11.

Al mattino, quando Bianca si svegliò, Zanetta era già accanto al fuoco, e preparava la zuppa.

«Ascolta» disse la suocera in tono deciso. «Io ho pensato tutta la notte. Così non andiamo avanti. Tu non puoi lavorare per due, guadagni appena abbastanza per mantenerti, e io non ce la faccio più ad aiutarti. Non è più un lavoro per me, con la mia schiena. Io me ne vado all’ospedale.»

Bianca cercò di discutere, ma Zanetta fu irremovibile.

«Non c’è nient’altro da fare, ti dico. Oggi prendiamo le mie robe e andiamo ai Derelitti. Là sono buoni, mi terranno; lì dentro un po’ di lavoro lo posso ancora fare. E a te ti troveranno un posto per andare a servizio, così non starai da sola.»

Non c’era davvero nient’altro da fare, Bianca lo capiva benissimo. Così, dopo aver mangiato per l’ultima volta la zuppa che aveva preparato tante volte per suo marito e per i suoi figli, Zanetta raccolse in due grossi fagotti la sua biancheria, la gonna, il corpetto e le scarpe dei giorni di festa, avvolse in un fazzoletto gli orecchini e la catenina d’oro e li mise nella borsa appesa alla cintura, poi guardò ancora una volta la casa della sua famiglia, sospirò e si fece il segno di croce.

«Dài, andiamo» disse poi, soffocando un singhiozzo. Si caricarono sulle spalle i fagotti e incespicando sotto quel peso partirono per attraversare la città.

L’ospedale di San Giovanni e Paolo, che la gente chiamava “i Derelitti”, non aveva come missione quella di curare i malati, ma di ospitare orfani e donne sole, che non erano in grado di guadagnarsi da vivere: mogli abbandonate con i bambini piccoli, prostitute che non volevano più fare la vita e che nessuno accettava di prendere a servizio, vedove senza mezzi, troppo anziane o malate per lavorare.

Impiegarono parecchio tempo per arrivare fin laggiù, attraverso San Travaso e San Barnaba, Santa Margherita e San Pantalon, i Calegheri e San Polo, Sant’Aponal e il ponte di Rialto, San Bortolamio e San Giovanni Crisostomo e i Miracoli; quando sbucarono nella piazza di San Giovanni e Paolo deposero a terra i fagotti e sedettero un istante a riprendere fiato. Dal suo piedistallo di marmo, un feroce guerriero a cavallo le guatava con aria sdegnosa. Per tutta la mattina il vento aveva portato piovaschi, ma ora stava cominciando a piovere sul serio. «Coraggio» sospirò Zanetta, riprendendo il carico e avviandosi verso l’ingresso dell’ospedale.

Il prete con cui parlarono era molto vecchio, col volto coperto di rughe; avrà addirittura settantanni, pensò Bianca. Ci vedeva poco, perché venne vicino e le scrutò attentamente negli occhi, poi zoppicò intorno a loro esaminandole da capo a piedi, davanti e di dietro; e allungò addirittura la mano a tastare la stoffa dello scialle di Zanetta. Le aveva accolte freddamente e non aveva quasi fatto parola, dopo che avevano spiegato il motivo per cui erano venute; ma dopo averle osservate ben bene si piantò davanti a loro e sorrise, e le due donne si accorsero che c’era in lui della bontà, anche se non si fidava a tirarla fuori.

«Allora» disse, rivolgendosi a Zanetta. «Per voi posto ce n’è. È una vita che bisogna prendere come ce la manda il Signore, vero? Pensare a lavorare, finché si può, e a pregare.»

La vecchia assentì seriamente.

«Per te» disse il prete rivolto a Bianca «ci penseremo.

Una casa che abbia bisogno di una serva si trova sempre.»

Le due donne si caricarono di nuovo i fagotti in collo e seguirono il prete su per lo scalone fino al primo piano, dov’erano le camerate. Al loro passaggio, una donna che stava lavando il pavimento si fece da parte e s’inchinò al prete. Era ancora giovane, ma col volto gonfio e segnato dalla vita, e un’espressione di perpetuo allarme negli occhi. Bianca si ricordò della vecchia del giorno prima e di quello che era venuta a proporle, e si sentì ribollire il sangue. Io no, giurò a se stessa.

