35.

Il Morosini era appena rientrato a casa, quando gli fu annunciata la visita di donna Clarice. Era stanco, e avrebbe preferito riposarsi, ma non volle farle lo sgarbo di non riceverla. Clarice entrò nella camera, splendida di gioielli e di giovinezza, i capelli biondi intrecciati a un filo di perle, e con lei entrò un alito di profumo che il sensibile naso del patrizio aspirò con involontario compiacimento.

«Sono venuta a parlare a viso aperto all’amico di mio marito» dichiarò donna Clarice, quando ebbero esaurito i preamboli.

Messer Zuanne fece un gesto cortese, e rimase in attesa.

«So che con la galera che riportava Lippomano è tornato a Venezia quell’uomo per cui mio marito, a suo tempo, vi ha chiesto la grazia. E so che quell’uomo aveva una storia straordinaria da raccontare.»

Il Morosini si accigliò.

«E come fate a saperlo?» chiese, un po’ troppo bruscamente.

«Signore!» si stupì donna Clarice. «Il capitano Casalini mi ha portato un fascio di lettere di mio marito. Quando si è accorto che quell’uomo che si era presentato da lui è lo stesso per cui ci eravamo dati da fare, ser Lorenzo ovviamente mi ha scritto, per avvertirmi che lo rimandava a Venezia.»

«Troppo giusto» convenne il Morosini.

«Tanto più» continuò donna Clarice, guardandolo negli occhi «che quell’uomo correva un rischio venendo qui a rivelare quel che sapeva, e mio marito, anche se gli aveva rilasciato un salvacondotto, preferiva che io fossi informata.»

Il Morosini stavolta non disse nulla.

«E a quanto pare aveva ragione, perché il giovanotto, appena arrivato a Venezia, è stato arrestato, nonostante il salvacondotto firmato da mio marito.»

Il Morosini si agitò.

«Signora, non è stato arrestato per la sua condanna: per quella era stato graziato, e il salvacondotto di ser Lorenzo serviva appunto a garantirgli che il bando era cassato. È

stato trattenuto per consentirci di verificare la sua storia.»

Clarice non lo lasciò finire.

«A me pare» esclamò, scuotendo i riccioli biondi, «che se il bando era stato annullato, non c’era nessun bisogno di un salvacondotto, e che se mio marito gliel’ha rilasciato, era precisamente per evitare quello che è successo, e per consentirgli di venire a casa mia a ringraziarmi di quello che ho fatto per lui, e a rivedere sua moglie che non vede da due anni.»

Che modo di ragionare da donne, pensò il Morosini, irritato. Ma non aveva certo voglia di litigare con Clarice, che sedeva lì accanto a lui, bellissima, con la curva appena accennata dei seni che emergeva dalla scollatura.

«Non è così, signora» si limitò a dire, cortesemente.

«Ah no? Ebbene» replicò donna Clarice, sostenuta, «vedo in che conto i nostri Signori tengono la firma di mio marito, bailo in Costantinopoli, e non dubiti che glielo riferirò.»

Messer Zuanne si allarmò. L’alleanza con i Bernardo, nata nell’istante in cui ser Lorenzo era venuto a chiedergli la famosa grazia, e consolidata dalla sua nomina a Costantinopoli, era un pezzo importante nella strategia con cui stava pazientemente costruendo il suo partito, in vista della prossima elezione al dogato.

«Signora» cercò di spiegare, «non si poteva fare diversamente, è la procedura che si segue sempre in questi casi. È

troppo importante tenere in custodia le parti in causa quando si sta conducendo un’inchiesta così delicata.»

Donna Clarice lo guardò con malizia.

«Il magnifico Loredan, però, non è stato messo in custodia.»

Sa anche che si tratta di lui, pensò messer Zuanne.

Quello sciagurato d’un marito le ha proprio raccontato tutto!

Prima che il Morosini si riprendesse, donna Clarice si sporse in avanti, e gli mise familiarmente una mano sul ginocchio.

«Messer Zuanne» disse, guardandolo con gli occhi che brillavano, «adesso però l’inchiesta è conclusa. Il capitano Casalini è tornato. Cosa aspettate a liberare il mio uomo?»

