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– Per prima cosa abbiamo bisogno di un negozio – disse Ansgar.
– Un negozio? A che scopo? Non abbiamo ancora niente da vendere.
Perché allora il negozio? – chiese Pindar Smith cui piaceva di continuo recitare il ruolo dell'uomo d'affari.
– Penso che Ansgar abbia voluto dire officina – disse John con calma.
Era abituato a questo genere di conversazione a tre, e non perdeva mai occasione di dare chiarimenti, tutte le volte che lo reputava necessario.
– Proprio così – confermò Ansgar. – Un'officina. Siamo su questo pianeta, che Dio lo...
– Che la Madre – corresse John. Questo era un altro dei suoi ruoli.
– Scusa. Che la Madre lo strafulmini. Siamo qui da tre settimane e non abbiamo ancora mosso un passo. Penso che sia il caso di dare il via a qualche invenzione. E, per inventare, ci serve l'officina. Ecco perché.
– Certo. Certo. Sono d'accordo – disse Smith. – Ma cosa diavolo ci conviene inventare?
– Per il naso della Madre, Pin – interruppe John. – Dov'eri? Mi sembrava che fossi presente anche tu quando abbiamo deciso di inventare il telegrafo.
– Perché mai dovremmo inventarlo? A volte...
John si alzò in piedi ed elencò le varie ragioni contandole sulle dita della mano.
– Primo: il telegrafo comporta l'elettricità. Due: l'elettricità porta all'elettronica. Tre: il telegrafo necessita di fili. Quattro: i fili significano una metallurgia avanzata. Cinque: il telegrafo richiede scuole per addestrare i telegrafisti. Sei: le scuole portano allo studio universale. Sette: il telegrafo significa comunicazioni rapide. Otto: le comunicazioni rapide portano alla stampa. Nove: la stampa ci offre il modo di fare della propaganda. Dieci: le compagnie telegrafiche hanno bisogno di guardiani.
E ho finito le dita. Comunque, undici: i guardiani si possono facilmente trasformare in un nucleo armato. – Si mise a sedere. – Oh, sì. Ne dimenticavo uno. Dodici: la tecnologia lyffana si trova a un punto tale da permetterci di inventare il telegrafo senza far crollare tutta la loro bastarda cultura. Qualche domanda?
– D'accordo – disse Smith. – Affitteremo un'officina. Quanto ci vorrà?
Affittare un'officina su Lyff era esattamente come affittarne una sulla Terra. Hurd e John fecero un lungo giro nel quartiere degli affari, alla ricerca di locali liberi.
– La cosa che dobbiamo assolutamente ricordare è che vogliamo un affitto bassissimo. Se la gente comincia a pensare che possiamo spendere, avremo gli occhi di tutta la città fissi su di noi. E noi vogliamo passare inosservati.
Alla fine riuscirono a trovare un posto adatto in Lame Dalber Street, accanto alla porta di una taverna. Lo stesso John, abituato alle architetture della Terra, fu costretto ad ammettere che si trattava di un edificio considerevole. La maggior parte delle case di Lyffdarg erano costruzioni che si allargavano piatte sul terreno, fatte di calce, con grossi travi tagliate a mano, e ricoperte con una struttura che doveva chiamarsi cresta. A meno che le creste non fossero quelle divertenti appendici rosse che portavano sulla testa certi uccelli della Terra ormai estinti. Avrebbe dovuto chiedere informazioni ad Ansgar.
L'edificio di Lame Dalber Street era maestoso, e non c'erano creste in vista, anche se poi le creste erano tutta un'altra cosa. La facciata era completamente ricoperta di una pietra bianca e lucente, che non si poteva vedere su nessun'altra casa della città. Ed era alto quattro piani. Un vero grattacielo.
– Apparteneva al Tempio – disse il padrone di casa con tono di confidenza. – In questa casa hanno abitato le Piccole Sorelle – soggiunse ridacchiando. – Ecco perché posso affittare l'edificio a un prezzo così basso.
– Noi però vogliamo soltanto il piano terreno – disse John.
– E quale sarebbe il prezzo tanto basso? – domandò Hurd.
Logicamente era stato dato a Hurd l'incarico di trattare, e il padrone di casa rispose rivolgendosi a lui.
– Una cosa ridicola – disse distrattamente. – Soltanto novantasette dalber al mese.
– Lo immaginavo – disse Hurd. – Vieni, amico John, andiamo a cercare un posto in cui non rubino.
– Ma non è molto – fece John. Poi si trattenne. – Certo – continuo – è una cifra che non ci possiamo permettere, ma per un edificio come questo non è molto. Spero che possiate affittarlo, un giorno. Vi saluto.
