24.

La gravidanza andò avanti, e venne il momento in cui donna Clarice stava per partorire. Il suo ventre era così enorme che faticava a portarlo in giro, e passava la maggior parte del tempo a letto. Il bambino scalciava spesso, strappandole mugolìi di dolore, e vedendo la curva decisa e appuntita del ventre le donne avevano predetto concordi che stavolta sarebbe stato un maschio. Già da due settimane ser Lorenzo aveva abbandonato la camera da letto, trasferendosi in un’altra stanza del palazzo, e due levatrici dormivano tutte le notti accanto al letto di Clarice; di giorno, due cucitrici assunte apposta lavoravano a preparare biancheria nella stanza adiacente, aiutate da tutte le domestiche che avevano un momento libero. In un’altra stanza si accumulavano i paramenti, i nastri e le ghirlande da usare dopo il parto per adornare la camera nuziale e ricevere degnamente le visite; quando si alzava dal letto Clarice andava a controllare, approvava e scartava, aggiungeva nuovi ordini, faceva chiamare altri artigiani, per cui a palazzo Bernardo c’era un continuo movimento di gente. La piccola Francesca, che ormai camminava spedita e cominciava a farfugliare qualche parola, veniva ogni giorno a vedere sua madre, ma Clarice si stancava presto e la rimandava dalla balia, dopo averle regalato qualche nastro.

«Sono belli i bambini, ma faticosi» confidava. A Bianca, veramente, pareva che con la sua bambina la giovanissima mamma ci stesse ben poco; lei, per quanto si ricordava, nell’infanzia non si era staccata un momento dalle gonne di sua madre. Ma i padroni, si sa, intendono tutto a modo loro.

«E tu, come mai non ne hai avuti?» continuava Clarice facendosi aria col ventaglio. «Apri un po’ la finestra, che si soffoca!» comandò poi, benché fuori facesse freddo.

«Che farci! All’inizio Nostro Signore non ce ne ha mandati. Credevamo di avere tanto tempo!» rispose Bianca dopo aver socchiuso con cautela la finestra, i cui piccoli vetri tondi erano così fragili. Preferì tenere per sé che in quei primi mesi del loro matrimonio, quando credevano di avere tanto tempo davanti a sé, lei e Michele avevano fatto il possibile per non averne uno.

«A noi l’ha mandato subito, invece, per fortuna»

continuò Clarice. «Sai cosa dice ser Lorenzo?» ridacchiò. «Che a me, basta guardarmi perché rimanga pregna!»

Bianca arrossì, e andò ad aggiungere un ceppo nel camino.

«Se è davvero un maschio, sai chi sarà più contento di tutti? Il signor suocero» continuò Clarice. «Lui dice sempre che non ha più molto da vivere, e se vedrà nascere un erede morirà contento.»

«Si nasce e si muore, la vita è fatta così» commentò Bianca, ripetendo qualcosa che aveva sentito dire spesso da sua madre e da Zanetta.

«Sì» confermò Clarice. «Ohi!» gemette poi. «Ecco che si muove di nuovo.» Era impallidita, e Bianca si avvicinò in fretta al letto.

«Fa male?»

«Non so…» sussurrò Clarice, sofferente. «Le levatrici ci sono, vero?»

«Sono in cucina che mangiano» disse Bianca, con una punta di disprezzo. Le levatrici erano due donne mature, ben in carne, e da quando erano in casa non avevano fatto altro che bere e mangiare.

«Valle a chiamare» disse Clarice. «No, aspetta! Sta passando. Chiudi quella finestra, che entra solo l’umido. Che non possa trovare una posizione un po’ comoda!» protestò, agitandosi goffamente fra i cuscini. «Che supplizio! E

pensare che ci tocca passare metà della vita così!»

«Il bambino che viene, dovrebbe allattarlo lei» azzardò Bianca, esitante. «Finché si allatta, non ne viene un altro.