Nella camerata, un gruppetto di donne anziane sedeva su sgabelli, filando. Tutte salutarono con rispettosa familiarità, e scrutarono le due nuove venute con curiosità non dissimulata. Il prete assegnò un letto a Zanetta, poi guardò i due fagotti che le donne avevano posato per terra.

«Una cassa non l’avete?» chiese, aggrottando la fronte.

«La cassapanca del corredo» rispose la donna; e distolse lo sguardo. «Non sapevo se potevo portarla. E poi per noi era troppo pesante.»

«Vuol dire che manderò io a prenderla, la cassapanca ci vuole» disse il prete. «E’ tutto quello che può servire qui.

Una seggiola. Stoviglie. Manderò un carretto.»

Bianca vide che Zanetta si distendeva in volto, all’idea che le sue cose l’avrebbero raggiunta. Come sono egoisti i vecchi, pensò. E io?

Il prete si voltò verso di lei.

«Allora hai capito. Domani verrà un uomo con un carretto, tu puoi chiudere casa e vieni qui con lui. Ti troveremo un posto.»

«Grazie» mormorò Bianca, e s’inginocchiò a baciargli le mani; si sentiva tremare dentro come se avesse la febbre, e non sapeva se fosse per la speranza o per la paura della vita ignota che la aspettava.

Due giorni dopo, Bianca entrò come serva a casa di madonna Faustina, a San Simeon Grande. La sua nuova padrona era una vedova non più giovane, grossa, imperiosa, che viveva gestendo con accortezza gli affitti di case e botteghe ereditate dal marito. Accolse Bianca squadrandola a lungo con diffidenza, poi fece un cenno d’assenso allo scrivano dei Derelitti, che l’aveva accompagnata.

«Va bene. La prendo» disse, come se stesse concludendo un acquisto. Bianca sapeva che prima di lei aveva lavorato lì un’altra ragazza raccomandata dal prete, ma poi era rimasta incinta e se n’era tornata al paese.

«Bisogna accontentarsi» aveva sospirato il prete, descrivendole la sua futura padrona e la casa dove avrebbe lavorato; e Bianca si accontentò. Il lavoro non era più duro di quello che faceva a casa, soprattutto dopo che la scomparsa degli uomini l’aveva obbligata a lavorare anche fuori. La durezza stava solo nel fatto di non lavorare per la propria famiglia ma per una sconosciuta, non dormire nel proprio letto ma su un pagliericcio in uno sgabuzzino, non mangiare gli avanzi di suo marito ma quelli freddi della padrona. Nei primi giorni non uscì mai: madonna Faustina andava da sola a fare la spesa al mercato e non voleva lasciare la casa vuota, e al ritorno controllò minuziosamente quanto pane, vino, formaggio erano rimasti in cucina. La domenica Bianca accompagnò la padrona a messa, sedendo negli ultimi banchi e attendendo poi sul sagrato mentre madonna Faustina commentava con le comari le novità del quartiere.

Mentre si incamminavano verso casa, la padrona le chiese se voleva andare a trovare Zanetta all’ospizio; Bianca, che stava imparando una nuova vita e non conosceva nessuna delle regole, non ci aveva neppure pensato, ma la donna le disse che non aveva niente in contrario, purché tornasse a casa prima del vespro. Così Bianca andò a San Giovanni e Paolo, abbracciò Zanetta e rimase stretta a lei, un po’

parlando e un po’ piangendo, finché l’imbrunire non l’avvertì che era ora di tornare.

