25.
Faceva un freddo pungente, e piovigginava. Le calli erano quasi deserte. I muri di mattoni trasudavano umidità, sui tetti i camini sputavano fumo grigio. Bianca camminava rasente le case, per non rovinare nel fango le pianelle col tacco. In pochi minuti giunse alla spezieria, dove un lavorante stava ancora smontando le assi di legno che di notte chiudevano la bottega. In giro non c’era nessun altro.
«Cerco ser Giacomo» disse Bianca in fretta. Il lavorante la guardò appena.
«Il padrone è di sopra» disse, accennando col mento al balcone proteso nella calle, con le imposte ancora serrate.
«Io devo vederlo» insistè Bianca, ostinata. «Mi ha detto lui di venire» aggiunse.
«Allora vieni pure.» L’uomo posò con cautela la tavola che teneva in mano, poi le fece segno di seguirlo. Nel retrobottega una porta dava accesso a una scaletta buia.
«Di lì» disse. «Sopra bussa.»
Bianca tirò il fiato e salì. Sperava che venisse ad aprirle l’uomo, ma a spalancare la porta fu un’anziana domestica, che la squadrò con ostilità.
«Cerco ser Giacomo» ripetè Bianca, ricambiando lo sguardo.
«Aspetta un po’» disse la donna sgarbatamente, e si diresse ciabattando verso l’interno buio della casa. Bianca rimase lì a tormentarsi con le unghie l’orlo del grembiule, finché la donna non riapparve.
«Vieni» disse; e le fece strada. Attraversarono una sala gelida, col pavimento di piastrelle bianche e nere e un camino spento, poi la donna la introdusse in una stanza e le richiuse la porta alle spalle. Era una camera da letto, un po’
meno fredda, con un braciere nel mezzo, e un gran letto accostato alla parete di fondo, con le cortine tirate. A un tavolino davanti alla finestra sedeva lo speziale, intento a fissare con espressione perplessa una tazza fumante.
«Sei venuta!» esclamò; e le andò incontro, spalancando le braccia. Bianca vide che era più giovane di quel che le era sembrato, leggermente butterato, e con i capelli ancora più rossi della barba.
«Son venuta» disse, abbassando gli occhi.
«Hai freddo?» disse Giacomo, abbracciandola. «Vieni qui vicino al braciere.»
Prese una seggiola addossata al muro e la sistemò fra il braciere e il tavolino. Bianca sedette e lui la contemplò sorridendo.
«Che brava che sei venuta» disse. Decisamente non era un gran conversatore, ma Bianca non ci fece caso. Sorrise anche lei, e attese.
Seguì un silenzio pieno d’imbarazzo.
«Oh!» esclamò lui dopo un po’, come se si fosse ricordato qualcosa. «Capiti bene. Dài che ti faccio assaggiare una cosa che non hai mai assaggiato.»
Prese in mano la tazza e gliela avvicinò. Conteneva un liquido scuro e denso, dall’odore acuto. Bianca dovette fare una faccia strana, perché l’uomo si mise a ridere.
«Non aver paura, che non ti avveleno!»
Bevve lui un sorso, e si fermò ad assaporare.
«Non dico che sia buono. Ci manca ancora qualcosa. Sto provando con tutte le spezie. Qui ci sono cannella e zenzero. Dài, prova!»
Bianca prese goffamente la tazza calda, con entrambe le mani’ e bevve un sorso. Il sapore era diverso da qualunque altra cosa.
«Ma cos’è?» chiese.
Lo speziale si mise a spiegare.
«Si chiama ciocolate. Si fa con una bacca che gli spagnoli hanno portato dall’America. Loro lo bevono e gli piace moltissimo. Me ne hanno appena mandato un sacco. Però non sono sicuro di averlo preparato come si deve.»
«No, è buono» disse Bianca, pensosa. «Solo, avete ragione, gli manca qualcosa. Avete provato a metterci dello zucchero?»
Ser Giacomo la guardò stupito.
«Zucchero? No. E un’idea, ora ne faccio portare su un po’.»
L’apprendista portò un panetto di zucchero, e ser Giacomo ne sbriciolò un po’ nella tazza.
«Assaggia tu» disse.
Bianca s’illuminò.
«E buonissimo!»
Lo speziale assaggiò a sua volta, e sorrise.
«È buonissimo davvero! E brava la mia Bianca. Mi hai subito fatto fare un affare.»
Le si accostò, e l’abbracciò. Bianca si lasciò andare nelle sue braccia, e quando lui le cercò la bocca non si tirò indietro. Sapevano tutt’e due di ciocolate dolce.
«Vieni qui» mormorò Giacomo, guidandola verso il letto.
Bianca si lasciò condurre, ma arrivata lì sedette sul bordo.
«Aspettate, che così mi rovino i vestiti» protestò.
«Allora toglili» disse l’uomo. Era dietro di lei, seduto nel letto, e cominciò a baciarle la nuca e il collo. Bianca sentì l’odore di un uomo eccitato che la desiderava, e trafficò in fretta con i lacci, mentre lui continuava a baciarla e a mordicchiarla da dietro. Rimasta in calze e camicia, si rigirò e rotolò dentro il letto, sprofondando in un materasso morbido. L’uomo chiuse le cortine, e si chinò su di lei nella penombra.
«È da tanto tempo che ti desidero» sussurrò.
«Anch’io» rispose Bianca, senza nemmeno sapere quello che diceva.
«Lo senti, quanto ti desidero?» continuò lui, prendendole la mano e portandosela in mezzo alle gambe.
«Oh sì!» ridacchiò Bianca, imbarazzata.
Lui le fece saltar fuori un seno dalla scollatura della camicia, e lo maneggiò. Il capezzolo s’irrigidì, lui vi accostò la bocca e lo leccò.
