1.
C’era stato il sole per tutto il giorno, ma adesso il vento dalla laguna si era rinfrescato e il cielo su Venezia cominciava a intorbidire. Matteo, ritto sul ponteggio principale del palazzo in costruzione, si asciugò il sudore con la manica fradicia della camicia, per l’ennesima volta: d’estate le giornate di lavoro cominciavano presto e non finivano mai. Guardò il sole per valutare quanto mancava al tramonto; nessuna chiesa aveva ancora suonato il vespro, nemmeno quella dei Frari che da un po’ di tempo, per chissà quale mania del campanaro, lo suonava sempre prima delle altre. Poi abbassò lo sguardo verso i suoi uomini al lavoro, soffermandosi con calma su ognuno. Chiunque altro, stando lì dove si trovava lui, a venti metri di altezza, avrebbe evitato di guardare di sotto, per paura del capogiro, ma Matteo faceva il muratore da una vita e stava a suo agio su un’impalcatura quanto sulla terraferma.
Sotto di lui, all’altezza del primo piano, tre manovali lavoravano svelti, attingendo mattoni da una cesta ormai quasi vuota; giù, nel campiello ormai in ombra, un ragazzo scalzo rimestava con un bastone di legno nel mastello della calcina, aspettando che gli dessero ordine di portarlo su. Matteo, grosso, pesante, abituato a riflettere con calma ai suoi affari e a non farsi fregare, si chiese se non avrebbe dovuto prendere un altro manovale, o magari due: se davvero il committente voleva il lavoro finito per un altr’anno, con la squadra che aveva adesso rischiava di non farcela. Però il muratore non aveva capito se il senatore Lippomano, nonostante i suoi abiti sontuosi e il fiero stemma col leone rampante che portava ricamato sul felze della gondola, aveva abbastanza liquidità per pagarlo tutto, il lavoro: le difficoltà che aveva fatto prima di pagare l’ultimo mese lo avevano inquietato un po’. Non c’è fretta, pensò Matteo, ad assumere altre braccia c’è sempre tempo, a fidarsi troppo dei padroni c’è solo da rimetterci.
Scendendo al piano inferiore del ponteggio, con le assi che vibravano pericolosamente sotto il suo peso, ordinò a uno dei manovali di andar giù a cercare un’altra cesta di mattoni, diede una pacca sulle spalle all’ultimo dei tre, che era suo figlio Michele, poi scese ancora qualche scalino e saltò direttamente nella corte. Il palazzo veniva su bene, nemmeno l’architetto che l’aveva disegnato per ordine del senatore avrebbe avuto niente da ridire - e sì che Matteo in vita sua cogli architetti aveva sempre litigato: se avessero preso un mattone in mano una volta, invece di star sempre seduti al tavolo con il regolo e la penna d’oca, non avrebbero mica avuto certe pretese! Nel suo ambiente si raccontava che una volta, ma tanto tempo fa, i palazzi e le chiese li costruivano i capimastri, senza tanti disegni e senza bisogno d’aver studiato, e guarda un po’, sono ancora tutte in piedi adesso, le fabbriche costruite a quei tempi; ma si sa, il mondo diventa sempre più matto.
Sospirando, perché dopo una giornata di lavoro perfino un colosso come lui cominciava a essere stanco, Matteo andò a bere una sorsata di vino dal fiasco messo in fresco nel secchio del pozzo, proprio al centro del campiello. Il ragazzo che rimestava la calcina aveva lasciato stare il mastello e adesso aiutava il manovale a portar su i mattoni, impilati accuratamente nella cesta di vimini. Matteo l’aveva assunto una settimana prima, quando l’altro ragazzo che aveva in squadra si era licenziato: la paga era troppo bassa, diceva, da qualche parte troverò di meglio, alla peggio m’imbarco.
