14.

L’indomani Bianca si svegliò con il mal di gola, la tosse e il naso che colava. Si alzò lo stesso all’alba per andare al lavatoio, ma mentre si vestiva sentì all’improvviso che le mancavano le forze.

«Resta a casa, ti do io da cucire un po’» le propose Margherita.

«Vieni con me piuttosto» disse la mendicante, che era già pronta a uscire.

«Ma vuoi farla crepare?» intervenne Camilla, che si stava pettinando i lunghi capelli. La mendicante la guardò con disprezzo.

«Non può lavorare» disse. «Siete voi che volete che crepi di fame. Se viene con me, tutto quello che deve fare è sedersi lì, e oggi non fa freddo.»

La vedova guardò Bianca, che tremava di febbre.

«Sta’ a casa» insistè. Ma Bianca scosse il capo.

«Come faccio? Devo guadagnare» balbettò.

«Ma di soldi ne hai ancora, quelli che ti ha dato l’ebrea non saranno mica finiti, no?, e ieri guarda un po’ quanti ne hai portati a casa!»

«No» ripetè Bianca, ostinata. «Non bastano mai, io non voglio morire di fame.»

«Guarda che qui non ti lasciamo morire di fame»

disse Camilla; ma sua madre le lanciò un’occhiata, e la donna si azzittì.

«Fai come vuoi» concluse la vedova, brusca. «Certo che se riesci a guadagnarti il pane è meglio.»

La mendicante ebbe un sorriso di trionfo.

«Quelle lì mi fanno ridere» disse più tardi a Bianca, mentre camminavano con i bambini per mano, svelte, per non sentire il gelo mattutino. «Si cavano gli occhi a cucire, si ammazzano a lavorare, e alla fine abbiamo più da mangiare noi di loro. Va là che hai fatto bene a metterti con me.»

Da quella volta Bianca andò regolarmente a mendicare con la donna e i due bambini. La febbre e la tosse le durarono qualche giorno, ma poi guarì, e si accorse d’essersi abituata in fretta a quella vita: non sentiva più tanto né il freddo né l’umido, i piedi non pativano più come i primi giorni il duro del selciato. Si abituò anche a non lavarsi più la faccia ogni mattina, come aveva fatto per tutta la vita, a non pettinarsi più i capelli in tutti i momenti liberi, a non preoccuparsi se la camicia o la gonna avevano una macchia o uno strappo. Imparò a porgere la mano con gli occhi bassi o ad allungarla sfacciatamente a seconda di chi le passava davanti, e il tono giusto per ringraziare a seconda che la monetina venisse da un uomo o una donna, un giovane o un vecchio. In casa, ormai, viveva con Chiara e i due bambini, mangiava e dormiva con loro e scambiava solo qualche parola con Margherita, Camilla e Lucrezia.

Un giorno, mentre tornavano dopo aver mangiato la zuppa distribuita ai Celestini, s’imbattè nel senatore Lippomano. Gli si accostò subito, tendendo la mano: «La carità, illustrissimo!»

Lippomano passò oltre senza nemmeno guardarla.

Bianca, senza sapere neppur lei perché, gli corse dietro.

«La carità! Mio marito lavorava per vostra signoria!»

Il senatore stavolta la guardò. Tutto quel che vide fu una mendicante sudicia e stracciata, mezzo discinta, con un sorriso servile e ambiguo.

«Ma va’ via, pitocca!» borbottò; e proseguì. Chiara, stupefatta, faceva segno di andar via; ma Bianca, follemente, afferrò il patrizio per la falda del mantello.

«La carità!»

Stavolta Lippomano alzò il bastone e la colpì.

«Va’ via, o ti faccio arrestare! Vergogna!» esclamò.

Bianca scivolò e cadde nel fango.

«Maledetto! È vero che chi serve i signori muore all’ospedale!» strillò, mentre i bambini si mettevano a piangere e Chiara la rialzava a forza e la trascinava via.

«Ma sei impazzita?» la rimproverò.