Mia mamma diceva che al suo paese li allattavano fino ai tre anni, così erano sicure di non farne troppi!»

Clarice la guardò con un sorriso di degnazione.

«Per noi nobili è diverso. È il nostro mestiere fare dei figli ai nostri mariti, e io voglio che mio marito sia orgoglioso di me. E poi, allattare imbruttisce, fa dimagrire e fa cadere i capelli! Non vuoi mica vedermi dimagrire, no?»

Subito dopo Bianca la vide impallidire di nuovo.

«Un’altra fitta? Io vado a chiamare le donne» disse.

«Aspetta ancora un momento» la trattenne Clarice. «

L’altra volta ho continuato così per settimane, prima che fosse la volta buona. Non le voglio intorno adesso, sono stanca.»

«Vuole dormire?»

Clarice scosse la testa.

«No, sono stanca anche di dormire. Ecco, adesso ho di nuovo caldo. È proprio impossibile! L’ultimo mese è il peggiore. Mia madre mi diceva che i peggiori erano i primi: lei, dice, vomitava sempre. Ma io non me ne sono quasi accorta, né l’altra volta né questa. Invece alla fine non ne puoi più. Con questa pancia che sembra un baule…»

Risero tutt’e due.

«Certo la signora è ingrossata proprio tanto» disse Bianca, prendendo confidenza.

«Cosa vuoi farci? Con la fame che ti viene! Non ho fatto altro che mangiare!»

A Bianca venne in mente più d’una donna che aveva conosciuto, che anche durante la gravidanza mangiava pane e basta, e non sempre a sazietà. Quelle donne lì, ricordò, non erano ingrossate così tanto.

«A proposito» disse Clarice. «Anche adesso ho fame. Va’

a Prendermi un po’ di zucchero e di frutta candita. E una coppa di vino di Cipro.»

Bianca scese in cucina. Mentre aspettava che il vassoio fosse pronto, una delle sguattere andò a parlare a una donna che era seduta vicino al fuoco insieme alle due levatrici e la indicò col dito. La donna la guardò, si alzò e le venne incontro sorridendo. Era alta e si muoveva con disinvoltura, come se fosse stata giovane, e solo quando fu vicina Bianca vide che aveva il volto grinzoso e i capelli pieni di fili bianchi.

«Sei tu la Bianca?»

«Sì, signora» rispose Bianca, abituata a trattare con rispetto le persone anziane. La donna rise.

«Tu non mi conosci, ma io ti conosco benissimo.

Conoscevo anche il tuo povero suocero. Mi chiamo Foscarina»

aggiunse. «Sta’ a sentire, che devo parlarti, sono venuta qui apposta stamattina.»

Bianca si appoggiò al muro e incrociò le mani. Con un’occhiata si era resa conto che il cantiniere non era ancora tornato col vino.

«Dite.»

«Prima di tutto voglio dirti quanto mi dispiace della tua disgrazia» cominciò la donna. Sapeva quel che era capitato a Matteo, sapeva che Michele era scomparso, e sapeva perfino che dopo la famosa lettera non aveva più dato notizia di sé.

«Io lo so cosa vuol dire restare sola, senza un uomo nel letto. Io da quando è mancato il mio, buonanima, non ho più dormito bene una notte.»

Bianca ascoltava stupita.

«Tu sei giovane, per te dev’essere anche peggio»

continuava la donna. «Ora, sta’ a sentire bene. C’è un giovanotto che ti ha vista in chiesa, è da molte domeniche che ti guarda. Forse te ne sarai accorta» insinuò.

Bianca scosse il capo.

«Oh! Te ne accorgerai, domenica prossima. Guarda nei banchi degli uomini, si siede sempre alla tua altezza, ha un farsetto color pavonazzo, e un po’ di barba rossa, ma corta.

Bello, sai? Se fossi giovane lo vorrei per me.»

Bianca divenne di fuoco.

«Io sono una donna sposata» disse, cogli occhi che brillavano. «Come osate venire a farmi di queste proposte?»