Si alzarono per avviarsi alla porta.
– Aspettate, aspettate – esclamò il padrone di casa. – Dato che siete appena arrivati nella nostra città, non per altro motivo, e dato che la Madre ama gli affari, posso scendere fino a novanta dalber. Vi va?
– Uhm – fece Hurd. – Siete molto gentile, signore, ma dobbiamo andare.
– Dopo di che, Hurd e John tornarono a mettersi a sedere e ripresero a trattare.
Accanto, nella Lame Dalber Tavern, Tchornyo Gar-Spolnyen Hiirlte stava ubriacandosi paurosamente. Nelle ultime tre settimane era stato colpito da una specie di insonnia cronica, che lo stesso Medico Personale del Re non era riuscito a guarire. Non poteva dimenticare la sonora risata degli assassini, quando avevano scoperto che la barba del povero vecchio Garlyn era finta.
"È un complotto" borbottava tra un sorso e l'altro di vino. "I comuni si vogliono ribellare. Vogliono rovesciare il governo. Non amano la Madre!"
Stava bevendo da solo. Due settimane prima, gli amici avevano cessato di chiamarlo "Il Superstite", cambiando la denominazione in "Drigol" parola che poteva voler dire "strofinaccio", "seccatore", o "vecchia serva", a seconda della frase in cui il termine veniva usato. Quindi, stava bevendo da solo. Le sue lamentele venivano ascoltate soltanto da un taverniere visibilmente annoiato.
– Porta ancora un bicchiere di vino – bisbigliò l'oste alla moglie. – È
l'ultimo, poi, nobile o non nobile, scaravento questo maledetto ubriaco fuori dal locale.
– Cinquantuno dalber, signori. Non posso scendere di più – disse il padrone di casa visibilmente sudato. – State già strappando il pane dalla bocca dei miei figli.
– Taverniere, dell'altro vino – gridò Tchornyo nel locale accanto.
– Non so – fece John con aria di dubbio. – Che ne dici, Hurd?
– Mi sembra che il prezzo sia diventato ragionevole. Penso, almeno.
– Sentite, amico – disse il taverniere – mi sembra che abbiate già bevuto abbastanza. Questo bicchiere lo offro io. Poi basta. D'accordo?
– Ora, signori, se volete firmare qui... Sapete scrivere, vero? – Il padrone di casa era ansioso di concludere prima che a Hurd e a John venisse nuovamente voglia di riprendere le trattative.
– Per il Naso della Madre! – esclamò John. – Guarda, Hurd, aveva compilato il contratto prima ancora che si venisse da lui.
– Capita – rispose Hurd. – Mettiamo questa maledetta firma e andiamocene a casa. Sono stanco morto.
Firmarono il foglio, scambiarono qualche parola di cortesia col padrone di casa, e uscirono nella strada. Rimasero un attimo fermi sulla soglia dell'edificio, per abituare gli occhi alla luce e sentirono il clamore che proveniva dalla taverna accanto.
– A me non interessa di chi siate figlio. Uscite immediatamente dal mio locale, maledetto ubriaco – tuonò una voce profonda.
– Siete uno sporco profanatore della Madre – rispose una voce acuta. –
Questa sera verrò con i miei amici. Proprio così. E ve ne pentirete. Voi siete uno dei cospiratori. Ecco chi siete.
Alla porta della taverna si verificò del movimento; poi, un giovane elegantemente vestito si rialzò da terra al centro della strada, mentre un oste, in abiti più dimessi, entrava dignitosamente nel locale.
– Mi sembra una faccia conosciuta – sussurrò John.
– Sì. Dove lo abbiamo... Oh, adesso ricordo.
Tchornyo, dopo essersi rialzato, aveva preso a ripulirsi, con gesti inutili, i vestiti: si guardava rabbiosamente attorno per vedere se qualcuno era stato testimone alla sua umiliazione. John e Hurd stavano cercando di allontanarsi alla chetichella; Tchornyo, con il cervello annegato nel vino, impiegò diversi secondi per riconoscere le due persone che aveva viste la prima volta nel buio nella notte. Poi non ebbe più dubbi, e l'azione seguì all'istante.
– Voi! – esclamò.
– Oh, Madre – borbottò Hurd. – Ci siamo. – E allungarono il passo.
– Assassini – gridò allora avviandosi vacillante all'inseguimento.
– Più presto, amico John. Più presto.
– Che succede adesso? – urlò il taverniere affacciandosi alla porta.