«Sì!» esclamò Bianca, e scoppiò a piangere anche lei. «Sì, sono impazzita, non ce la faccio più!» ripeteva fra i singhiozzi, mentre zoppicava verso casa. «Lasciami andare, che mi butto nel canale!» gridò a un certo punto, mentre attraversavano un ponte. Chiara la afferrò ancora più strettamente per il braccio.

«Sta’ brava!»

«No, lasciami andare, voglio farla finita, non ce la faccio più con questa vita!»

Stavolta Chiara la guardò infastidita.

«Bella mia, vattene pure a farne un’altra, se questa non ti piace. Ma non buttarti nel canale, hai capito? Su»

aggiunse poi, addolcendosi, «scommetto che devono venirti le tue cose, è tutto lì. Passa, vedrai.»

Quando arrivarono a casa, Bianca piangeva ancora silenziosamente. Camilla, sentendole entrare, venne loro incontro con una faccia tutta ridente, ma appena le vide si bloccò e mutò espressione.

«Ma cosa c’è?»

«Niente» disse Chiara.

«Come niente? Non vedi com’è ridotta?»

Bianca, col viso ancora rigato dalle lacrime, cercò di parlare, ma i singhiozzi glielo impedirono. La vedova, accorsa, l’abbracciò.

«Ma su, ma su, bambina, passa tutto. Cos’è successo?»

chiese alla mendicante.

«E che ne so! Un signore per levarsela di dosso le ha dato una botta, e lei non ha più smesso di piangere.»

«Ma ti ha fatto male? Dove ti ha presa?» chiese la vedova allarmata. Bianca scosse la testa.

«No» singhiozzò. «È che non lo sopporto più, non lo sopporto più, mi vergogno tanto.»

«Lo sapevo» disse Camilla; e sia lei sia la madre guardarono Chiara con rimprovero.

«Oh, arrangiatevi un po’!» gridò la donna; e afferrati i suoi marmocchi si ritirò nel suo angolo.

Margherita e Camilla si sforzarono di calmare Bianca.

«Su, su! E pensare che ti aspettavamo perché dovevamo dirti una cosa bellissima!»

«E cosa?» singhiozzò Bianca.

«Se non smetti di piangere non te lo dico» stabilì astutamente la vedova. Bianca si asciugò gli occhi, e tirando su col naso attese.

«Ha mandato a dire tua suocera di andare subito da lei, che è arrivata una lettera di tuo marito.»

«Cosa?» Bianca sussultò, incredula.

«Sì! E ti aspetta per leggerla.»

A Bianca girava la testa. Una lettera di Michele! Ma dunque era vero che non era morto, e nemmeno sparito per sempre: c’era ancora, pensava a lei, e forse le scriveva che stava per tornare!

«Vado subito» esclamò.

La vedova la squadrò con occhio critico.

«Così? Ma ti rendi conto in che stato sei? L’ammazzi, a quella poverina, se ti vede così!»

In cuor suo Bianca aveva sempre saputo d’essersi lasciata andare, e provava una specie di perversa soddisfazione a presentarsi nel modo peggiore, stracciata e pidocchiosa, in faccia al mondo che l’aveva ridotta così. Davanti agli sconosciuti era addirittura spavalda. Davanti alle altre donne di casa si vergognava un po’, ma le bastava starsene nel suo angolo con la mendicante e i suoi bambini, e non pensarci. Ma davanti a Zanetta non avrebbe mai osato presentarsi così, e infatti da mesi non andava a trovarla.

«Cosa faccio?» disse.

«Vieni qua, che ti rimettiamo un po’ a posto. Ce l’hai ancora una camicia pulita?»

Bianca fece segno di sì.

«Su allora. Prepara la tinozza e metti un po’ d’acqua sul fuoco» ordinò la vedova alla figlia. «Tu intanto vieni qui»

ordinò a Bianca, sedendosi sul letto. Bianca andò ad accovacciarsi ai suoi piedi, e la vedova cominciò pazientemente a pettinarla, districandole i capelli appiccicosi e schiacciando di tanto in tanto un pidocchio con le unghie. Continuò finché Camilla non ebbe trascinato in mezzo al pavimento la tinozza di stagno, versandovi una pentola d’acqua bollente e una d’acqua fredda.

