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– È una notte bastarda, a quanto pare.

Hurd Gar-Olnyn Saarlip scrutò attentamente nell'androne più oscuro della via e continuò a parlottare a bassa voce tra sé.

– Niente portafogli, niente tasche ben fornite. I nobili evitano questa strada buia. Dovrò addormentarmi con più fame di quanta mi sia mai capitato di avere al momento di coricarmi.

Hurd era poeta di professione, come lui si definiva con orgoglio. In passato era stato ospite di uno strano barone che, per sfortuna, era morto.

Oltre tutto, per dirla in termini tecnici, non gli aveva lasciato un solo quattrino. A Hurd era rimasta soltanto la possibilità di scegliere tra l'ipotecare i suoi servizi mettendosi alle dipendenze di un decrepito patrizio, magari anche appassionato di giochi gladiatori, o non compiere l'ipoteca e fuggire, diventando un fuorilegge. Per Hurd Gar-Olnyn Saarlip, poeta e figlio di poeti, era quasi come non aver scelta.

"Accidenti, che notte fredda" si disse. "E non passa nessuno che sia più fornito di me. Madre, esaudisci questa mia richiesta: voglio un mercante pieno di vino e di quattrini... o anche un barista che porta a casa l'incasso della serata. Per quanto..." fece una breve pausa "i baristi siano spesso bricconi e poco ben disposti a farsi derubare."

Rabbrividì.

Oltre a essere poeta, Hurd era anche scassinatore, tagliaborse, rapinatore, aiutante di criminali, a seconda dei bisogni e delle opportunità che si presentavano. Per quanto la carriera criminale potesse facilmente portare al rogo e alla "Furia della Madre", i poeti che abitavano sul pianeta Lyff consideravano il delitto un'usanza e una onorevole sub-vocazione. Hurd si consolava con il pensiero che se la sua esecuzione fosse avvenuta in modo abbastanza spettacolare, avrebbe infinitamente giovato alla sua fama, suscitando immediate richieste dei suoi poemi. E questo, se non altro, avrebbe enormemente arricchito l'editore e i suoi eredi.

La luce del lampione a gas all'angolo traballo sotto le raffiche del gelido vento invernale e, sulle facciate di legno delle case che formavano lo stretto vicolo, si disegnarono ombre spettrali.

Hurd continuò a tremare.

– Madre, esaudisci di questo figlio ladro ma devoto l'unico desiderio, e...

– Al rumore di passi incerti che si stavano avvicinando dietro l'angolo della casa, Hurd interruppe il suo borbottio, si rintanò nell'antro della porta buia, e rimase in silenzio. Continuava soltanto a tremare per il freddo.

Un giovane alto, vestito con abiti caldi e costosi, si fermò incerto all'angolo della via. Sembrava in cerca di una indicazione stradale o di un segno che potesse riconoscere. Non trovandone, si avviò lentamente verso il luogo in cui Hurd si era nascosto.

– La tua indegna stirpe ti ringrazia – mormorò Hurd, considerando l'eventualità che la Madre lo stesse ascoltando.

Lo sconosciuto si era evidentemente perso. Il taglio degli abiti, la qualità della stoffa e la borsa rigonfia, denunciavano la persona benestante. Era ricco, e dal momento che era anche perfettamente rasato, quando tutti i cresi di Lyffdarg portavano la barba, significava che lo sconosciuto doveva essere straniero. Forse un ricco mercante del porto occidentale di Freydarg.

Non doveva lasciarlo scappare, anche se si fosse presentata la necessita di dover agire con estrema durezza. Per fortuna, lo sconosciuto avanzava con passo pesante, lento e incerto. Poteva significare che era ubriaco, e quindi relativamente incapace di difendersi. Hurd dimenticò il freddo completamente.

Quando raggiunse l'altezza del portone in cui Hurd stava nascosto, lo sconosciuto girò la testa per osservare l'edificio che sorgeva sul lato opposto della strada. E Hurd ringraziò silenziosamente la Madre per quel nuovo favore.

Lo stretto vicolo si snodava tortuoso e, nel momento in cui lo sconosciuto raggiunse un angolo poco illuminato, Hurd sgusciò dal nascondiglio per cominciare l'inseguimento.

Nella mano di Hurd comparve un coltello. "Soltanto per intimidire lo sconosciuto" si disse il poeta, pensando alle raffinate torture riservate a chi uccideva una persona facoltosa.