– Sono gli uomini – rispose Tchornyo indicando i due che si dirigevano verso l'angolo dell'isolato. Girò la testa verso il taverniere e inciampò in una pietra sporgente del selciato. Cadde lungo e disteso a terra.
– Maledetti ubriachi – borbottò il taverniere ritornando alla piacevole ombra del suo locale.
John e Hurd girarono l'angolo.
– Per essere ubriaco, avanza con un passo ben spedito – ansimò John.
– Questo – rispose Hurd con un respiro altrettanto affannoso – non è il momento – ansò – di fare conversazione.
Tchornyo raggiunse l'angolo e si lanciò di corsa. Ma gli sbandamenti con cui aveva percorso la Lame Dalber Street erano troppo ampi per il vicolo laterale. La prima cosa importante che Tchornyo fece fu quella di andare a sbattere contro gli articoli in vendita, esposti da un mercante di vasellame da cucina.
– Ahi! – gridò il mercante, mentre il vasellame rovinava ih cocci.
– Ahi! – gridò la moglie del mercante, mentre il marito si lanciava all'inseguimento di Tchornyo scivolando sui cocci.
Per il giovane nobile il frastuono del vasellame che andava in pezzi non aveva avuto alcun significato. Il rumore dei cocci che rotolavano sui sassi della strada, doveva rappresentare, secondo Tchornyo, uno dei rumori normali del mercato. Nient'altro. E il mercante stesso, che lo seguiva, gridando, lungo tutto il suo percorso a zig-zag, non era una persona incollerita con lui. Era un alleato.
Tchornyo sfoderò la spada e l'agitò nell'aria per infondere coraggio al mercante.
– Madre proteggici – gridò il mercante alle persone che gli stavano vicino. – Il pazzo ha la spada! Ci ucciderà tutti!
Dalla soglia del negozio arrivò la voce della moglie.
– Fermatelo! Al ladro! Fermatelo!
Tchornyo si guardò rapidamente indietro. Bene. C'erano parecchie persone accorse in suo aiuto. Gli assassini potevano ormai considerarsi in trappola. Mentre formulava il pensiero, andò a sbattere contro un'alta piramide di meloni, che presero a rotolare da tutte le parti della strada.
– Pare che il nostro amico abbia delle piccole difficoltà – disse John ormai quasi senza fiato.
– La Madre ci ama – riuscì a dire Hurd.
Girarono un altro angolo e vennero a trovarsi nel mercato dei dalber. I dalber sono dei mostri molto strani. Durante il corso dell'evoluzione lyffana, una specie di lucertola di media grandezza non seppe decidersi se diventare pterodattilo o dinosauro. E divenne dalber, il più buffo animale da soma di tutta la galassia.
Quel giorno, al mercato erano in vendita oltre trecento dalber. Quando John e Hurd passarono loro accanto di corsa, gli animali divennero nervosi, e il loro solito colore verde chiaro si trasformò in uno strano color chartreuse. Doveva esser accaduto qualcosa di deplorevole, pensarono i dalber. La situazione, ne erano convinti, stava loro sfuggendo dagli artigli.
Era necessaria una attenta indagine, una immediata azione, e quel poco di ragionamento possibile.
I dalber si strinsero uno vicino all'altro, costringendo il guardiano del branco a bestemmiare rabbiosamente.
Quando John e Hurd si trovarono a mezzo isolato, Tchornyo Gar-Spolnyen Hiirlte girò l'angolo gridando, agitando pericolosamente la spada nell'aria, e dando ai dalber la conferma sul loro giudizio circa la situazione.
Dietro di lui, poi, rotolando come un'onda, gridando come una turba di forsennati, venne l'orda dei mercanti furiosi.
Le bestemmie del guardiano si trasformarono di colpo in una devota preghiera. Conosceva i dalber. Da parte loro i dalber dissero "Gronch!" e cambiarono colore. Dallo strano chartreuse divennero gialli di terrore. E
furono presi istantaneamente dal disperato desiderio di evitare il pericolo ignoto.
Come a un segnale, la mandria dei trecento dalber che facevano
"Gronch" si lanciarono in una fuga precipitosa. Il guardiano smise le inutili preghiere e cercò di fermarli.
– Assassini! – gridò Tchornyo.
– Gronch! Gronch! – gridarono i trecento dalber isterici, alle sue spalle.
Dietro i dalber si lanciò il guardiano, gridando parole irripetibili all'indirizzo della Madre.
Alle spalle del guardiano la folla dei mercanti gridava:
– Fermatelo! Fermate quell'uomo!