Foscarina non batté ciglio.

«Sei proprio sicura d’essere ancora una donna sposata? Con un uomo che è finito chissà dove e non si è più fatto vivo?»

«Lui torna» disse Bianca, ostinatamente.

«Vuoi crederci per forza? Contenta tu!» rise Foscarina.

«Ma comunque, stammi a sentire, domenica a messa cercalo quel giovanotto! Non ti faccio mica fretta, non ti chiedo altro. Guardalo bene, e poi io tornerò e mi dirai. Si chiama ser Giacomo, ha una bottega di speziale proprio qui vicino, a campo Sant’Aponal, è uno che sta bene, sai! E se vorrai, farà star bene anche te. Ciao, bella, ci vediamo presto.»

La donna le schioccò un bacio nell’aria e uscì, mentre Bianca, riscuotendosi, correva dal cantiniere che l’aspettava con aria di rimprovero.

Quella notte Bianca faticò ad addormentarsi. Contro la sua stessa volontà, continuava a ripensare alla donna e alla sua proposta. Finora si era aggrappata con tutte le forze all’attesa del ritorno di Michele, e non aveva voluto confessare neanche a se stessa che ormai faceva fatica a crederci. Era passato troppo tempo dall’arrivo di quell’unica lettera, a cui non ne era più seguita un’altra. La scoperta che la galera su cui era partito Michele era già ritornata da un pezzo a disarmare, e che lui non era più fra i galeotti, aveva tagliato l’ultimo filo che poteva ancora permetterle di immaginare dov’era e cosa faceva. Ormai era quasi un anno e mezzo che non lo vedeva, e il ricordo dei pochi mesi in cui erano vissuti insieme cominciava a sbiadire. La padrona le aveva promesso che l’avrebbe aiutata a ritrovarlo, addirittura a fargli togliere la condanna, ma anche da quelle promesse era passato tanto tempo, e Clarice, tutta assorbita dalla sua gravidanza, non ne aveva mai più parlato. Guai a fidarsi dei padroni, pensava Bianca, sbarrando gli occhi nella notte senza riuscire a prendere sonno…

La domenica Clarice volle andare a messa, benché per due giorni non si fosse alzata dal letto. Suo marito e il suocero cercarono di convincerla che era meglio non correre rischi, ma senza riuscirci.

«Ai miei tempi un gentiluomo poteva far venire il prete a dire messa in casa» borbottava ser Alvise, irritato.

«Ai vostri tempi si facevano tante cose che non andavano bene!» ribatté Lorenzo. «Oggi è proibito ed è giusto così.

Non è questo il punto! Il fatto è» proseguì rivolgendosi a Clarice, che lo guardava dal letto con aria di sfida, «che mi sono informato. Ho chiesto al mio confessore, e lui mi ha garantito che nel vostro stato non c’è, l’obbligo della messa.»

«Non lo metto in dubbio» rispose la donna, pallida, ma ostinata. «Ma questo putto in corpo ce l’ho io e sono io che devo tirarlo fuori, e può succedere da un giorno all’altro, e se prima che cominci voglio ancora sentir messa, non c’è nessuno che può impedirmelo.»

Alla fine i due uomini, esasperati, ottennero che si sentisse il parere delle levatrici, e uscirono, mentre le due donne si accostavano a Clarice e cominciavano a tastarla con dolcezza. Dopo che Clarice si fu ricoperta ser Alvise e ser Lorenzo vennero riammessi nella stanza, e le ostetriche dichiararono concordi che madonna poteva ancora andare in chiesa, purché fosse condotta là in portantina e poi tornasse subito a casa.