Non aveva monete metalliche nella borsa; così, gli fu facile avanzare in silenzio. Era un fatto molto importante. Anche il più ubriaco degli stranieri, specialmente se giovane, avrebbe potuto diventare intrattabile, se messo in allarme.

Lo straniero girò l'angolo dell'edificio e avanzò in un vicolo completamente buio. Hurd gli diede il tempo di percorrerne un tratto, poi riprese l'inseguimento.

La sagoma del giovane si stagliava contro la luce del lampione in fondo alla via. Hurd, al contrario, era invisibile. Un'ombra nell'ombra. Era il momento. Un colpo con il taglio della mano alla nuca dello straniero, un pugno per stordirlo del tutto, e Hurd avrebbe mangiato carne e bevuto vini preziosi per un mese.

Si lanciò.

E venne a trovarsi disteso come un sacco di patate sulle pietre umide del vicolo, davanti allo straniero.

Da quella posizione vide perfettamente lo stivale dello sconosciuto calare verso la sua testa. E non era certo uno spettacolo rassicurante.

– Vi prego, eccellenza, risparmiatemi – supplicò Hurd. – Sono un pover'uomo, spinto a questi estremi dalla fame e dal pianto lamentoso dei miei bambini. Non ho mai fatto una cosa del genere in tutta la mia vita. –

Poi, rendendosi conto di trovarsi nella posizione in cui lo straniero lo aveva voluto mettere, e che non c'era possibilità alcuna di invertire le parti, interruppe il piagnisteo. – Cos'è successo? – domandò.

Lo straniero non si scompose.

– Leva e fulcro – disse con calma. – Fisica elementare, ecco tutto.

Sapreste per caso indirizzarmi verso la casa di Tarn Gar-Terrayen Jellfte, fisico del Re, eccetera?

– Dite che sono stato messo a terra dalla fisica?

– In antichità veniva chiamato "judo", se vi può consolare, ma ne dubito.

Dove vive il dottor Jellfte? – domandò con calma lo straniero, quasi senza rendersi conto di avere ancora il piede pesantemente appoggiato al collo di Hurd.

– Avete intenzione di consegnarmi alle guardie? – domandò Hurd fissando il piede che sembrava aumentare di peso a ogni secondo.

– No di certo, uomo. Voglio soltanto l'informazione che vi ho chiesta, non del sangue. Per quanto... – lo straniero rimase in silenzio.

In ogni modo a Hurd non interessava molto sapere come sarebbe finita la frase.

– A Lyffdarg, dare, delle informazioni, significa il più delle volte confondere le idee – balbettò. – A ogni modo, l'abitazione del Reverendo Lord Chirurgo Tarn Jellfte, il più degno erede del suo grande padre, Terra, e che io, devo confessarlo, conosco appena, si trova a soli sette isolati di distanza. So perfettamente dove si trova e... – Il piede aumentò la pressione sul collo e Hurd terminò la frase con voce soffocata. – ... io sarò felice di potervi accompagnare, se volete, eccellenza.

Lo sconosciuto sollevò Hurd da terra e gli girò il braccio dietro la schiena in modo complicato. Era una posizione che prometteva forti dolori alla minima pressione.

– Andate avanti – disse lo sconosciuto alla fine. – Io vi seguo. E molto da vicino, come potete notare.

Avanzarono per qualche minuto in silenzio. Nella speranza che la Madre fosse ancora in ascolto, Hurd innalzò mute invocazioni di soccorso. Però, dal momento che lei gli aveva giocato quello sporco e basso tiro, aveva poche speranze di essere esaudito.

Lo sconosciuto interruppe le suppliche di Hurd.

– Vecchio mio, voi abitanti di Lyffdarg parlate sempre in metrica.

Possono essere versi sciolti, o devono essere in rima?

– Cosa?

– Ho detto...

– No, mio Lord, vi ho capito perfettamente. Sareste per caso anche voi un poeta? – Forse la Madre, dopo tutto, era ancora al suo fianco. La Corporazione dei Trovatori non ammetteva tradimenti.

– Oh! – Lo straniero parve leggermente sollevato. – Quindi la metrica non è necessaria. Bene. Mi stavo già preoccupando. I nastri educativi non parlavano di poesia, e non credo che qualcuno dell'equipaggio si sia preoccupato d'impararla. È già difficile parlare la lingua di Lyffan in prosa.