«Su, spogliati» ordinò la vedova; e quando Bianca, nuda, fu entrata nell’acqua cominciò a sfregarla vigorosamente.

Poi l’asciugò con uno strofinaccio pulito.

«Adesso sembri una principessa. Vestiti, e corri.»

Poco dopo Bianca, ansante, arrivava alla piazza di San Giovanni e Paolo. Per correre meglio s’era tolta le scarpe, e si appoggiò al piedistallo del monumento per infilarle, prima di andare a bussare al portone dei Derelitti.

L’inserviente che le aprì le disse che Zanetta l’attendeva in camerata; durante l’inverno la sua salute non era stata buona, e la vecchia non si alzava quasi più dal letto. Bianca corse su per le scale e arrivò allo stanzone dov’erano allineati i letti delle ricoverate. Zanetta, smagrita, con i cernecchi bianchi che sporgevano disordinati dalla cuffia, era circondata da cinque o sei donne, una delle quali si alzò vedendo arrivare Bianca, le andò incontro e l’abbracciò. Bianca riconobbe un’antica vicina di casa, e rispose all’abbraccio, anche se non sapeva perché; poi andò a baciare Zanetta. La vecchia rise riconoscendola e tirò fuori da sotto il guanciale la lettera.

«E’ Caterina che devi ringraziare» disse, additando la vicina. Venne fuori che la lettera di Michele era arrivata già parecchio tempo prima, e il corriere, trovando la casa serrata, aveva bussato ai vicini; poiché era venuto fin lì, gli seccava andar via senza farsi pagare. I primi a cui si era rivolto gli avevano chiuso la porta in faccia; nessuno aveva voglia di tirar fuori dei soldi per ritirare una lettera indirizzata a gente che era andata via di lì da un pezzo e che non si sarebbe mai più fatta vedere. Ma Caterina era stata molto amica di Zanetta e una volta era anche andata a trovarla all’ospedale; per caso si trovava qualche moneta nella borsa, e in un impulso di generosità aveva pagato e ritirato la lettera.

Prima di poterla consegnare, però, s’era ammalata, ed era rimasta diversi mesi inchiodata a letto, fra la vita e la morte.

«Ma io sono di pasta dura!» disse orgogliosamente, ridendo con la bocca sdentata. «Ora son di nuovo in piedi, ed eccomi qui!»

Al suo arrivo, pre Anzolo aveva aperto e letto la lettera, e soltanto dopo avevano mandato un ragazzino a cercare Bianca. Cogli occhi splendenti la giovane si rigirava fra le mani il foglio, coperto di quei segnetti così minuti che a lei parevano tante ragnatele e non le dicevano nulla.

«Ma davvero l’ha scritta Michele?» chiese infine.

«Gliel’hanno scritta» spiegò Zanetta.

«E cosa dice?» Fino a quel momento era stata così contenta che non aveva neanche pensato di chiederlo. Le donne si agitarono e volevano andare a chiamare il prete, ma Zanetta le fermò: l’aveva imparata a memoria.

«Moglie mia carissima» cominciò, «ti scrivo per dirti che sono in porto di Corfù sulla galera Loredana.»

Ma allora è vero, pensò Bianca, con un sussulto. Si è imbarcato, è in mare! L’incantesimo non ha mentito!

«Lo sapevo!» esclamò, non riuscendo a trattenersi.

Zanetta, stupita, s’interruppe, e Bianca raccontò precipitosamente la magia che le aveva insegnato la vedova, e la visione che aveva avuto. Tutte le vecchie la ascoltavano affascinate, e poi si fecero il segno di croce.

«Non dirlo a pre Anzolo» disse Zanetta. «Lo sai come sono i preti, le visioni non gli piacciono», e le altre annuirono con aria pensosa. Ma Bianca non l’ascoltava già più.

«Corfù! E dov’è questa Corfù?»

«Dice pre Anzolo che è un’isola sulla rotta del Levante»

la informò Zanetta, soddisfatta di mostrare il suo sapere.

«Ma sta’ a sentire il resto!» E continuò a recitare a memoria la lettera, che d’altra parte era brevissima. Sentendo che Michele scriveva di rispondergli indirizzando la lettera a Candia, Bianca si mise di nuovo in agitazione.