Bianca aveva atteso la domenica in un tumulto di sentimenti contraddittori. L’irritazione che le aveva provocato la sfacciataggine dell’intermediaria non si era ancora dissipata; andrò in chiesa e guarderò fisso davanti a me, si diceva con orgoglio. Ma al tempo stesso sapere che da chissà quanto tempo un uomo, durante la messa, la guardava desiderandola suscitava la sua curiosità. Certo, lei era sposata a Michele, e non aveva il diritto di farsi guardare da un altro uomo. Ma chissà dov’è lui, pensò tristemente, e chissà con chi. Se mi volesse bene, il modo di farsi vivo l’avrebbe trovato. Coll’avvicinarsi della domenica, divennero sempre più forti l’idea che comunque non c’era niente di male in un uomo che la guardava, e la curiosità di vedere che faccia aveva. Quel mattino fu così sbadata nel vestire e pettinare la padrona che si prese un brusco rimprovero.

La chiesa di San Polo era piena di gente, e Bianca, che ad onta di tutti i buoni propositi si guardava intorno di sottecchi temette di non riuscire a individuare l’uomo. Per fortuna Clarice si fece sostenere da lei avanzando nella navata centrale, entrò per prima nel banco dei Bernardo e le fece cenno di sedersi accanto a lei, così che Bianca venne a trovarsi nella posizione migliore, la più vicina ai banchi degli uomini. Non voleva guardare troppo sfacciatamente dalla loro parte, per paura che la padrona se ne accorgesse, ma appena riuscì a lanciare un’occhiata trasalì, perché lì c’era davvero un uomo con una corta barbetta rossa, vestito d’un farsetto di velluto color pavonazzo, che la fissava.

Bianca provò un inspiegabile sentimento di trionfo, e lottò per tutto il tempo della messa per non tornare a girarsi; si sentiva addosso gli occhi dell’uomo come se la stesse toccando. In compenso non sentì nemmeno una parola della messa, e a mala pena si accorse, vedendo che tutti si alzavano, che era finita ed era ora di ritornare a casa. Clarice volle attendere che la maggior parte dei fedeli fosse sfollata, e quando si avviarono all’uscita della chiesa era rimasto solo qualche individuo isolato. L’uomo dalla barbetta rossa era vicino alla porta; quando le due donne gli passarono accanto, si accostò a Bianca come se volesse accodarsi per uscire, si chinò velocemente al suo orecchio e sussurrò: «Sei bellissima, sai?»

Poi sparì, mentre Bianca per poco non inciampava facendo cadere la padrona.

Tre giorni dopo Foscarina si presentò a palazzo Bernardo, e fermò Bianca sulle scale mentre saliva dalla padrona con l’acqua calda per lavarsi.

«Lui ti manda a dire che è innamorato di te» le disse cogli occhi ridenti. «Ora che vi siete parlati non ha più nessun dubbio

«Ma non ci siamo parlati!» disse subito Bianca. «Io non gli ho parlato affatto» aggiunse. La donna, però, si accorse benissimo che quella frase non era stata detta con troppa energia.

«Gli parlerai la prossima volta» disse con malizia.

«Aspetta!» esclamò, vedendo che Bianca, impaziente, voleva salire prima che l’acqua si raffreddasse; e la trattenne per un braccio. «Ser Giacomo ti manda questo» disse, traendo dal seno un fagottino. «Voleva regalarti un anello, ma io gli ho detto che era meglio di no, la tua padrona, cara mia, è una che vede tutto, io la conosco: se ti trova con un anello nuovo al dito se ne accorge subito. Gli ho detto che era molto meglio così. Su, apri la mano!»

Bianca voleva rifiutare, ma anche stavolta la curiosità fu più forte di lei, e obbedì. La donna svolse il fagottino, che era poi un fazzoletto di seta ricamata, e le lasciò cadere in mano una catenina d’oro. Bianca sbarrò gli occhi.

«Hai visto che fa sul serio? Con quello lì hai trovato la tua fortuna, cara mia!» continuava allegramente Foscarina, mentre con pochi gesti riavvolgeva la catenina nel fazzoletto e lo infilava in seno alla giovane. «Solo portala sotto la camicia, che la tua signora non la veda!»