«Come correte, signora» borbottò il Morosini, distogliendo lo sguardo. «Bisogna vedere che cosa ha trovato, il capitano Casalini.»

«Perché? Che cosa ha trovato?» lo incalzò donna Clarice; poi si mise a ridere. «Che faccia avete fatto, messer Zuanne! Non abbiate paura, non voglio estorcervi un segreto di Stato, e poi magari denunciarvi ai Signori Inquisitori! I soldati e i marinai che erano col capitano hanno visto tutto, e non è difficile farli parlare. Lo so che l’oro non è stato ritrovato, ma i cadaveri sì, e sono la prova che il mio uomo ha detto la verità!» concluse trionfante.

Il Morosini scosse la testa.

«Andiamo piano a parlare di prove. Ci può essere una spiegazione ben diversa.»

Donna Clarice lo fissò, facendosi seria.

«Messer Zuanne, giochiamo a carte scoperte, volete? Io ho parlato di questa faccenda con mio suocero, ne abbiamo discusso molto a lungo.»

Era una bugia: messer Alvise non si sarebbe mai sognato di discutere con sua nuora di affari di Stato. Ma Clarice la spiattellò con aria così convincente che a messer Zuanne, nonostante tutta la sua lunga esperienza, non venne affatto in mente che la donna stava menandolo per il naso.

«Il signor suocero dice che non ci sarebbe da stupirsi se i Dieci, visto che non c’è una prova sicura, decidessero di mettere tutto a tacere. Dice che i Loredan hanno molti amici, anche fra i Dieci. Ora, messer Zuanne, a me non importa niente del magnifico Loredan, ma non voglio che il mio uomo ci vada di mezzo. Perché ci andrà di mezzo di sicuro, se voialtri deciderete di non credere alla sua storia.»

Il Morosini strinse le labbra, e continuò a tacere.

«Vedo bene che è così» sospirò donna Clarice. «Non gli volete credere. Ma quei due morti come li spiegherete?»

«Può averli uccisi lui stesso» si lasciò scappare il Morosini. Donna Clarice divenne rossa di rabbia.

«Ah sì? Mi meraviglio di voi, messer Zuanne, credevo che non fosse così facile menarvi per il naso.»

«Signora!» esclamò il nobiluomo, stringendo i braccioli della seggiola.

«Sì, menarvi per il naso! Chi vi ha fatto credere questa fandonia? Dite un po’, se davvero quel ragazzo avesse ammazzato due persone su quell’isola, e tutto il resto della storia se la fosse inventata lui, perché mai avrebbe dovuto venire a raccontare tutto, e portare gli sbirri proprio lì, dove sapeva benissimo che l’oro non c’era? Ditemelo, se ne siete capace!»

Il Morosini fece per rispondere, ma rimase senza parole. Già, perché? Quell’obiezione finora non gli era venuta in mente, e non sapeva come ribattere. Clarice vide che era rimasto interdetto, e lo incalzò.

«Vedete anche voi che non è possibile! No, messer Zuanne, c’è un’unica spiegazione, ed è che quel ragazzo dice la verità, e che il signor sopracomito Loredan si è lasciato rubare il denaro che la Repubblica gli aveva affidato, e per non doverlo restituire a sue spese ha abbordato la feluca, col rischio di provocare un incidente col Gran Turco, e ora i Dieci sono pronti a mettere a tacere tutto e mandare a morte un innocente!»

«Basta così, signora» ribatté il Morosini, guardandosi intorno allarmato. «Questi sono segreti di Stato, e non devono uscire dall’aula dei Dieci.»

Clarice gli rise in faccia.

«Messer Zuanne! Ma quale segreto di Stato! Lo so io, lo sa mio marito a cui ho già scritto tutto, lo sa il signor suocero, lo sa tutta casa Bernardo, e io vi dico che domani lo saprà tutta Venezia!»

Messer Zuanne rabbrividì.

«Signora, non penserete…» balbettò, livido. Ma Clarice, d’un tratto, s’illuminò d’un caldo sorriso, e gli si accostò ancora di più, prendendogli una mano pelosa fra le sue manine.