«Ma bisogna scrivergli! Chissà come starà aspettando!

Chiediamo a pre Anzolo di scrivere, non dirà mica di no, eh?»

«Ora pre Anzolo non c’è» rispose Zanetta. «Ma quando torna glielo chiediamo. E comunque senti la cosa più importante, Michele dice che a novembre torna!»

Bianca si sentì rimescolare tutta, e un calore meraviglioso le riempì il corpo. Michele che tornava! Scrivergli, che un istante prima le era sembrato urgentissimo, di colpo pareva meno importante, giacché in ogni caso di lì a pochi mesi lo avrebbe avuto fra le braccia in carne e ossa. Poi, però, le venne un pensiero improvviso, e si sentì gelare.

«Ma come torna? Se l’hanno bandito! Non può mica tornare, lo arrestano!»

Zanetta spalancò gli occhi, e le altre donne con lei.

Nell’entusiasmo per l’arrivo della lettera, non ci avevano pensato.

«È vero» riconobbe Zanetta, preoccupata. «Ma come mai non ci ha pensato?»

«È possibile che quando ha scritto non lo sapesse ancora?»

«Già, e quando ha scritto?» chiese Bianca, che finora non aveva badato a quel dettaglio. Zanetta si grattò la testa.

«Non me lo ricordo» confessò. La carta passò di mano in mano, e tutte aguzzarono gli occhi per cercare di decifrare la data; ma siccome nessuna sapeva leggere, non ne vennero a capo.

«È inutile, bisogna aspettare pre Anzolo» concluse una delle vecchie.

«Ma non c’è uno scrivano?» chiese Bianca, che adesso aveva fretta. Le vecchie si guardarono.

«C’è sior Giacomo, al magazzino. Va’ a cercarlo. Devi attraversare il cortile, e scendere la scala in fondo.»

Bianca afferrò la lettera e si alzò.

«Vado subito. Scusatemi!», e corse via. Pochi minuti dopo sior Giacomo, uno scrivano anziano, con una gran verruca sulla fronte e l’alito cattivo, era chino sul foglio spiegato e mostrava a Bianca col dito il rigo della data.

«Vedi qua? 16 agosto 1588. Questa lettera è dell’anno scorso.»

«E adesso siamo a Pasqua!» si spaventò Bianca. «Ma allora e già tornato? Maria Vergine, l’avranno arrestato, e noi non abbiamo saputo nulla!»

Il vecchio la guardò senza capire. Bianca stava per correre via, ma poi pensò che quello che le serviva più di tutto era il consiglio di un uomo, e di un uomo che sapeva leggere: fra lei e tutte le altre donne, pensò, non avrebbero concluso niente. Perciò raccontò tutta la storia. Sior Giacomo la ascoltava con gli occhi socchiusi.

«Già!» disse alla fine. «Hm! Non è una bella storia! Se è tornato, a quest’ora è in prigione di sicuro, se non l’hanno già impiccato.»

«Impiccato? Maria Vergine aiutami!» esclamò Bianca, impallidendo. Soddisfatto, il vecchio allungò una mano e l’accarezzò sulla guancia.

«Ma non credo che sia andata così, vi avrebbero convocate, te e tua suocera. Bisogna vedere cos’è successo: magari la galera non è tornata a Venezia, e ha disarmato in un altro porto. Oppure è tornata, ma lui non c’era più.»

«E come si fa a saperlo?» chiese Bianca, ansiosamente.

«Bisogna andare a vedere i registri» spiegò lo scrivano.

«Soldi ne hai?»

Bianca arrossì, e disse di no. Il vecchio scosse il capo.

«Allora, figlia mia, non si fa niente. I registri non te li fanno mica vedere così come se niente fosse. Bisogna andare da un avvocato e presentare un’istanza, che ne so, per il recupero della tua dote, per esempio. Allora hai il diritto di andare a vedere i registri, per capire dov’è finito tuo marito.»

Bianca si disperò.

«Ma io come faccio?»

Il vecchio si concentrò.

«Oppure» disse alla fine, «si può provare a chiedere.

All’Arsenale ci sarà di sicuro qualcuno che era imbarcato sulla Loredana, se è tornata.»