Il capomastro si era stretto nelle spalle: lo sapeva anche lui che con le paghe del giorno d’oggi si fa fatica a vivere, ma la famiglia doveva pure mantenerla. Un ducato al mese era tutto quello che poteva offrire, e da mangiare e dormire per terra nell’ingresso di casa sua: ma almeno da mangiare, grazie a Dio, ce n’era sempre in abbondanza, da lui nessuno saliva sui ponteggi a pancia vuota. Senza un garzone, però, non si poteva lavorare, e fortuna che era capitato lì quest’albanese sperduto; ce n’erano tanti in città, e lavoravano duro e bisognava pagarli quanto chiunque altro, ma questo qui era poco più d’un ragazzino, appena arrivato a Venezia, e solo, a quanto pareva: a Matteo era piaciuto subito, e pure a sua moglie. Ma sì, tienilo, gli aveva detto Zanetta. Si erano messi d’accordo: vitto e alloggio fino a fine anno, e basta, come si fa cogli apprendisti nelle botteghe; poi, se impari il mestiere, ci sarà la paga. Sperando che il Lippomano continui a pagare ogni mese, perché se gli zecchini non li tira fuori lui, noialtri possiamo morire tutti di fame. Ora il ragazzo era lì che saliva, reggendo a fatica il manico della cesta troppo pesante. Zorze, si chiamava. Verrà fuori un buon muratore, pensò Matteo osservando le gambe magre, che però cominciavano a ispessirsi ai polpacci.
E poi all’improvviso il ragazzo mise un piede in fallo, la pesante cesta gli si ribaltò addosso, e lui precipitò dal ponteggio con un urlo lacerante. Insieme e sopra di lui piovvero i mattoni, e un attimo dopo era immobile e disarticolato sul selciato. «Maria Vergine!» gridarono tutti; Matteo corse e in un momento era inginocchiato accanto a lui, mentre Michele e l’altro muratore si precipitavano giù, facendo tremare il ponteggio. Solo l’ultimo manovale, quello che stava portando la cesta insieme a Zorze, era rimasto bloccato con le mani sulla bocca. Si vide subito che non c’era niente da fare, il ragazzo si era rotto le ossa dentro, e parecchi mattoni gli erano caduti addosso, colpendolo al torace e alla testa; sanguinava sotto i capelli biondastri, muoveva piano la testa e storceva gli occhi vitrei, come quelli di un gatto ammazzato a bastonate. «Maria Vergine»
ripeteva Matteo, e non sapeva come toccarlo con le mani troppo grosse. Si guardarono tutti.
«Lo portiamo a casa?» disse Michele, sconvolto.
«Ma non lo so» borbottò Matteo. Come sempre quando le cose gli andavano male, il dolore dentro di lui era soffocato da una sorda rabbia. Perché sempre a me? Porco lavoro - e porca vita…
«Ormai è inutile, guarda» disse l’ultimo muratore, che intanto era sceso anche lui, pallido come un cencio. E
davvero tutti videro che era inutile: gli occhi del ragazzo si erano trasformati definitivamente in vetro opaco, e il corpo non si muoveva più. Michele s’inginocchiò, lo toccò goffamente, al polso, al petto. Non si sentiva niente.
«È andato, poveraccio» mormorò; e si fece il segno di croce.
Tutti gli altri lo imitarono.
«Cosa facciamo?» chiese poi Michele. Non aveva ancora vent’anni, e per quanto il padre l’avesse già lasciato sposare era ancora abituato a ubbidirgli in tutto. Stavolta, però, anche il capomastro sembrava smarrito.
«Poveraccio» ripeteva, con le lacrime agli occhi. In quel momento la campana dei Frari cominciò a suonare il vespro, e Matteo si riscosse. «Intanto cominciamo ad avvertire il padrone. E poi lo portiamo a casa. Oramai è tardi, a seppellirlo penseremo domani.»
Mentre Michele correva a casa ad avvertire le donne, uno dei due manovali fu spedito a cercare il senatore Lippomano. Matteo tornò barcollando fino al pozzo, riprese il fiasco e bevve un’altra lunga sorsata; poi vide il muratore rimasto che lo guardava, accucciato sotto il ponteggio, e gli fece cenno di venire a bere anche lui. Questa non ci voleva, pensava; e gli pareva che la testa gli girasse, più di quello che era giusto. Che diamine, non è mica colpa mia, pensò.
Io l’ho trattato bene.
Michele arrivò subito dopo, con la madre e la moglie: casa loro era lì a due passi, in un campiello identico a quello, affacciato sul canale della Giudecca. Le due donne s’inginocchiarono accanto al morto, piangendo forte. Anche se era in casa solo da pochi giorni, Zorze piaceva a tutti, così biondino com’era, e col suo modo buffo di parlare, il dialetto veneziano imparato a metà che suonava così strano con la sua pronuncia dura.