I giorni passavano e Bianca si abituava lentamente alla sua nuova vita. I pensieri cattivi la assalivano continuamente, ma per fortuna non aveva tempo di fermarsi a pensarci: c’era troppo lavoro dal momento in cui si alzava, prima dell’alba, e accendeva il fuoco attizzando le braci, a quello in cui la padrona controllava che la porta fosse serrata a chiave e la mandava a letto. Madonna Faustina non era cattiva, ma era tirannica. Le piaceva comandare, e stare a vedere mentre la giovane le obbediva. Finché suo marito era vissuto, aveva tiranneggiato lui, oltre ai due domestici, un uomo e una donna, che tenevano in casa; ora che era rimasta sola, e le bastava una serva, tutta la sua voluttà di dominio si scaricava sulle spalle di Bianca. Quello che le piaceva più di tutto era obbligare la ragazza a chiedere, per poi concedere con degnazione: le dava apposta poco pane, per sentirsene chiedere ancora, e quando stavano tutt’e due nella stessa stanza Bianca doveva chiedere il permesso anche per interrompere il lavoro che stava facendo e andare a pisciare nell’orinale. Dovrebbe comprarsi una schiava, pensava la ragazza, con rancore.

E poi un giorno, parecchie settimane dopo il suo ingresso in quella casa, capitò qualcosa di strano. Stava pulendo verdure in cucina quando sentì bussare alla porta di strada; andò ad aprire e vide un gentiluomo cogli abiti un po’

impolverati, gli stivali ai piedi, che la guardò con stupore.

«To’!» disse il gentiluomo, esaminandola sfacciatamente. «E tu chi sei?»

«Bianca, signore» rispose lei, arrossendo.

«Nuova, eh? Di’, madonna Faustina è in casa?»

«Sì, signore.»

«Valle a dire che è arrivato il signor Fabio.»

Bianca obbedì e madonna Faustina, con sua grande sorpresa, entrò in agitazione. Le ordinò di far entrare quel signore, portargli del vino e poi tornare in camera per aiutarla a truccarsi; si spazientì con lei senza motivo, ma non le rifilò un ceffone come aveva già fatto più di una volta, anzi smise subito di pensarci e sul volto pitturato le comparve uno strano sorriso.

«Ora va’ fuori» le disse poi.

«Ma fuori come?» balbettò Bianca.

«Va’ a comprare due soldi di panpepato. Ma non andare alla bottega qui all’angolo, va’ a Rialto, hai capito? Che lì vendono il più buono. To’» aggiunse, porgendole il denaro. «Non perderlo e non farti imbrogliare. Quando torni, se la porta è chiusa aspetta lì, capito?»

Mentre andava a Rialto, Bianca ebbe tutto il tempo per pensare a quella faccenda straordinaria, e per capire che cosa doveva esserci sotto. Quando tornò la porta di casa, come s’era aspettata, era chiusa. Rimase lì incerta, un po’

spaventata di restare così, fuori in mezzo alla strada, senza sapere fino a quando; poi si ricordò che sul retro della casa, in una calletta così stretta che una persona ci poteva passare appena, c’era una porticina che dava nell’orto e che non chiudeva bene. La curiosità la spinse a fare il giro della casa e tentare la porticina: effettivamente, nonostante il catenaccio, restava uno spiraglio in cui una ragazza magra come lei poteva passare. Scorticandosi le braccia e strappandosi la gonna - ma di questo si accorse solo quella sera, al momento di spogliarsi - si ritrovò nell’orto. Le finestre della casa, al primo piano, erano troppo alte per potersi affacciare, ma sotto c’era il pozzo e Bianca, giacché era arrivata fin lì, cedette alla curiosità e si arrampicò con precauzione.

Mettendosi in punta di piedi, arrivava ad affacciarsi al davanzale di una camera, e con soddisfazione si accorse che era proprio quella di madonna Faustina.

Aguzzando lo sguardo, vide attraverso i vetri un po’

torbidi e pieni di bolle due corpi nudi che si muovevano sul letto. Con un sussulto si accorse che l’uomo stava sotto, e che la donna sopra di lui lo cavalcava, con i grossi seni che sobbalzavano. Sapeva che non poteva essere altri che madonna Faustina, eppure rimase lo stesso stupefatta riconoscendo in quella nudità il corpo carnoso che aveva vestito e svestito in tutti quei giorni. Piena di vergogna e al tempo stesso inchiodata lì da una voglia che non ricordava d’aver mai provato, neppure quando aspettava sotto le lenzuola che Michele si accostasse a lei, vide i due corpi che si agitavano grottescamente, e sentì attraverso i vetri sottili le parole che quelle due bocche si dicevano a poche spanne da lei.