Nastri educativi? Quell'uomo era evidentemente uno straniero, ma in quale nascosto Giardino della Madre aveva mai potuto imparare quelle parole?

– Non potete capire. Ditemi piuttosto, avete un nome?

Nome? Hurd si domandò se era il caso di dire allo straniero, a una persona che non era neppure poeta, come realmente si chiamava. Ma con il braccio in quella pericolosa posizione, era il caso di raccontare una menzogna?

Raggiunsero un incrocio. E dal buio vicolo laterale videro comparire un giovane nobile estremamente ubriaco. Portava una barba lunga fino all'altezza del gomito, e questo, secondo la moda del periodo, indicava trattarsi di un duca.

– Fatemi largo, immondi bastardi – abbaiò il nobile.

– Che significa? – domandò lo straniero. Hurd cercò di allungare il passo per allontanarsi, ma lo straniero si volle fermare. E Hurd non poté far altro che restargli accanto.

– Aha! Ci vogliono sfidare! – esclamò il giovane nobile ubriaco, con ferocia. – Garlyn, Tchornyo, venite a vedere la gara che la Madre ci ha procurato.

Altri due nobili entrarono nel raggio di luce del lampione. Tutti e tre portavano la barba fino all'altezza del gomito, tutti e tre vestivano abiti sfarzosi e sgargianti, tutti e tre erano giovani e ubriachi; e tutti e tre sfoderarono contemporaneamente le loro spade. Hurd raccomandò l'anima alla Madre.

– Cosa volete? – domandò lo straniero.

– Fare dello sport, mio misero contadino – disse uno dei nuovi arrivati con spavalderia.

– Vogliamo vedere il tuo sangue giallo – soggiunse l'altro.

Il giovane nobile comparso per primo tossicchiò per schiarirsi la voce. –

Tua madre deve essersi venduta agli stranieri – proclamò quasi gridando.

Sarebbe stato un insulto in qualsiasi civiltà. Ma in un mondo che professava il culto della divinità della madre, risultava un chiaro invito a uccidere o a essere ucciso.

Lo straniero lasciò andare il polso di Hurd.

– Se cerchi di fuggire sei un uomo morto – gli bisbigliò all'orecchio. Poi si rivolse ai nobili. – Gli stranieri però si sono sempre rifiutati di comprare le vostre. – Seguì un attimo di silenzio. – Siete nati dalle vostre madri per un puro caso. – Sembrava pronto a improvvisare sul tema per tutta la notte, ma prima di poter aggiungere una sola altra variazione, i nobili gli furono addosso.

Hurd cercò rifugio nell'androne di una porta vicina; era la notte degli androni, quella; rimase a osservare la lotta con riverente paura.

In quella debole luce era difficile poter stabilire con esattezza il grado di nobiltà del giovane che vibrò il colpo di spada all'avversario. Comunque lo straniero saltò agilmente a lato per schivare il fendente e afferrò il giovane per la barba. Era falsa. Si staccò e gli rimase nella mano. Lo straniero scoppiò allora in una risata insultante, poi fece uno sgambetto allo sbarbato e scagliò la barba in faccia a uno degli altri due.

Il giovane rotolò sul selciato finendo poco lontano dall'androne in cui Hurd si era nascosto. Improvvisamente, il poeta si sentì infiammare da un insospettato risentimento di classe.

– Mia cara Madre, perdonami questa gioia blasfema – gridò, e si diede a sferrar calci in testa al nobile. Sulle pietre si formò un rivolo di sangue.

Intanto lo straniero si era venuto a trovare in mezzo agli altri due nobili e le due spade gli roteavano attorno come fastidiosi insetti. Ma lo straniero si trovava sempre miracolosamente nel punto in cui le due spade non potevano colpirlo. Tuttavia, non poteva attaccare nessuno dei due, senza esporsi ai colpi dell'altro.

Nonostante il freddo, sulla fronte dello straniero si erano formate grosse gocce di sudore.

– Sei finito – gridò uno dei due nobili. – La mia lama è stata immersa nel "Sangue di Madre". – Il Sangue di Madre era un potente veleno composto di cianuro e di un alcaloide molto simile al curaro. L'altro nobile rimase in silenzio, e lo straniero si diresse verso di lui.

Intanto Hurd si era accorto che il nobile che lui aveva preso a calci era morto.