«Destino!» disse finalmente Zanetta, dopo che entrambe ebbero gridato forte per un po’, com’era usanza. E tutt’e due cominciarono a pensare a cose pratiche: in quei casi erano le donne a prendere in mano la situazione, guai se si fossero dovuti aspettare gli uomini. Michele, che s’era stretto a sua moglie Bianca e tremava un po’, fu rispedito con un manovale a cercare una barella per trasportare il cadavere, e un po’ di lenzuolo per coprirlo. Poi Zanetta s’accostò a Matteo, guardò con un sospiro il fiasco vuoto abbandonato per terra accanto al secchio, gli rivolse un’occhiata di rimprovero; il marito, impacciato, si pulì la bocca col dorso della mano.
«Com’è successo?» chiese la donna, per rompere il silenzio.
«Ma non lo so!» esclamò il muratore. «Saliva su coi mattoni, insieme a Teta. Non lo so, è scivolato. E…»
La donna tacque. Solo lei sapeva che da quando suo figlio aveva cominciato a salire sui ponteggi insieme al padre, ogni sera lei aspettava il loro ritorno con un’inquietudine oscura, aspettandosi ogni volta che invece di loro due si affacciasse alla porta un ragazzo mandato a chiamarla, perché era successa una disgrazia. Finché a lavorare ci andava solo suo marito, non aveva mai avuto paura, chissà perché; ma ora che ci andava suo figlio tremava. Era l’unico che le era rimasto: gli altri due ragazzi li aveva portati via la peste del 1576, quella che tutti si ricordavano con spavento, perché si era mangiata mezza Venezia. Era rimasto solo lui, il più piccolo; e poi non ne aveva più avuti.
Intanto erano passati… quanti anni? Dodici, sì, dodici: il bambino era diventato un adulto, e andava nel cantiere col padre. Eh, la vita, pensò Zanetta.
Un passo frettoloso la fece trasalire. Nel campiello era sbucato dalla calle un uomo vestito di velluto nero, con una luccicante catena d’oro al collo: il magnifico ser Girolamo Lippomano. Già Bianca, che era più vicina, gli faceva una riverenza impacciata, e Zanetta si affrettò a imitarla, mentre Matteo gli si faceva incontro e s’inchinava goffamente. Il senatore ignorò le due donne, fece un cenno secco al muratore e si piantò davanti al cadavere del ragazzo ancora steso sul selciato. Fece una smorfia, poi alzò lo sguardo ai ponteggi del palazzo in costruzione. Girolamo Lippomano dimostrava una cinquantina d’anni, aveva una gran fronte calva e solcata da rughe, pochi capelli grigi tagliati cortissimi e una barbetta curata, che cominciava a imbiancare. Membro del Senato per molti anni, eletto parecchie volte Savio Grande, e da poco nominato procuratore di San Marco, era uno dei diplomatici più apprezzati della Repubblica; ambasciatore a Torino e a Napoli, aveva poi coperto incarichi sempre più prestigiosi, presso il re di Polonia, e addirittura presso il re di Francia. Da quelle corti spediva rapporti con informazioni segretissime, che solo lui sapeva come riusciva a procurarsi.
I suoi colleghi, che governavano Venezia col pugno di ferro e non si stupivano di niente, lo tenevano in enorme considerazione. Dopo aver ispezionato a lungo l’edificio incompiuto, ser Girolamo tornò a guardare il cadavere, facendo un passo indietro e un’altra smorfia. Non gli era nemmeno venuto in mente di levarsi il berretto; tuttavia fece un segno di croce, rapido, poi ordinò a Matteo di avvicinarsi.
«Chi era?» chiese in tono brusco. Matteo scrollò le spalle.
«Un apprendista. L’avevo appena trovato.»
«E da dove veniva?»
«Dall’Albania, diceva.»
Lippomano fece ancora un’altra smorfia.
«Bisognerà trovargli un prete dei loro» disse Matteo. Il senatore lo guardò freddamente.
«A che cosa serve? Ormai è morto, non deve più confessarsi. Portalo sotto il portico del Palazzo Ducale e lascialo lì, lo seppelliranno i becchini del comune.»
Matteo esitò. Non era abituato a contraddire i padroni, però stavolta non riuscì a star zitto.
«Illustrissimo, non sta bene, ci vuole un prete dei loro che lo benedica. Se no ‘st’anima non riposa tranquilla.»
Lippomano lo fissò con attenzione improvvisa, poi alzò le spalle.
«Fai come vuoi. Basta che tu non venga a chiedere dei soldi a me.»
In quel momento arrivarono Michele e il manovale con la barella. Vedendo il senatore s’inchinarono tutt’e due, poi deposero la barella accanto al morto e, prendendolo per le ascelle e per le ginocchia, lo caricarono. Non pesava molto.