«E così, ti piace?»

«Su, cagna, su…»

«Vai! Vai! E vai!»

«Tutto… dammelo tutto adesso!»

Poi un rantolo cieco, prolungato, e madonna Faustina che si scuoteva tutta un’ultima volta, e si abbandonava a giacere sul corpo dell’uomo con tutto il suo peso, che non era poco. Un momento dopo l’uomo, con gli occhi appannati, si levò a sedere spostandola faticosamente da un lato, e cominciò a cercare qualcosa; e Bianca saltò giù precipitosamente dal pozzo, corse alla porticina, tornò in strada e andò a sedersi sul gradino davanti alla porta, in tempo per quando la chiave girò dall’interno nella serratura e il signor Fabio, rivestito e spolverato, uscì con aria soddisfatta.

«Su, cosa fai lì imbambolata? Vieni dentro, no?» ordinò con voce dura madonna Faustina.

A partire da quel giorno, la padrona cominciò a mandare in giro Bianca con le commissioni più diverse, quasi sempre in zone lontane della città, e comunque con l’ordine, al ritorno, di aspettare se trovava la porta chiusa. Una volta si trattava di portare un paio di guanti a un’amica di madonna Faustina, un’altra volta di andare dallo speziale con la ricetta d’una pomata e aspettare finché non fosse confezionata, o d’andare a comperare una qualche inezia che però si vendeva soltanto in una certa bottega dietro l’Arsenale. Al ritorno, dopo ore di cammino, Bianca trovava quasi sempre la porta chiusa, e si sedeva sul gradino ad aspettare; ma era inverno, il freddo entrava nelle ossa, e allora cominciava a camminare su e giù per la strada, per scaldarsi. Quando pioveva, si rifugiava sotto un balcone vicino e restava lì in attesa di vedere la porta che finalmente s’apriva per lasciar uscire il signor Fabio e permettere a lei di entrare.

Il peggio, però, non erano il freddo né la pioggia, ma gli sguardi degli uomini che la vedevano sostare così a lungo per la strada, o camminare su e giù senza scopo.

Sotto quegli sguardi Bianca si faceva di brace, e quando qualcuno fischiava o le indirizzava un complimento pesante, si sentiva morire di vergogna. Le strade di Venezia erano piene di donne che uscivano sole e andavano per le loro faccende, ma sostare all’aperto così senza motivo, magari appoggiando la schiena al muro quando la stanchezza la sopraffaceva, era tutt’altra cosa. La curiosità insolente che leggeva negli sguardi degli uomini, e anche il disprezzo o la pietà che comparivano in quelli delle donne, la spaventavano al punto che finì per non osare nemmeno più alzare la testa: quando sentiva avvicinarsi qualcuno, si rincantucciava ancor più e teneva gli occhi fissi a terra, finché il passo non si allontanava.

Una domenica, ai Derelitti, raccontò a Zanetta quello che le capitava. La donna inorridì sentendo che Bianca era costretta a vagare per la strada per ore, chiusa fuori di casa, e ancor più vedendo che dopo averglielo confessato la giovane aveva le lacrime agli occhi.

«Vorrei non esserci mai andata, in quella casa»

singhiozzò. «Vorrei restare qui con voi» aggiunse, guardandosi intorno. Le altre donne, che filando s’erano sedute accanto a loro per ascoltare i suoi racconti del mondo di fuori, annuirono comprensive. Si stava bene, lì: lavoravano il giusto, erano nutrite, scaldate e vestite, e poi pregavano tanto.

«Chiediamo a pre Anzolo» disse una.

«È troppo giovane, e non è neanche malata. Non la prendono mica» obiettò un’altra.

«Ma pre Anzolo è così buono!» insistè la prima.

«E ora che son morte quelle due altre poverette…»

aggiunse una terza.