«Andrò a chiedere» decise Bianca, riprendendosi.

Ringraziò il vecchio e tornò al camerone, dove Zanetta e le altre donne l’attendevano agitatissime.

«La lettera è dell’agosto scorso!» annunciò; e ripetè tutto quello che le aveva detto sior Giacomo. Le donne commentavano con stupore.

«Se fosse tornato» ragionò ad alta voce Zanetta «

sarebbe venuto a casa, no?»

«Ma se all’arrivo l’hanno arrestato?» si disperò Bianca.

«In quel caso avrebbe scritto dalla prigione. E se lo processavano, mandavano a chiamare anche noi di sicuro. No, ha ragione sior Giacomo, o non è mai tornato, oppure all’arrivo ha scoperto che era condannato e si è subito reimbarcato su un’altra nave.»

Bianca considerò la cosa con attenzione.

«Già, dev’essere così» ammise. «Ma perché non ha più scritto?»

«E come lo sai che non ha più scritto?» obiettò Zanetta. «Magari ha scritto eccome, ma la lettera non l’ha ritirata nessuno!»

«È vero» riconobbe Bianca. «Se non era per Caterina, anche questa lettera qui non l’avremmo mai ricevuta.»

Tutte tacquero. A quanto pareva, erano arrivate a un punto morto. Michele si era imbarcato ed era vivo quando aveva scritto la lettera da Corfù, ma era passato quasi un anno, e cosa gli fosse accaduto nel frattempo era impossibile saperlo.

Non sapevano dove fosse, e lui non sapeva dov’erano loro.

Uscendo dall’ospedale, Bianca si portò via la lettera.

Zanetta se ne separava malvolentieri, ma non potè negare che era indirizzata a Bianca, e la giovane insistè. S’infilò in seno il foglietto ripiegato, e s’incamminò verso Ca’ Trevisan. La stanchezza e l’eccitazione per quella giornata straordinaria si combattevano dentro di lei, facendole sentire ora le gambe molli, ora una voglia confusa di darsi ancora da fare, di non andare a dormire senza aver concluso qualcosa.

Andare all’Arsenale a informarsi? Ma non sapeva neppure da che parte cominciare, e poi il vespro era già suonato, laggiù non avrebbe più trovato nessuno. Cercare uno scrivano per mandare subito una lettera a Michele? Ma non aveva un soldo, era giocoforza aspettare che tornasse pre Anzolo. Già, appunto: non aveva un soldo. Domani bisogna andare a lavorare, si disse; e non a mendicare, no, proprio a lavorare, che se Michele torna non può mica trovarmi seduta colla mano tesa sui gradini di Santa Maria Formosa!

Così l’indomani Bianca informò Chiara che non voleva Più andare con lei.

«Lo sapevo!» disse la mendicante. «Cosa credi, che tuo marito da laggiù lo veda cosa stai facendo? È meglio se quando arriva gli fai trovare un po’ di soldi, credi a me, e non ti chiederà certo come li hai guadagnati! Se invece di soldi non ne trova, allora son botte, vedrai!»

Discussero a lungo, ma Bianca era irremovibile, e le altre donne le diedero ragione; perciò Chiara alla fine alzò le spalle, prese i suoi due bambini e se ne andò. Bianca afferrò la sporta e uscì, e cominciò a fare il giro delle case per cui in passato aveva lavato. Ma si accorse subito che non sarebbe stato facile riprendere a lavorare: dappertutto altre lavandaie avevano preso il suo posto. Alla terza o quarta casa in cui la domestica che le apriva, la conoscesse o no, rispondeva scuotendo il capo alla sua richiesta, Bianca cominciò a scoraggiarsi. Aveva dormito male, sognando e svegliandosi continuamente, mentre accanto a lei Chiara russava; e si sentiva le ossa rotte. Come faccio, pensò tristemente. Mi toccherà tornare a Santa Maria Formosa…

«Ma tu non sei Bianca?» disse una voce dietro di lei. Un passante che l’aveva incrociata s’era fermato a fissarla, e ora la chiamava. Bianca si volse e lo riconobbe.