«Messer Zuanne» disse piano, «non sono venuta per litigare. Tutta casa Bernardo è felice dell’amicizia tra voi e mio marito, ed è pronta a mantenerla. E anche i miei fratelli, lo sapete, a Venezia contano qualcosa, e anche loro sono buoni amici di casa Morosini, e lo saranno ancora di più, se voi vorrete.»

Messer Zuanne si alzò bruscamente, e andò alla finestra.

Mentre guardava luccicare l’acqua del Canal Grande, sentì che Clarice scostava la sedia. Benché le voltasse le spalle, il suo profumo gli disse che la donna era dietro di lui.

«Non è così facile quello che mi chiedete» fece con voce sorda.

Clarice, non vista, si concesse un sorriso di trionfo.

«Lo so» gli mormorò all’orecchio. «Ma voi ci riuscirete.»

Il Morosini taceva, ostinato.

«Lo prendo come un impegno, messer Zuanne» lo incalzò Clarice. «Vedete, giù, la mia gondola?»

All’imbarcadero di palazzo Morosini, una gondola adorna dello stemma rosso e argento dei Bernardo dondolava sull’acqua.

«Ho preso la gondola del signor suocero» disse innocentemente Clarice. «Hanno visto tutti che sono stata qui. E

ora, col vostro permesso, andrò a Ca’ Pesaro a raccontare ai miei fratelli che alla riunione dei Dieci di domani messer Zuanne Morosini non permetterà che si condanni un innocente per salvare la testa del signor Loredan.»

Messer Zuanne, colla testa che ronzava, cercava di riflettere. Una cosa gli era maledettamente chiara: doveva scegliere. Prima dell’arrivo di donna Clarice, su un piatto della bilancia c’era un grosso favore fatto a ser Lunardo Michiel e al doge, e sull’altro non c’era niente. Ora, però, sull’altro piatto c’erano i Bernardo e i Pesaro, e la bilancia era quasi in equilibrio. Ma soprattutto c’era la paura di donna Clarice. Quella donna era davvero capace di raccontare in giro che i Dieci avevano insabbiato un gravissimo scandalo per evitare la condanna al nipote di uno di loro. Questo, messer Zuanne lo capiva fin troppo bene, era il punto cruciale. Il potere dei Dieci era in discussione da un pezzo, e appena due anni prima era stato pesantemente ridimensionato, sottraendo al Consiglio tutto un ambito di decisioni politiche che da tempo s’era abituato a prendere al posto del Senato. Fra i patrizi, il Morosini lo sapeva, moltissimi avrebbero visto di buon occhio un ulteriore ridimensionamento, magari giustificato dall’accusa di parzialità e corruzione privata per i suoi componenti. Messer Zuanne rabbrividì di nuovo. Uno dei piatti della bilancia toccò rumorosamente terra, mentre l’altro svaniva nell’aria.

Non c’è niente da fare, decise. Bisogna tornare subito a Palazzo e spiegare al Cicogna che stavamo sbagliando tutto, e se domani ser Lunardo cercherà di difendere suo nipote, tanto peggio per lui.

«Avete vinto, signora» dichiarò, voltandosi. «Messer Alvise può essere fiero della sua allieva.»

La porta si aprì stridendo sui cardini, e Michele, che stava seduto sulla paglia, balzò in piedi. Nell’apertura illuminata si delineò la figura del capitano Casalini, e dietro di lui quella del carceriere.

«Vieni fuori» disse il capitano, burbero.

Michele si avvicinò.

«Ti fanno uscire» gli annunciò il Casalini, quando l’ebbe davanti.

«Cioè, come?» balbettò Michele.

«Ti mettono fuori! Hanno creduto alla tua storia, anche se l’oro non è saltato fuori. Su, prendi la tua roba.»

«Non ho niente» replicò Michele, accennando alla cella deserta. Il capitano alzò le spalle.

«Ti è andata bene, va’» aggiunse, mentre lo accompagnava per il corridoio sotterraneo che conduceva all’uscita. «C’è stato un momento che non avrei dato un soldo per la tua pelle.»

Arrivò alla porta, e il carceriere l’aprì con un grosso mazzo di chiavi. Fuori c’era il sole, e Michele socchiuse gli occhi, non più abituato alla luce accecante.

«Ma posso andare dove voglio?» chiese.

Il capitano uscì accanto a lui.

«Tu, a quanto pare, hai delle protezioni» disse, enigmatico.