Fra tutte, le vecchie decisero che chiedere non costava nulla. Pre Anzolo, risultò, era il prete canuto e rugoso che aveva accolto Zanetta qualche tempo prima. Ascoltò la storia di Bianca aggrottando la fronte, e anche lui trovò scandaloso quello che era costretta a fare. A una ragazza onesta non si poteva far fare quella vita.

«Per stanotte resta qui, se vuoi» disse. «C’è posto nei letti» aggiunse, indicando la mezza dozzina di grandi letti, in ognuno dei quali potevano dormire due o in caso di bisogno anche tre donne. «Poi domani vedremo.»

Così quella sera Bianca mangiò la zuppa alla tavola comune, e poi disse il rosario insieme a tutte le donne, le vecchie e qualche giovane, e si coricò nel letto di Zanetta, insieme a una vecchina dai capelli candidissimi e l’aria smarrita, che non parlava mai e si addormentò subito mormorando una preghiera. Il mattino dopo si alzò all’alba con le altre, pregò nella cappella gelida raccomandandosi a Dio con tutte le forze, e si mise al lavoro; ma filava da appena un paio d’ore quando un famiglio venne a chiamarla.

Pre Anzolo l’attendeva nel suo ufficio insieme a due gentiluomini anziani, dall’aria grave.

«Eccola qui» disse. Evidentemente aveva già raccontato tutta la storia.

«Dunque» disse il primo dei due, mentre Bianca lo guardava imbarazzata e si torceva le mani nel grembiule. «Sei sicura che vuoi restar qui?»

Bianca, dal giorno prima, si sentiva già meno entusiasta della vita d’ospizio, ma aveva paura che la rimandassero da madonna Faustina, che a quell’ora doveva essere montata su tutte le furie per il suo mancato ritorno.

«Sì» disse, cogli occhi bassi.

L’uomo sospirò.

«Ascolta bene, però: non hai un contratto con madonna Faustina?»

«Non so» disse Bianca, che non capiva.

«La padrona, quando ti abbiamo mandata là, non ti ha fatto firmare una carta?»

«No, signore!» rispose Bianca, spalancando gli occhi.

«Vedete?» disse l’uomo, rivolto all’altro. Pre Anzolo annuì energicamente.

«Benedette donne» commentò il secondo gentiluomo, e stavolta tutti e tre annuirono gravemente.

«E finora non ti ha pagata?» riprese poi il primo.

«No, signore!» ripetè Bianca, meravigliata. Dentro di lei una voce l’avvertiva che forse avrebbe potuto anche pensarci prima, com’è possibile che fosse sempre lei la più ingenua di tutte?

«Quando sono entrata da lei mi ha detto che poi ci mettevamo d’accordo» si difese.

I tre uomini si guardarono, e uno di loro disse qualcosa in latino, e gli altri due annuirono ancora.

«Va’ pure, ragazza» disse poi il primo.

Bianca ridiscese fra le donne, che la aspettavano piene di curiosità.

«Non so niente!» disse stringendosi nelle spalle; e raccontò l’interrogatorio cui era stata sottoposta. Ma non aveva ancora finito che pre Anzolo discese nel camerone sorridendo.

«Va bene» disse, «quei signori dicono che puoi restare.»

Madonna Faustina venne a reclamarla tre giorni dopo.

Bianca in cuor suo aveva sempre saputo che sarebbe successo; quando il prete salì a chiamarla impallidì, ma lo seguì bravamente in parlatorio, dove la padrona si aggirava con aria sostenuta.

«Hai fatto male a non tornare» le disse, appena la vide.

Prima che Bianca potesse rispondere pre Anzolo intervenne, chiedendo a madonna Faustina se le sembrava bene che una donna giovane fosse chiusa fuori di casa per ore e costretta a vagare per la strada.

«Avevo le mie ragioni» disse la padrona, rigida. «E una serva che sta in casa mia deve ubbidirmi.»

Il prete ribatté così duramente che madonna Faustina arrossì e per un istante rimase senza parole. Poi, però, ribatté anche lei, alzando la voce, e un istante dopo tutt’e due erano così scaldati che Bianca li guardava a bocca aperta, aspettandosi da un momento all’altro che si mettessero le mani addosso. Alla fine, però, pre Anzolo si dominò.