«Sior Nicolò! Sì, sono io!»

Era il sensale che appena un anno prima aveva combinato il suo matrimonio con Michele. Piccolo di statura, addirittura più piccolo di lei, con due occhietti astuti e una barbetta grigia, la guardava con allegria mista a stupore. La ragazzina che ricordava era molto cambiata. Il matrimonio le sciupa in fretta, pensò.

«Sei proprio diventata una donna, da allora! Scommetto che hai già scodellato un bambino a tuo marito» scherzò, cercando di metterla sul ridere. Ma Bianca smise di sorridere, e l’uomo se ne accorse subito.

«Ma che c’è?»

In poche parole Bianca gli raccontò la sua storia. Dal giorno prima pareva che non facesse altro che raccontarla, dopo tanti mesi in cui se l’era tenuta dentro come un segreto inconfessabile.

«Adesso cerco lavoro, ma non lo sto trovando» concluse a occhi bassi. L’uomo si lisciò la barbetta, osservandola attentamente. Era pulita, e ancora graziosa nonostante la fatica e la malnutrizione avessero cominciato a segnarle il viso. Se l’avesse incontrata due giorni prima, sporca e stracciata com’era, non si sarebbe neppure fermato. «Non sia mai detto che lasci nei guai una ragazza che ho fatto sposare io» disse invece. «Non vuoi andare a servizio?»

«Magari!» esclamò Bianca.

«Be’, allora vieni con me. Ho da sbrigare una commissione, e poi ti accompagno io a una casa dove cercano una cameriera per la padrona.»

Trottando dietro a sior Nicolò, fino a Rialto e poi attraverso il ponte provvisorio verso campo San Polo, Bianca cercò di saperne di più. Il sensale le disse che la padrona era una signora giovane, la famiglia una famiglia nobilissima, il cui cognome, però, a Bianca disse poco o niente. La padrona si era sposata anche lei due anni prima, e aveva già una bambina, ma era di nuovo incinta da poco; la cameriera che l’accudiva nelle sue stanze private stava per sposarsi anche lei, e di lì a qualche giorno se ne sarebbe andata.

«Vedrai» disse l’uomo. «La signora donna Clarice è una padrona come ce ne sono poche. Suo marito la adora, in casa comanda lei, anche se sembra ancora una ragazzina; del resto avrà la tua età.»

«Siete voi che l’avete fatta sposare?» chiese Bianca. Il sensale si mise a ridere. «Ma ti pare? Io combinare matrimoni di patrizi? No, cara, io ho fatto sposare la cameriera! E con un bravissimo ragazzo, un calafato all’Arsenale.»

«Che bel lavoro che fate voi!» rise Bianca.

«Ah, sì! Non faccio per dire, ma sono io che mando avanti Venezia!» scherzò l’uomo. Nel frattempo erano arrivati a campo San Polo, e imboccarono una calletta che finiva bruscamente nel canale. Una porticina si apriva nel muraglione cieco d’un palazzo.

«Eccoci arrivati» disse l’uomo. «L’ingresso principale è sul canale, si arriva solo in gondola. A piedi bisogna entrare da qui.»

Bussò più volte alla porticina prima che un uomo venisse ad aprire, introducendoli in un giardino incolto, poi in un secondo, tenuto a orto, e infine in un terzo, piccolissimo e pieno di fiori, raccolto intorno a una fontana.

«Che meraviglia!» disse Bianca; e davvero il luogo sembrava uscito da un racconto di fate.

«La padrona dice di aspettare qui» disse il portinaio, che era andato ad annunciare il loro arrivo; e i due rimasero nel giardino, senza osare sedersi sulle panche di pietra attorno alla fontana, finché sulla porta non apparve una giovane donna bionda e ingioiellata, con un filo di perle al collo, pallida e con gli occhi cerchiati, il ventre leggermente rigonfio sotto l’abito di broccato. L’uomo s’inchinò profondamente, subito imitato da Bianca, e la donna ricambiò con un cenno del capo e un fugace sorriso, poi fece loro segno di avvicinarsi.

Donna Clarice era la moglie di ser Lorenzo Bernardo, figlio del senatore ser Alvise Bernardo.

 

***