«Io?» Michele spalancò gli occhi. «Avevo un salvacondotto del signor Lorenzo Bernardo» ricordò poi. Il capitano fece una faccia significativa.

«Ecco, appunto. Mi hanno dato ordine di accompagnarti a palazzo Bernardo, e consegnarti alla moglie del signor Lorenzo. Altro non so e non voglio sapere» concluse.

«Ma… e qui?» chiese Michele, incapace di trovare le parole. Il capitano, abituato al suo mestiere, capì al volo.

«Non preoccuparti, ti convocheranno ancora, metteranno tutto a verbale, e magari ti daranno anche una gratifica.

Tu cosa facevi di mestiere?»

«Il muratore.»

«Maestro o garzone?»

«Mio padre era maestro» rispose Michele, orgoglioso.

«Ecco» constatò il Casalini. «Secondo me ordineranno alla corporazione di accettarti come maestro. Su, adesso muoviamoci, che non è mica vicino, palazzo Bernardo.»

Nello stesso momento in cui Michele usciva dalla porticina delle carceri, ser Lunardo Michiel, livido, lasciava il Palazzo da un altro ingresso secondario. La riunione dei Dieci era andata in modo così diverso dalle aspettative, che non riusciva ancora a capacitarsene. Quando il doge aveva presentato il caso in termini addirittura opposti a quelli concordati fra loro due appena il giorno prima, ser Lunardo aveva cominciato ad agitarsi e a cercare il suo sguardo, ma il Cicogna, perduto nella sua barba, era sempre riuscito a evitarlo. Gli era toccato alzarsi e intervenire, per ricordare a tutti che si stava misurando la parola d’un pezzente contro quella d’un Loredan, ma ormai il danno era fatto. A parecchi non era parso vero di potergli fare quell’affronto, e la votazione era andata come peggio non avrebbe potuto. Mentre saliva sulla sua gondola e ordinava seccamente di portarlo a casa, ser Lunardo era così sconvolto che non s’accorse della barca che approdava a pochi passi di lì, e dei quattro orientali che ne discesero, accompagnati da un segretario cerimonioso. Mentre la gondola del Michiel s’inoltrava nel Canal Grande, i quattro si guardarono intorno con curiosità, poi si diressero con passo lento e solenne verso l’ingresso principale del Palazzo.

«Questo è veramente incredibile» borbottò il doge, rimettendo sul tavolo le carte che aveva esaminato fino a quell’istante. I Signori Capi dei Dieci, che si trovavano con lui nel suo studio privato, assentirono, con facce preoccupate. Il Cicogna si voltò verso messer Zuanne.

«Si direbbe tutto congegnato dalla Provvidenza» disse, tentando un sorriso.

Sì, pensò il Morosini, adesso ti fa comodo metterla così.

So io quanta fatica ho fatto a convincerti, stanotte. Ad ogni modo, che sia stata la Provvidenza o Sua Maestà il Caso, è davvero strano che questa delegazione sia arrivata proprio adesso.

«Al punto in cui sono le cose» riprese il doge, «mi pare che non ci sia scelta. Quei due sciagurati hanno messo a rischio la Repubblica, e non possiamo non dare un esempio.»

Tutti assentirono gravemente.

«La pace è troppo importante perché sia possibile perdonare a chi la mette a repentaglio, anche se dover prendere certi provvedimenti è sempre doloroso» insistè il doge.

I presenti assentirono di nuovo, guardandosi di sottecchi l’un l’altro.

«Siamo tutti d’accordo? Allora andiamo» sospirò il Cicogna, alzandosi.

Poco più tardi, il sopracomito Loredan entrava nella sala del Consiglio dei Dieci. Un capitano degli sbirri lo seguiva da vicino. Quella convocazione improvvisa lo preoccupava un po’; la sera prima, suo zio gli aveva assicurato che la faccenda si sarebbe chiusa bene, tanto più adesso che il galeotto era tornato dall’isola senza aver trovato gli zecchini, e lui certo non si aspettava di essere mandato a prendere al suo palazzo così all’improvviso. Entrando nella sala, trasalì: in piedi in un angolo, ammanettato, c’era il suo comito. Aveva l’aria disfatta e si reggeva appena in piedi. Il sopracomito si guardò intorno alla ricerca del Michiel, ma ser Lunardo non c’era. Un cattivo presentimento gli fece correre un brivido lungo la schiena.