Una guardia fuori servizio, che riposava appoggiata allo stipite di una porta, osservò stupita la strana processione. Nell'attimo in cui il guardiano dei dalber gli passava davanti, sentì le grida dei mercanti. I riflessi scattarono con la velocità di un lampo. Balzò al centro della strada e afferrò il guardiano alla cintura. Caddero a terra, e i mercanti passarono sopra di loro calpestandoli, senza neppure accorgersi della loro presenza.
Tchornyo rischiò un'altra rapida occhiata alle sue spalle. Per il naso della Madre! Da che parte erano sbucati quei dannati dalber? Ac...
L'acciottolato delle strade di Lyffdarg era decisamente sconnesso.
John e Hurd girarono rapidamente a destra. I dalber, ignorando Tchornyo completamente e scavalcandolo con un salto, proseguirono diritti lungo la via che portava al Tempio.
Prima ancora che Tchornyo potesse sollevarsi, tutto ammaccato dai sassi, il mercante in vasellame da cucina gli fu addosso.
– Duecento pentole per friggere – gridò il mercante sbattendo Tchornyo come uno strofinaccio della polvere. – Quarantanove grosse pentole in terracotta per lo stufato. – Schiaffeggiò Tchornyo, e Tchornyo, poverino, cominciò a piangere.
– Quattrocento meloni – fece eco l'altro mercante, rifilando a Tchornyo furiosi calci negli stinchi.
– Trecento maledetti dalber – gridò il guardiano, avanzando ferito e insanguinato. In una mano stringeva la frusta, e nell'altra una piccola pietra.
– Calma, calma – intimò la guardia con voce secca. – Ci penso io.
Sgombrate. – Prese Tchornyo per il bavero e lo spinse verso il Tempio.
– Ma, sono un nobile – protestò Tchornyo fra i singhiozzi. – Avete lasciato scappare gli assassini.
– Maledetto ubriaco – borbottò il taverniere raggiungendo il luogo in cui si era svolta la scena finale.
– A proposito, amico John – disse Hurd mentre si avviavano stanchi verso casa – la sai la barzelletta del dalber che voleva cantare?
– No, amico Hurd. Mi sembra proprio di no.
– Be', c'era appunto un dalber che...
– Bene, fatelo entrare – ruggì Spoln Gar-Tchornyen Hiirlte.
Era furente.
– Papà – piagnucolò Tchornyo, entrando nello studio del padre – tu non hai capito. Io stavo...
– Hai detta finalmente una cosa giusta. Non capisco. E non voglio capire. Le tue prodezze di oggi mi sono costate ducentosettantacinque pentole di una terracotta carissima, cinquecento meloni che non ho mai avuto l'opportunità di mangiare, e quattrocento dalber che dovevano esser tutti dei puro sangue. I danni causati dalla carica dei dalber non sono ancora stati calcolati, ma sono certo che mi costeranno una bella somma.
– Ma papa...
– Silenzio. A ogni modo, non è questo il motivo per cui sono in collera.
Mi basterà soltanto detrarre le spese di oggi dal tuo assegno. Sono rabbioso perché io, Gran Duca di Lyff, oggi pomeriggio sono stato costretto a recarmi a piedi fino al Tempio... a piedi... e a umiliarmi di fronte a un comune capitano delle guardie, per ottenere il rilascio di mio figlio, del mio unico figlio, da una volgare cella.
– Ma, papà...
– Vuoi stare zitto? Sei una disgrazia. Hai disonorato i nomi della famiglia, tutti e tre, e hai disonorato te stesso comportandoti in un modo che rasenta i limiti dell'impossibile. Ma la cosa peggiore è che hai disonorato me. Ora ho vergogna di presentarmi a palazzo. Mi vergogno di dover ricevere i delegati della Corporazione dei Fabbricanti di Stoffe.
Capisci? Ho anche vergogna nel trovarmi di fronte a un semplice comune.
Oh... Tchornyo, se avessi un altro figlio ti ripudierei all'istante. Vattene, figlio degenere. Ritirati nella tua stanza e prega per ottenere perdono e un po' di buon senso. Ecco cosa ti manca. Non voglio più vederti per un certo tempo.
Rabbioso, ferito e umiliato, Tchornyo si staccò dalla scrivania del padre camminando all'indietro e facendo inchini. Al terzo inchinò fece cadere a terra un grosso vaso decorativo.
– Idiota!
Tchornyo si allontanò di corsa, piangendo, e raggiunse la sua camera. Vi rimase rintanato per sette lunghe ore continuando a giurare vendetta, vendetta, vendetta.