«Ora devo andare» disse Bianca, confusa. Per fortuna sapeva che la padrona stava aspettando l’acqua calda con impazienza.

«Vai, bella, vai» l’incoraggiò la donna. «E aspettami, che uno di questi giorni torno, e parliamo un po’ più comode, va bene?»

Bianca scappò via e salì di corsa le scale. Madonna Clarice l’attendeva seduta sulla sponda del letto, mezzo spogliata, e si contemplava la gran pancia. Bianca era rossa in viso mentre versava l’acqua nella bacinella, ma per una volta la padrona non si accorse del suo turbamento.

«Scalcia» sussurrò. «Vuole uscire. Fra un po’

comincerà a spingere.»

Sembrava così tenera, spaventata e indifesa che Bianca si stupì. Mentre le porgeva l’asciugamano mormorò: «Stia tranquilla, Maria Vergine l’aiuterà, andrà tutto bene.»

Clarice si fece il segno di croce, subito imitata da Bianca.

«Prego tanto che stavolta non faccia più così male» disse, tentando di sorridere. Bianca non sapeva come comportarsi; aveva già visto altre volte che Clarice non s’imbarazzava affatto a darle confidenza, e le sarebbe piaciuto venirle incontro, ma le avevano insegnato che a praticare coi padroni non ci si guadagna mai, e non riusciva ad essere spontanea.

«Fa tanto male?» chiese, senza guardarla. «Mia madre diceva che non è vero, che non bisogna avere paura, che fa un po’ male ma si può farcela benissimo, e quando è tutto finito il male non te lo ricordi più.»

«Anche la mia mi diceva così» annuì Clarice. «Credo che le madri dicano sempre così alle figlie. E sai una cosa?

Anch’io dirò così a Francesca. Non è bene che una sposa sappia già com’è davvero.»

«E così terribile?» chiese Bianca, impaurita.

«Credevo di morire. È durato un giorno e una notte, e tutto il tempo credevo di morire. Gridavo chiedendo alla Vergine e al buon Dio di prendermi subito e finirla.»

Clarice vide che Bianca era impallidita, e le prese la mano.

«Ma tu non ti spaventare, eh? Io avrò bisogno anche di te, e tu devi tenere i piedi per terra, quando sarà il momento.

Che farci? Siamo donne e ci tocca. Se i nostri mariti potessero vederci in quei momenti, credo che sverrebbero, loro che sanno sempre tutto e hanno una risposta per tutto. Ma noi dobbiamo tirarla fino in fondo senza svenire, hai capito bene, Bianca?»

«Sì, signora» annuì la giovane, deglutendo.

«Oh, peste!»

L’imprecazione uscì dalla bocca di Clarice così sonora che Bianca si voltò stupita a guardarla.

«Si è rotto» disse Clarice, irritata; e le mostrò un orecchino.

«Oh, che peccato!» esclamò Bianca, con partecipazione.

Erano gli orecchini più belli, quelli che ser Lorenzo le aveva regalato quando era nata la bambina, e che Clarice avrebbe indossato per ricevere le visite dopo il parto che si avvicinava.

«Bisogna farli aggiustare subito» decise la padrona.

«Chiamo qualcuno?» chiese Bianca. Clarice si morse le labbra.

«Mi secca che lo sappiano tutte. Sono capaci di pensare che è un cattivo augurio. Sta’ a sentire, lo sai dov’è la bottega del mio oréfice? La calle che va a San Stae, proprio al Ponte. Va’ tu. Chiedi di ser Vincenzo, gli dici che vieni da parte mia, e che li deve aggiustare subito, e aspetti lì e li riporti.»

«Sissignora» disse Bianca; e tirò fuori il fazzoletto che aveva avvolto la catenina, per impacchettarvi gli orecchini «Che bel fazzoletto!» si stupì Clarice.