«Venga avanti messer Andrea Loredan» disse ad alta voce qualcuno. Il sopracomito andò a piantarsi davanti al tavolo. Il doge lo guardava accarezzandosi la barba.

«Andrea Loredan» disse il Morosini, «voi avete mentito a questo eccellentissimo Consiglio. Vi siete lasciato rubare il denaro che la Repubblica vi aveva affidato, e poi avete negato.»

«Ma non è vero!» urlò il Loredan.

«È inutile negare ancora, il vostro comito ha confessato tutto» lo interruppe il Morosini, accennando verso l’uomo in piedi nell’angolo. Il sopracomito, sconvolto, si girò a guardarlo, ma l’altro sfuggì il suo sguardo.

«Mente!» gridò il Loredan. «Io il denaro l’ho consegnato!»

Ser Zuanne lo fissò freddamente.

«È vero. E per consegnarlo avete abbordato una feluca, avete derubato i mercanti che trasportava, e per nascondere il vostro delitto avete fatto gettare a mare l’equipaggio.»

«Non è vero!» ripetè il Loredan, disperato.

Ser Zuanne scambiò un’occhiata col doge, poi fece un cenno alle guardie. Una porta segreta si aprì ed entrò il gruppetto di orientali che poche ore prima era sceso dalla barca. Alla testa c’era un turco vestito di broccato, con un paio di poderosi baffi, una mazza in pugno e un enorme turbante bianco; avanzava a testa alta, con espressione impassibile e senza guardare nessuno. Seguivano due attendenti, anch’essi in abiti sontuosi, ma col turbante più piccolo, e senza mazza. Per ultimo entrò un levantino vestito modestamente, e con un piccolo turbante giallo. Costui si guardò intorno ansiosamente, e vedendo il Loredan sussultò; poi vide il comito nell’angolo, e disse in fretta qualcosa all’orecchio del primo. Un dragomanno si accostò ai due, scambiò qualche parola con entrambi, e poi tradusse a beneficio dei Dieci.

«Sono loro. Li riconosce.»

Ser Zuanne guardò il Loredan.

«Voi avete creduto che tutti i testimoni fossero affogati, ma non è così. Uno dei mercanti che avete derubato è riuscito a sciogliersi dai legacci, si è aggrappato al relitto della feluca, ed è rimasto in acqua fino al giorno dopo, quando un brigantino è passato e l’ha raccolto. C’è voluto molto tempo prima che la sua storia arrivasse fino a Costantinopoli, e il Gran Signore ordinasse di aprire un’inchiesta. Ora, però, è venuto tutto alla luce, e il magnifico Mustafà ciaus è qui per chiedere riparazione. Per una stranissima combinazione, o forse» s’interruppe per guardare in alto «per volontà della Divina Provvidenza, è arrivato proprio questa mattina, in tempo per consentirci di fare giustizia.»

Il Loredan, stravolto, sudava.

«La Repubblica non può tollerare che la sua amicizia col Gran Signore sia messa a rischio da comportamenti criminali e irresponsabili» continuò il Morosini, inesorabile.

«Dite al magnifico Mustafà» aggiunse, rivolto al dragomanno, «che questi miserabili gli saranno consegnati, e potrà portarli a Costantinopoli, perché ricevano la punizione che hanno meritato.»

Il ciaus s’inchinò leggermente, poi cominciò con alterigia un lungo discorso a voce alta in turco, che il dragomanno ascoltava attento, in attesa di tradurre. Il Loredan aveva le gambe che tremavano, e il capitano che gli stava accanto dovette sorreggerlo. Nel farlo, si chinò verso di lui. Non era un uomo buono, e in queste occasioni si divertiva.

«Il palo» gli sussurrò malignamente all’orecchio.

«Non è vero, non ci posso credere!» esclamò Bianca, gioiosa.

«Sì invece. Sarà qui fra poco, ti resta appena il tempo di vestirti» disse donna Clarice.

Bianca, stupita, si guardò il grembiule.

«Non vorrai accogliere tuo marito dopo due anni vestita così!»