Il manovale aveva un fagotto annodato a tracolla che svolto si rivelò un lenzuolo vecchio di casa. Con quello coprirono il ragazzo, facendogli un segno di croce sulla fronte.
«Dove lo portate?» chiese il senatore.
«Pensavo di portarlo a casa mia» disse Matteo.
«Bravo» rispose ser Girolamo, con indifferenza.
Matteo si rivolse agli altri.
«Su, portatelo a casa. Io arrivo subito.»
I due lavoranti sollevarono la barella e se la misero a spalle. Michele, Bianca e Zanetta s’inchinarono ancora, poi si avviarono dietro al morto. Lippomano aspettò d’essere rimasto solo con Matteo, poi tirò fuori un fazzoletto ricamato dal polsino e si asciugò il sudore dalla fronte pelata. Il cielo s’era mezzo coperto, ma il vento era caduto, e l’afa era pesante.
Matteo, in camicia e scarpe di tela, senza calze e col berretto in mano, pensò che il senatore doveva avere caldo. Peggio per lui, visto che le leggi della Repubblica sono così severe e tengono così tanto al decoro dei nobili: che non possono uscire vestiti come vogliono loro, ma sempre in nero, e in porpora se sono magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, perché tutti quanti, fino all’ultimo, rappresentano la Serenissima. Noialtri invece, pensò Matteo, possiamo pure andare scalzi e cogli stracci addosso, non importa niente a nessuno, neanche se crepiamo a un angolo di strada.
«Sta’ a sentire, Matteo, che ho da dirti una cosa» disse il Lippomano.
«Comandi.»
«Dimmi un po’, a che punto sei coi lavori?»
Dal tono con cui il senatore gli aveva fatto questa domanda, Matteo si mise in guardia.
«Come le avevo detto, eccellenza» cominciò prudentemente. «Un anno e mezzo ci vorrà tutto, ma per le feste dell’anno prossimo le consegno il lavoro finito. Se poi vuole che si finisca prima…»
Matteo s’interruppe, qualcosa gli diceva che non era proprio quello il momento di chiedere più soldi al padrone.
Ser Girolamo, infatti, lo stava fissando con un’espressione sgradevole. Giocherellava con la catena d’oro che portava sul petto. Aveva dita sottili, con le unghie curate.
«No» disse poi bruscamente. «Sospendiamo i lavori, invece. Io vado via, non so ancora quando, forse già quest’inverno. Starò via almeno due anni. E non voglio che il lavoro vada avanti mentre non ci sono io.»
Matteo, a cui già prima girava un po’ la testa, a quel colpo inaspettato vacillò.
«Ma illustrissimo…» riuscì a mormorare.
«Niente ma!» tagliò corto il Lippomano, col tono di chi è abituato a comandare e a non essere contraddetto. «Già così, non so com’è che questa fabbrica mi viene a costare tanto, figuriamoci quando non potrò più tenerla d’occhio.
Vi conosco, voialtri.»
Matteo, avvilito, non rispose.
«Allora siamo intesi» concluse il senatore. «Verrai domani a casa e facciamo i conti. Addio Matteo.»
«Schiavo suo, eccellenza» balbettò il muratore. Mentre l’altro se ne andava, Matteo restò lì col berretto in mano, così confuso che non sapeva se fosse mattina o sera. Poi si ricordò del fiasco e guardò verso il pozzo, ma Zanetta, che non lasciava mai niente in disordine, doveva averlo riportato a casa.
Matteo sputò e dopo essersi guardato bene intorno bestemmiò; ma a bassa voce. Anche i muri avevano orecchie, e il Sant’Uffizio non ci pensava due volte a mandare a chiamare un poveraccio e dargli due tratti di corda, se riceveva una denuncia anonima sul suo conto. Matteo si ricordava benissimo che una volta non era così, quando lui era giovane la gente non aveva tanta paura, e nessuno trovava che ci fosse qualcosa di grave in una bestemmia scappata di bocca senza pensarci; ma i tempi erano cambiati, e non tanto in meglio. Nemmeno la soddisfazione di bestemmiare abbiamo più. Che mondo porco, pensò con rancore, mentre s’incamminava verso casa.
Arrivato, scoprì che aspettavano solo lui per cenare. Si lavò le mani al secchio, sedette a tavola sull’unica sedia buona, coi braccioli; Michele sedette sull’altra sedia, alla sua destra.
I manovali presero posto su due sgabelli: per contratto cenavano con loro, e Matteo gli tratteneva il pasto dalla paga.