«Davvero? È un ricordo» balbettò Bianca, facendoselo sparire in seno. Si era già accorta che il fazzoletto, d’un lavoro finissimo, doveva essere costato molto caro, e si diede della stupida per averlo tirato fuori.

«Vado, signora» disse, cercando di darsi un contegno «Bianca, sta’ attenta a quegli orecchini, sai?» l’avvertì Clarice; e la congedò.

Fu così che Bianca, che non usciva mai di casa se non per accompagnare la padrona o, sempre più di rado, andare a trovare Zanetta, si ritrovò all’improvviso sola per la strada. Non aveva ancora chiuso la porta quando le tornarono in mente le parole di Foscarina: ha una bottega di speziale a Sant’Aponal. Per andare a San Stae, a dire la verità, non c’era bisogno di passare di lì, ma si trattava solo di allungare un pochettino. La curiosità era così forte che i piedi la portarono da soli in quella direzione, senza che l’avesse nemmeno deciso. Arrivata al rio Sant’Aponal, cominciò a guardarsi intorno, e poiché non si ritrovava, chiese a un vecchio se sapeva della bottega di ser Giacomo speziale.

«Prendi il sottoportico qui, quando esci va’ a sinistra, trovi un forno, proprio davanti c’è lo speziale» disse il vecchio.

Bianca attraversò in fretta il sottoportico buio e fangoso.

Nella calle in cui sbucò aleggiava il profumo del pane. Si accostò alla porta della bottega, e sbirciò all’interno. Lui era lì, vestito di nero stavolta, con una cappa sulle spalle, per il freddo, e stava sistemando dei vasi su una scansia, insieme a un apprendista. Il locale era senza finestre, e alla poca luce che entrava dalla porta si aggiungeva quella d’una lampada ad olio appesa ai travi del soffitto. I due uomini lavoravano e si vedeva il loro fiato che si condensava nell’aria. A un certo punto ser Giacomo si voltò verso la porta, e Bianca fece un rapido passo indietro; non voleva che lui sapesse che la curiosità l’aveva tirata fin lì. Poi lo sentì dare ordini all’apprendista, con voce pacata, e si sporse ancora un poco, per vedere meglio.

«Ma che freddo che fa!» disse ser Giacomo, «Va’ un po’

a chiudere la porta, se viene qualcuno busserà!»

Bianca fece un salto indietro, si voltò e si avviò a passettini rapidi in direzione di San Stae, col cuore che batteva forte.

Foscarina fu di parola. Non erano passati tre giorni, e Bianca se la trovò davanti in cucina, dove era scesa a mangiare, dopo aver servito la cena a madonna Clarice, che non lasciava più il letto. La donna era in buoni rapporti con le sguattere, che erano abituate a vederla circolare per casa, e anche a riceverne qualche regalino; sapevano benissimo perché era lì, e avevano cominciato a spettegolare dietro le spalle di Bianca, curiose di vedere come sarebbe andata a finire.

«Vieni! Siediti qua» le disse la donna, seduta sul gradino del camino, con un piatto di minestra sulle ginocchia.

Bianca, combattuta, si guardò intorno; nessuno, apparentemente, faceva caso a lei. Si avvicinò alla donna, restando in piedi, e cominciò a sorbire rumorosamente la sua zuppa, attendendo quel che sarebbe accaduto.

«Ecco, guarda» disse Foscarina, quando ebbe finito di mangiare; e tirò fuori un altro fagottino. Erano cinque fazzolettini di seta.

«Questi sono i compagni di quello che hai già. Te li manda ser Giacomo in pegno. Ma adesso» continuò abbassando la voce e mettendole una mano sulla spalla, «devi mandarglielo anche tu, un pegno.»

«E perché?» s’irrigidì Bianca.

Foscarina la guardò seriamente.

«La catenina però l’hai presa» sussurrò.