«Metto l’abito della festa?» chiese timidamente Bianca.

«Ma devo dirtelo io? Su, corri!» esclamò Clarice, ridendo.

Quando Bianca le tornò davanti, la esaminò da capo a piedi.

«Va bene» decretò poi. «Ma perché non hai messo la catenina?»

Bianca esitò, imbarazzata.

«Me l’ha regalata Giacomo» borbottò poi. Clarice si mise a ridere.

«E quegli orecchini, non te li ha regalati lui?»

Bianca, orgogliosa, fece segno di no.

«Quelli là li ho venduti! E ho riscattato quelli del matrimonio, sono quelli che mi ha regalato mio marito»

disse, sfiorando con le dita i cerchietti d’oro che le pendevano dai lobi.

«Hai fatto bene» riconobbe Clarice. «Ma la catenina, ascoltami Bianca, se non la metti oggi non la metterai mai più.

O hai venduto anche quella?»

Bianca arrossì.

«Veramente no» ammise. «È così bella!»

Clarice sorrise.

«E allora mettila. Dirai a tuo marito che te l’ha regalata la tua padrona.»

«Un regalo così!» obiettò Bianca. «Non ci crederà.»

Clarice si fece seria.

«Un regalo così te lo meritavi davvero, per come mi hai aiutata a partorire. E anzi, ora te lo voglio fare.»

Bianca scosse la testa, seria anche lei, ora.

«Me l’ha già fatto un regalo, signora. Mi riporta Michele.»

«Ah sì? Be’, non basta» ribatté Clarice. «Va’ a prendere la catenina.»

Bianca partì di corsa, senza aver capito che cosa voleva fare la padrona. Quando tornò con la catenina in pugno, Clarice aveva aperto un cofanetto e stava frugando fra i gioielli.

«Ecco qua» decise, tirando fuori un’altra catena e guardandola contro la luce della finestra. Non era, naturalmente, quella pesante e carica di gemme che ser Lorenzo le aveva regalato dopo il parto; ma era comunque più grossa e costosa di quella di Bianca.

«Ora, Bianca, bisogna fare un piccolo sacrificio, per non avere mai più rimorsi. La tua catenina è proprio bella, ma me la prendo io. E tu prendi questa, e potrai raccontare a tuo marito da dove arriva, senza paura di imbrogliarti.»

Bianca, cogli occhi che brillavano, si passò il gioiello al collo.

«Guardati un po’!» ordinò la padrona, indicandole lo specchio. Bianca obbedì, poi s’inginocchiò ai suoi piedi, raggiante, e le baciò le mani.

«Ora va’, va’ giù ad aspettarlo in giardino, che so che sta per arrivare» disse Clarice. Bianca raccolse la falda della gonna per non inciampare e corse via. Clarice rimase per un po’ trasognata, poi uscì dalla stanza, attraversò diverse sale, e si fermò a una finestra che dava sul giardino. Vide Bianca uscire in fretta, e fermarsi di colpo, perché lì non c’era ancora nessuno. Ma un istante dopo il portinaio uscì a sua volta di casa, traversò il giardino strascicando i piedi, e disparve nell’orto. Clarice vide Bianca che si tormentava le dita, poi sorrise vedendo che si accostava alla fontana, si sciacquava la bocca e sputava. Ci volle un po’ perché il portinaio ricomparisse in fondo al giardino; dietro di lui c’era Michele, che si guardava intorno meravigliato.

Bianca mosse qualche passo verso di lui, prima incerta, poi di corsa, quando vide che lui l’aveva riconosciuta e spalancava le braccia.

 

*****

 

Glossario

agà: in turco, capo, comandante.

bailo: ambasciatore della Repubblica di Venezia presso la corte di Costantinopoli.

bey: in turco, padrone, signore.

beylerbeyi: governatore di una provincia dell’Impero Ottomano.

buonavoglia: rematore che, pur non avendo subito condanne, di propria volontà si arruola su una galera.

cadì: giudice in materia religiosa e penale dell’Impero Ottomano.

calafato: nelle costruzioni navali, operaio specializzato nel calafatare le imbarcazioni. Il calafataggio consiste nel rendere impermeabile all’acqua il fasciame esterno delle imbarcazioni, con stoppa catramata tra le commessure delle tavole e poi con uno strato di catrame e pece.