Zanetta e Bianca servirono la zuppa, poi Zanetta sedette sul bordo del camino con la scodella sulle ginocchia, mentre Bianca continuava a trafficare, attizzando il fuoco, portando un secchio d’acqua fresca dal pozzo; finalmente prese una scodella anche lei, si fermò in piedi accanto alla suocera e cominciò a mangiare. Matteo, finito il primo piatto di minestra, se ne fece versare un’altra mestolata, prese la grossa pagnotta rafferma e ne tagliò una fetta col coltello che portava alla cintura, cominciò a intingerla nel piatto e a masticare. Nessuno parlava. Il morto era stato appoggiato in terra in una delle due camere da letto, quella dove dormivano i due giovani.
«Ma stanotte lo riportiamo di qua, vero?» sussurrò Bianca, accennando col capo alla stanza accanto. Quel morto in casa le faceva impressione. Michele voleva dir di sì, ma per abitudine aspettò che parlasse suo padre.
«Certo» disse alla fine Matteo, masticando. Poi, sentendo la rabbia che gli premeva nella pancia, raccontò la novità che gli aveva portato il Lippomano.
Le disgrazie non vengono mai sole, pensò Zanetta; ma non lo disse.
«Bella notizia!» disse invece.
Tutti avevano smesso di mangiare, e negli occhi dei due manovali si leggeva chiaramente il timore che quella zuppa fosse l’ultima. Lavoro, in quel momento, non ce n’era mica tanto a Venezia.
«E così, dice che va via?» indagò Michele, incuriosito.
Suo padre alzò le spalle, ma la madre intervenne di nuovo.
«Andrà di nuovo ambasciatore. Tu non ti ricordi, ma una volta era sempre via.»
«Ora, però, è da un pezzo che non partiva più»
intervenne Matteo, cupo.
«Sì, e anzi, diceva proprio che ormai ne aveva abbastanza di viaggiare» riprese Zanetta, ricordando le chiacchiere con una serva di casa Lippomano, sua amica d’infanzia, che incontrava qualche volta al mercato del pesce.
«Dammi da bere una volta» disse Matteo; e subito Bianca, che s’era seduta anche lei sullo scalino vicino al fuoco, si alzò, cercò il fiasco e gli riempì il bicchiere. Matteo bevve, poi appoggiò i gomiti sul tavolo. «È tutto chiaro, altroché»
sbottò, con rancore. «Ha bisogno di soldi, quello lì. L’ho capito già l’altra volta, che ho dovuto faticare così tanto per farglieli tirare fuori. Magari non va neanche via, è tutta una scusa per chiudere il cantiere.»
«E intanto lascia senza lavoro te» protestò Zanetta.
«Dài, che gente in gamba come noi di lavoro ne trova sempre» esclamò allegramente Michele. Bianca cercò il suo sguardo e lo trovò. Lui le sorrise, e lei sentì sciogliersi il groppo che la stringeva alla bocca dello stomaco.
Vedrai che in un modo o nell’altro, con un uomo come me, di fame non muori, le aveva detto lui una volta, quando non erano ancora sposati. Ora ogni tanto se lo ricordavano a vicenda, scherzando: soprattutto a letto, mentre i vecchi russavano. Michele era solo un ragazzo e non sapeva niente della vita, ma siccome anche lei era una ragazzina, si fidava ciecamente. Matteo e Zanetta si cercarono con gli occhi, ma loro ne avevano già viste tante: di fiducia, in quegli sguardi, ce n’era poca.
Si faceva buio, e Bianca trafficò attorno alla bugia. La fiammella della candela, tremolando sul tavolo, diede a tutti l’impressione che il resto della casa fosse ancora più buio.
«Su, laviamo i piatti e poi si va a dormire» sospirò Zanetta, alzandosi dal suo angolo. «Voialtri portate di qua quel poverino.»
Mentre le donne rigovernavano, gli uomini tolsero la tavola dai cavalletti, la addossarono al muro con le sedie e gli sgabelli, e trasportarono in cucina la barella col morto, depositandola sul pagliericcio dove fino alla sera prima dormiva il ragazzo. Di lì a poco gli uomini, che avevano addosso le loro dodici ore di lavoro, dormivano come macigni.
Zanetta e Bianca rimasero a vegliare il ragazzo, perché non sta bene lasciare solo un morto la prima notte; la candela illuminava fiocamente la stanza, e le due donne tacquero, l’una accanto all’altra, finché Bianca non fu vinta dal sonno e si assopì, e Zanetta rimase da sola a vegliare nella notte.
***