata trasportare dalla fantasia, avvertì una fitta al cuore.

La nuova Bella non avrebbe assecondato quelle sciocchezze sentimentali.

«Lord Hammersley è un visconte, avrei preferito un duca.» Sua madre continuava a parlare, passando in rassegna le doti dei gentiluomini che aveva convinto a trascorrere due settimane nell’Essex. «Tuttavia ho pensato che non fosse il caso di invitare il Duca di Claremont.»

«Infatti» convenne Bella in tono brusco. Doveva abituarsi a sentire nominare quel titolo, che Rhys aveva ereditato. Ancora non ci era riuscita. «Non dovremmo invitarlo.»

«Un tempo eravate molto legati» le ricordò la madre con uno sguardo fermo e troppo indiscreto.

Bella non aveva mai rivelato a nessuno i dettagli di quel giorno di cinque anni prima, tuttavia non era stato difficile per la sua sagace madre notare le sue lacrime e la partenza affrettata di Rhys. Con grande sollievo della figlia, però, non le aveva mai chiesto niente. Aveva provato a invitare il duca o Rhys a cena qualche volta, ma aveva smesso quando le voci della pessima reputazione del giovane erano arrivate nell’Essex e si erano sparse tra le famiglie del villaggio.

«Eravamo amici. Un tempo. Ora non più.»

In quel momento arrivò Louisa, che si fermò davanti al divano. Aveva le guance arrossate, come se avesse corso. «Perdonatemi, zia Gwendoline. Devo parlare con Bella.»

Lady Yardley strinse gli occhi in due fessure, ma diede la sua approvazione con un cenno del capo. Bella si alzò e seguì la cugina in fondo al salotto.

«Li ho trovati» sussurrò Louisa agitata.

«Non avevo dubbi. Nella sala del biliardo? Spero che non siano già ubriachi a quest’ora. E che non stiano fumando, altrimenti mia madre avrà...»

«No, niente di tutto ciò. Be’, forse hanno bevuto, ma l’importante è ciò che hanno detto. Ammetto di avere origliato.»

Bella inarcò un sopracciglio davanti al silenzio che seguì.

«Parla, Lou.» Sua cugina aveva la tendenza a drammatizzare, ma lei era troppo irritata per sopportarlo in quel momento.

Quando Louisa si chinò verso di lei, Bella avanzò di un passo. Invece di dirle che cosa aveva scoperto, la cugina si guardò intorno nel salotto, la prese per mano e la portò in corridoio.

«Lou...»

«Devi sentire anche tu. Se ci sbrighiamo, li coglieremo sul fatto.»

«A fare cosa?»

Invece di rispondere, Louisa fece uno scatto e trascinò Bella con sé. Sulla soglia della sala del biliardo, si fermò e si girò con un dito sulle labbra.

Le risate sonore dei due uomini echeggiavano nel corridoio. Erano Mr. Edgar Nix, il facoltoso proprietario di un mulino che secondo la madre di Bella era il più avvenente dei loro ospiti, e Lord Teasdale, un visconte vedovo con una rendita annuale di ottomila sterline e un castello fatiscente nel nord dell’Inghilterra.

«Un povero tizio sostiene che non gli ha nemmeno stretto la mano dopo averlo rifiutato. Quella donna è gelida.»

«È vero» convenne Nix. «Uno che conosco racconta ancora di quando provò a baciarla. Lei non ha battuto ciglio, non l’ha respinto. Si è limitata a offrirgli la guancia. Pare che la sua pelle sia fredda come il ghiaccio.»

Attraversata da un brivido, Bella trattenne un grido. Quelle parole avevano fatto riaffiorare in lei una collera familiare, che si trasformò in ira al calor bianco.

I due uomini ridacchiarono insieme.

«Forse dovremmo aumentare la posta. Duecento sterline? In fondo chi vincerà avrà un bel daffare e un premio alquanto freddo.»

«Ci sto, duecento sterline.» Il tintinnio dei bicchieri fu seguito da altre risate soddisfatte. «Che senso ha che una donna sia così bella, se non possiede un briciolo di passione?»

Bella tremava da capo a piedi. Le guance le si coprirono di rossore e il boato del sangue nelle sue orecchie coprì le risate dei due ospiti.

Superò Louisa, spalancò la porta della sala del biliardo e si diresse verso i due uomini che si girarono insieme, gli occhi spalancati e le schiene rigide. Per la vergogna, si augurò Bella. Forse non erano così vili da non provare imbarazzo.

«Lord Teasdale.» Era quello che l’aveva definita incapace di provare passione. Bella si compiacque di avere pronunciato il suo nome senza urlare.

Gli si avvicinò a grandi passi. L’ospite, che non riusciva a guardarla negli occhi, stava borbottando. Bella non si fermò. Era la collera a spingerla, un’indignazione più istintiva che razionale.

«Miss Prescott, non so che cosa abbiate udito...»

Quando Bella alzò un braccio per colpirlo, Teasdale arretrò vacillando.

«Arry, non farlo.» La voce veniva dalle sue spalle. Profonda, calma e dolorosamente familiare.

Bella rimase impietrita, con il braccio sollevato e la pelle d’oca.

Non era possibile.

Teasdale spostò lo sguardo sull’uomo che era entrato nella stanza. L’espressione che lesse nei suoi occhi – un misto di costernazione e invidiosa deferenza – disse a Bella che la voce che aveva udito non era frutto della sua fantasia.

Abbassò il braccio, inspirò a fondo e guardò da sopra una spalla l’uomo che avrebbe dovuto schiaffeggiare cinque anni prima.