comito: primo sottufficiale di una galera, cui spetta la direzione della manovra delle vele e di tutti i servizi marinareschi.

derviscio (dal persiano darvish, “povero”): adepto di una confraternita di sufi che persegue l’unione con Dio attraverso la contemplazione e l’estasi mistica.

dragomanno: interprete fra gli europei e i popoli del Vicino Oriente, con funzioni ufficiali diverse a seconda del grado.

feluca: piccola nave di basso bordo, a vela o a remi, di forma stretta e allungata, munita di due alberi, ciascuno con vela latina (vela triangolare di origine araba).

felze: nelle gondole veneziane, casotto riccamente decorato, posto al centro dell’imbarcazione per riparo dei passeggeri.

fusta: piccolo bastimento militare, di stazza inferiore alla galeotta, dotato di un solo albero a vela latina, con remaggio da quattordici a ventidue remi per lato. Spesso usata nella guerra di corsa.

galeotta: bastimento militare, agile e veloce, più piccolo della galera, dotato di un albero a vela latina, di un solo cannone e di remaggio fino a ventitré remi per parte.

galera: vascello a remi e a vela, sia per la guerra, sia per trasporto mercantile. La galera sottile, usata per la guerra, ha uno scafo largo cinque metri e lungo circa quaranta, tre alberi, e da ventiquattro a ventisei banchi di rematori per parte. Può portare diversi pezzi d’artiglieria e circa trecento uomini fra rematori, marinai e soldati. È chiamato galeotto chi è condannato alla pena del remo sulla galera.

guerra di corsa: attività bellica svolta da privati, i quali ottengono dallo Stato l’autorizzazione mediante una lettera di corsa (o patente) ad armare navi private (corsare) per correre i mari e catturare navi mercantili appartenenti a Stati ostili.

haji: titolo che spetta a chi ha compiuto il pellegrinaggio rituale alla Mecca.

hajj: pellegrinaggio rituale alla Mecca.

interzare: mettere un terzo rematore su uno stesso banco, per raggiungere la velocità normale di una galera.

kapudan pascià: capo delle forze navali dell’Impero Ottomano, grande ammiraglio.

marchetto (dal nome di san Marco, patrono di Venezia): nome dato popolarmente al soldo, cioè alla ventesima parte della lira veneziana, su cui era impressa l’effigie di san Marco.

pianiero (o vogavanti): nel banco di una galera è il vogatore più vicino alla corsia interna, che impugna l’estremità del remo.

Il postizzo, invece, occupa la posizione centrale, e il terzicchio quella più esterna verso il mare.

Porta (o Sublime Porta): governo dell’Impero Ottomano.

postizzo: vedi pianiero.

rais: capitano di bastimento dell’Impero Ottomano sangiaccato: suddivisione amministrativa dell’Impero Ottomano.

scapolo: volontario imbarcato su una galera come marinaio e, all’occorrenza, soldato.

schiavone: slavo della costa adriatica e delle regioni circostanti. A Venezia, la Riva degli Schiavoni prende il nome dai marinai slavi dell’Adriatico orientale che vi ormeggiavano le barche e vi svolgevano le proprie attività commerciali.

sciavoga: manovra eseguita per far virare un’imbarcazione a remi, consistente nello “sciare” (scorrere) da un lato e nel vogare dall’altro.

sopracomito: comandante di una galera. Nella Repubblica di Venezia l’incarico è attribuito solo ai nobili.

spahv. nell’Impero Ottomano, soldato appartenente a un corpo permanente di cavalleria, ricompensato con l’attribuzione di un feudo (timar).

terzicchio: vedi pianiero.

yalr. costruzioni lignee a pelo d’acqua, dotate di grandi balconi e finestre decorate in legno finemente cesellato. Punteggiano le acque del Bosforo in un’alternanza di attracchi, passerelle, giardini e frutteti.

zara (dall’arabo az-zahr, “dado” - da cui anche azzardo): gioco che consiste nel gettare sul tavoliere tre dadi. Vince chi dichiara preventivamente, ad alta voce, il totale dei punti che realizzerà con i tre dadi.