«Finché non prometterete di non trattarla più così, non possiamo rimandarvela» disse, in tono conciliante. Ma Faustina era troppo infervorata per fermarsi.

«Rimandarmela? Oh, non la voglio più, non vi preoccupate! Non la riprenderei nemmeno se mi cagasse oro!»

esclamò; poi uscì sbattendo la porta.

Bianca tirò un sospiro di sollievo, e risalì in camerata, mentre il prete borbottava qualcosa sulle donne; ma non era finita lì. Pochi giorni dopo, la padrona era di nuovo nel parlatorio dei Derelitti, e reclamava di parlare con Bianca. Il prete le domandò che cosa voleva ancora, e Faustina, in tono sprezzante, affermò che quando era andata via di casa la ragazza aveva addosso un fazzoletto che apparteneva a lei. Preoccupato, pre Anzolo salì a chiamare Bianca, e la condusse giù.

«È vero quel che dice la tua padrona?» chiese severamente.

Bianca, rossa come la brace, disse che non era vero: la padrona gliel’aveva regalato, il fazzoletto. Non aggiunse che questo episodio straordinario era successo proprio l’ultima volta che madonna Faustina l’aveva costretta a star fuori di casa tutto il pomeriggio, aprendole la porta che era già buio; quella sera la padrona era di ottimo umore, l’aveva accarezzata e le aveva regalato il fazzoletto. Lei non ci aveva pensato, e quella domenica quando era uscita di casa non immaginava certo di non ritornare; la sera aveva mostrato il fazzoletto a Zanetta e alle altre, e le donne le avevano detto di tenerselo e non preoccuparsi.

«Sono tutte bugie, rivoglio il mio fazzoletto, e voglio denunciare questa ladra» esclamò madonna Faustina, con rabbia; e allungò decisa le mani verso Bianca. Il prete si irrigidì, frapponendosi fra lei e la ragazza. «Se avete qualcosa da dire contro questa donna, rivolgetevi ai rettori dell’ospedale» disse freddamente. Ma Faustina lo scostò, afferrò il fazzoletto che Bianca stringeva fra le mani, e dopo una breve colluttazione se ne impadronì.

«Ladra!» esclamò trionfante, mentre se ne andava.

Il giorno stesso pre Anzolo mandò a casa di Faustina a prendere le poche cose di Bianca. L’uomo mandato per la commissione ritornò riferendo che per poco la padrona non gli metteva le mani addosso. Aveva urlato tutto il tempo che la serva era sua, aveva mangiato e dormito a sue spese, era ancora in debito con lei, e che la cosa non finiva lì.

«Verrà ancora a baciarmi le mani e implorarmi di riprenderla, vedrete!» gli aveva urlato dietro.

Trascorsero pochi giorni, e il prete fece chiamare Bianca.

«C’è ancora la tua padrona che vuole vederti» disse stancamente. Bianca scese diffidente, e trovò che madonna Faustina stavolta non era sola, l’accompagnava il signor Fabio.

«Oh, ecco la nostra Bianca» la accolse il giovane con calore inaspettato. «Di’ un po’, non è vero che torni con la tua padrona? Dimenticheremo tutto, e staremo allegramente.»

Bianca scosse la testa.

«No, signore, io lì non vengo più.»

«Peccato» disse l’uomo, smettendo di sorridere; e se ne andò senza una parola. Madonna Faustina invece rimase lì a parlare concitata con Bianca, giurando che d’ora in poi l’avrebbe trattata bene e non l’avrebbe più chiusa fuori di casa. Pre Anzolo ascoltava impassibile; c’era qualcosa in tutti quei discorsi che non lo convinceva, ma non avrebbe saputo dire cosa. Perché poi quella donna era venuta accompagnata, e perché l’uomo se n’era andato com’era venuto senza aver concluso nulla? No, pensò pre Anzolo, che in vita sua ne aveva vedute tante, questa faccenda non mi piace. Stava ancora rimuginando, quando guardò per caso dalla finestra ed esclamò, rivolgendosi a Bianca: «Scappa di sopra, presto!»

 

***