Eh, pensò Bianca, me l’avete messa in mano! Però, l’idea di un uomo che la desiderava tanto da mandarle dei regali cosi non le dispiaceva davvero. Già quel poco oro, per una come lei, era una piccola fortuna. E se ne fosse arrivato altro? E dietro all’oro - un uomo, un uomo a cui attaccarsi nel momento del bisogno. Devo pur pensare un po’ a me stessa, si giustificò.

«Non ti chiedo mica niente di difficile» stava proseguendo Foscarina. «Un pegno, tutto qui.»

«E cosa gli mando?» sussurrò Bianca. Foscarina sorrise «Una delle tue giarrettiere andrà benissimo. Ora tu vai a prenderne una nel tuo baule e me la porti giù, mentre io mi scaldo ancora un po’ qui vicino al fuoco. Fuori piove sai? Ne ho già presa un bel po’ di pioggia per te, meno male che ne vale la pena!»

Mentre saliva le scale, Bianca aveva il cuore in gola.

Sapeva benissimo che quello era un passo che non avrebbe più potuto ritrattare, e una parte di lei avrebbe voluto tornare indietro, dire in faccia alla donna che non se ne faceva niente, restituirle la catenina e i fazzoletti. Ma un’altra parte era dominata dalla voglia di andare incontro a quest’uomo che era disposto a darsi tanto da fare per lei; quest’uomo vivo, in carne e ossa, che era lì, a Venezia, a due passi da lei, e che pensava a lei continuamente…

Nel baule cercò una giarrettiera di nastro nero, la appallottolò nel pugno, tornò giù e la mise in mano alla donna.

Foscarina l’accettò con un largo sorriso.

«Brava la mia Bianca! Ora ascolta, io vado subito a portargliela. Non sai come sarà felice. Ti vuol bene davvero.

Ed è inutile che io torni qui un’altra volta, a perdere tempo. Mettiamoci d’accordo subito. Sai dove abita lui?

Proprio qui dietro, nella calle grande che va a Sant’Aponal, quella dove c’è il forno.»

Bianca si guardò bene dal dire che lo sapeva eccome.

«Lì accanto c’è la bottega, e lui abita al piano di sopra»

continuò la donna. «Tu stasera chiedi alla padrona se domani ti lascia due ore per andare a trovare tua suocera all’ospedale. È un po’ che non ci vai, non è vero?»

Bianca ci rimase male. Era vero, Clarice aveva continuamente bisogno di lei e non la lasciava uscire volentieri, e Zanetta era sempre più svanita: l’ultima volta che era stata a San Giovanni e Paolo l’aveva riconosciuta appena. Bianca se ne vergognava un po’, ma non aveva più tanta voglia di andarla a trovare. Non disse nulla e chinò il capo.

«Allora, tu dirai alla tua padrona che prima che nasca il bambino vorresti andarci ancora una volta, che poi lo sai bene che ci sarà troppo da fare, e lei ti lascerà andare domani o dopodomani; e quando esci dici a tutti che vai a trovare tua suocera, e invece vai in bottega da ser Giacomo, e tutto andrà molto bene, vedrai.»

Bianca tacque un istante, poi decise di buttarsi.

«Va bene» bisbigliò.

«Brava bambina! E sii gentile con lui, mi raccomando. È

un uomo d’oro. Ti farà felice. Ma fra noi donne non c’è bisogno che ti insegni certe cose, vero?»

L’indomani Bianca, senza osare guardare la padrona in faccia, le chiese il permesso di andare una volta a trovare la suocera. Clarice si accorse benissimo del suo imbarazzo, ma sebbene fosse abituata a leggere nell’animo delle sue donne, stavolta la fraintese: pensò che avesse paura d’essere rimproverata, visto che voleva allontanarsi da casa nell’imminenza del parto.

«Vacci pure, è giusto» decise. «Ma vacci subito. Domattina.»

Così Bianca l’indomani si alzò più presto del solito, sbrigò tutto il lavoro che potè, poi all’ora in cui aprono le botteghe si mise una camicia pulita e l’abito buono, si fece il segno di croce e uscì.

 

***