 

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Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Questo volume è stato stampato

presso Mondadori Printing S.p.A.

Stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (TN).

Stampato in Italia - Printed in Italy.

 

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Venezia, fine del Cinquecento: una città tentacolare e spietata in cui anche i muri hanno gli occhi, il doge usa il pugno di ferro e il Sant’Uffizio sospetta di tutti e non ci pensa due volte a mandare a chiamare un

poveraccio e a dargli due tratti di corda. Sono tempi duri, soprattutto per il popolo brulicante intorno agli sfarzosi palazzi nobiliari: estati torride, inverni gelidi e interminabili, il prezzo del grano che continua ad

aumentare e i signori che pretendono di essere serviti e riveriti ma poi riluttano a pagare la giusta mercede.

La Serenissima osserva, ascolta e

condanna. Anche ingiustamente. Ed è proprio per sfuggire a un’accusa infondata che Michele, giovane muratore, è costretto a imbarcarsi su una galera lasciando tutto e senza

nemmeno il tempo per salutare la sua bella moglie Bianca, appena diciassettenne. Bandito da Venezia, rematore su una nave che vaga per il Mediterraneo carica di zecchini e di spezie e senza speranza di ritornare a breve,

Michele vivrà straordinarie avventure tra le onde, sulle isole e nei porti del mare nostrum, fino ad approdare nelle terre del Sultano. Per sopravvivere, con il pensiero sempre rivolto a Bianca, da ragazzo ignaro e inesperto dovrà farsi uomo astuto, coraggioso e forte.

Nel frattempo, Bianca rimane

completamente sola in città, tra i palazzi dei signori e il ghetto. Il suo temperamento tenace e

orgoglioso dovrà scontrarsi con prove se possibile più dure di quelle toccate a Michele, e incontri non meno terribili e importanti l’attendono nel dedalo di vicoli e calli, tra i profumi intensi delle botteghe di speziali, quello del pane cotto nel forno di quartiere, il morso dell’acqua gelida in cui lavare i panni e i pagliericci pidocchiosi che sono il solo giaciglio per la povera gente.

La terraferma e il mare, Occidente e Oriente, due vite e una passione, agli albori del mondo moderno: Alessandro Barbero mette tutta la sua sapienza di studioso e la sua finezza di scrittore al servizio di un grande,

trascinante romanzo in cui città meravigliose e scuri angiporti, pirati e principi, polvere da sparo e tessuti preziosi danno vita a un maestoso affresco storico, mentre sulla scena si battono con coraggio, vivi e a noi vicini, i protagonisti dell’eterna lotta per la libertà, la verità e l’amore.

 

***

 

Alessandro Barbero è nato a Torino nel 1959.

E’ professore ordinario di Storia Medievale.

Nel 1996 ha vinto il premio Strega con

Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo.

Per Mondadori ha pubblicato inoltre:

Romanzo russo (1998), L’ultimo rosa di Lautrec (2001) e Poeta al comando (2003). Tra le sue opere di saggistica: Storia del Piemonte (

Einaudi 2008) e Lepanto, la battaglia dei tre imperi (Laterza 2010). Collabora con “La Stampa”, “Il Sole 24-ore” e con la trasmissione

televisiva “SuperQuark”.

 

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«Mescola l’acqua col dito. E ripeti con me: per quest’acqua del pozzo, per quest’acqua del mio secchiello, con san Giuliano e san Rocco pellegrino e con i Tre Re, fammi vedere dov’è andato il mio uomo.»

Bianca, col cuore in gola, era in ginocchio davanti alla bacinella e ripeteva l’incantesimo.

«Cosa vedi?»

Bianca sbarrò gli occhi. Le pareva di non vedere niente, ma forse era lei, pensò, che non sapeva guardare bene. Cos’era quel riflesso? Il mare, forse?

«S’è imbarcato» mormorò.

 

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In sovraccoperta:

Immagine di Marcello Dolcini

da foto © Franck Boston/Shutterstock

Nel primo risguardo:

Venezia, incisione di Matthaeus Merian (1650).

© Photoservice Electa/AKG Images.

Nel secondo risguardo:

Portolano del Mediterraneo (part.), XVI sec.

Venezia, Museo Storico Navale.

© 2010 Foto Scala, Firenze.