– Madre proteggimi – gridò. – Nessuno può morire la lunga Morte più di una volta. – Raccolse la spada del morto e la scagliò come un giavellotto contro il nobile dalla spada avvelenata. Il nobile cadde a terra col collo trapassato da parte a parte. Negli occhi gli rimase una espressione di sorpresa indignata.

– Bel colpo, vecchio mio – disse lo straniero con calma.

Il nobile superstite compì un disperato "a fondo", poi abbandonò la spada infilata nella spalla dello straniero e si diede alla fuga, gridando istericamente.

L'urlo si perse nella lontananza. Hurd e lo straniero rimasero soli, uno di fronte all'altro, accanto ai due cadaveri insanguinati. Ora, dal momento che poteva nuovamente considerare con calma la situazione, il poeta si sentì invadere dal terrore.

– Siamo morti – disse con voce piatta, lontana. – Ci prenderanno di certo, anche se prima sarà necessario mettere in carcere mezza città. Poi, impiegheranno un mese intero per ucciderci, come prescrive la Legge della Madre. Abbiamo anche lasciato scappare un testimone pericoloso.

Ma lo straniero sembrava soltanto preoccupato della spada che aveva conficcata nella spalla. La sfilò lentamente e il sangue scaturì a fiotti.

– Andiamo – disse con una leggera smorfia di dolore. – Portami alla casa del dottor Jellfte. Subito.

Si avviarono. Prima però, nonostante il suo terrore, Hurd si ricordò di sfilare le borse dei soldi ai due cadaveri.

– Almeno potrò mangiare fino al giorno dell'arresto.

Tarn Gar-Terrayen Jellfte, duca di Lyff, fisico del Re, Consigliere Delegato della Corporazione dei Guaritori, venne strappato ai suoi sogni dorati dal clamore che veniva fatto di fronte alla sua porta, in un'ora impossibile della notte. Come la maggior parte dei nobili di mezza età, era incline a essere pomposo, giusto, conservatore e leggermente timido.

Tuttavia, quando socchiuse il battente, come si vide di fronte un giovane elegante, ferito alla spalla, accompagnato da un pezzente, certamente un criminale, il suo primo impulso fu quello di gridare per chiedere aiuto.

Quando poi il giovane ferito cominciò a parlare terrano con grande rapidità, tanto da non permettergli di capire una sola parola, il dottore, che da dodici anni non aveva più avuto occasione di parlare o usare quella lingua, pensò gli stessero annunciando la fine della sua missione. E il suo secondo impulso, vinto nobilmente, fu quello di svenire.

Alla fine riuscì a balbettare qualche parola in terrano.

– Parlate più lento, prego. Sono fuori esercizio, e non vi capisco.

Il terrano e il criminale avanzarono nell'atrio e richiusero la porta alle loro spalle.

– Preferite che parli la lingua di Lyff? – domandò il giovane.

– Be'... io volevo... – Il dottor Jellfte cercò disperatamente le parole, e alla fine prese a parlare in lyffano. – Be', dopo tutto è parecchio che non parlo quella lingua.

– Bene. Vi prego di alzare la mano destra.

Confuso per tutto quanto stava accadendo, e per il fatto di avere un criminale in casa – l'altro infatti doveva essere certamente un criminale – il dottor Jellfte alzò la mano.

Il giovane parlò in lyffano con la stessa rapidità con cui poco prima aveva parlato la lingua terrana.

– Giurate su qualsiasi deità o etica personale della vostra vita, di sostenere e difendere con tutte le vostre forze la Costituzione della Federazione Terrana dei Pianeti, e di ottemperare per tutta la durata di questo mandato sia alle leggi delle Federazioni, sia al Regolamento della Federazione dei Servizi Navali. Per la deità o etica personale che vi guida, ripetete: "Lo giuro".

– Lo giuro – ripeté automaticamente, e senza capire, il dottor Jellfte.

– Bene – disse il giovane con voce secca. – Ora, dal servizio inattivo, vi trovate in quello di riserva attiva, e siete promosso al grado di Sotto Comandante, con l'incarico di assumere il comando di tutti i mezzi navali del pianeta Lyff. Avete inoltre l'obbligo di cooperare con ogni mezzo, e per tutta la durata dell'attuale stato di emergenza, con la Squadra Speciale L-2. È tutto. – Tolse il tampone insanguinato dalla spalla e lo porse allo sbalordito dottore. – Mi chiamo John Harlen. Ora, fate qualcosa alla mia ferita.

E cadde a terra.