«Mi fai il solletico» rise Bianca, divincolandosi per sottrarsi poi lo attirò su di sé per baciarlo. Con le mani gli tastò la schiena, poi scese più giù. Cominciava a eccitarsi anche lei.
«Mi piaci» sussurrò, fra un bacio e l’altro. Poi sbarrò gli occhi, perché lui stava già spingendo per entrare dentro di lei.
«Fa’ piano che mi fai male» mormorò.
«No che non ti faccio male, sta’ tranquilla» disse lui, deciso; e spinse ancora. Bianca mugolò.
«Su, su, fa’ la brava, sta’ tranquilla» ripeteva Giacomo.
Spinse ancora, e fu tutto dentro. Bianca, senza fiato, si aggrappò alle sue spalle e lo graffiò con le unghie. Lui rise, si divincolò e le bloccò le braccia.
«Non graffiare!» esclamò, sempre ridendo; e le tappò la bocca con la sua, continuando a muoversi su di lei.
«Non venirmi dentro» avvertì Bianca ansiosamente, appena riuscì a liberarsi la bocca.
«Sta’ tranquilla, sta’ tranquilla piccolina. Dio come mi piaci» ripeteva l’uomo. E fu di parola: quasi subito, con uno strattone doloroso, uscì da lei, appena in tempo; poi, con un grugnito soddisfatto, si rigirò e giacque supino.
«Che meraviglia» disse, con voce sognante. «Ti ho aspettata tanto.»
Bianca sorrise, un po’ vergognosa, mentre si asciugava col lenzuolo. Non era sicura che le fosse piaciuto, e ora si sentiva bruciare furiosamente fra le gambe. Ma era la prima volta che aveva un uomo da quando Michele era scomparso, e in tutto il suo corpo si erano risvegliate sensazioni sopite da troppo tempo.
«Ti voglio bene» disse, senza sapere nemmeno lei se stava mentendo o no.
Quando rientrò, trovò donna Clarice che si annoiava, e aveva voglia di chiacchierare. Le chiese della visita alla suocera, e Bianca cominciò subito a imbrogliarsi.
«E’ rimbambita» dichiarò. «Non mi ha nemmeno riconosciuta.»
Le era parsa la via più spiccia per cavarsi dai guai, così non avrebbe dovuto inventare niente; ma poi le venne in mente che in futuro il pretesto di andare a trovare Zanetta avrebbe potuto servirle ancora.
«Però le ha fatto tanto piacere vedermi» si corresse.
Clarice alzò un sopracciglio.
«Ma ti ha riconosciuta o no?»
Maledicendo la propria balordaggine, Bianca cercò di metterci una pezza.
«Sì, alla fine sì» inventò, senza guardare la padrona, e accorgendosi con sgomento d’essere arrossita. Per fortuna donna Clarice non dimostrò ulteriore interesse per la suocera della sua cameriera, e il discorso finì lì.
Quando scese a mangiare, Bianca si aspettava di trovare Foscarina; e infatti la donna era lì, e le venne incontro tutta festosa. L’abbracciò, e dopo essersi guardata intorno furtivamente e accertata che nessuno le osservava le mise in mano un paio d’orecchini. Assomigliavano a quelli che Bianca aveva impegnato e non era ancora riuscita a riscattare, tanto che prendendoli nelle mani sussultò, mentre un’infinità di ricordi le tornavano con prepotenza alla mente.
«Te li manda lui! L’hai fatto felice, non vede l’ora di rivederti» continuava Foscarina allegramente, ignara di quel che stava passando nell’anima di Bianca.
«Va bene!» sospirò lei, facendosi forza. «Ma non so quando potrò, con la padrona in questo stato.»
«Non importa! Il modo lo troveremo» disse la donna.
«Certo» aggiunse, facendosi pensosa, «non potrà andare avanti in eterno così. Bisognerà che tu ti licenzi e vada a vivere con lui.»
Bianca sobbalzò.
«Ma come faccio a licenziarmi! Non se ne parla proprio»
esclamò. Foscarina la fissò freddamente.
«Al punto in cui sei arrivata, cara mia, non ti conviene tirarti indietro. Guarda che lui è proprio ammattito, ti coprirà di regali.»
«Non so» disse Bianca, sfuggendo lo sguardo della donna.
«Oltretutto, supponi che la tua padrona venga a sapere quello che è successo. Non ci mette niente a buttarti sulla strada, sai? E allora, chi lo sa se lui non avrà cambiato idea.
Dai retta a me, ti conviene deciderti tu, e presto.» Il tono di Foscarina conteneva una sfumatura di minaccia che non sfuggì a Bianca.
«Ci penserò» sussurrò; poi, per fortuna, la chiamarono, e corse via.
Il sabato, donna Clarice dichiarò che la mattina dopo non sarebbe andata a messa, e ordinò a Bianca di andare a quella del mattino presto, insieme con le altre domestiche, per non dover più uscire durante la giornata.
«Sento che ci siamo» disse, con un sorriso forzato.
Tutt’e due dormirono molto male quella notte: Clarice continuava a svegliarsi, chiedeva da bere, mandava Bianca ad aprire e poi a richiudere la finestra, si sentiva soffocare. Al mattino era terrea, e ser Lorenzo, venuto a darle il buongiorno, si spaventò.
«Non vi posso costringere, ma se mi volete bene farete venire il medico» disse.
Clarice lo fulminò con lo sguardo.
«Non ne riparliamo di nuovo! Queste sono faccende di donne, e non ci metteremo in mezzo nessun medico, me l’avete già concesso l’altra volta, ricordate?»
Ser Lorenzo borbottò qualcosa. Clarice gli sorrise, come per farsi perdonare.
«Su, fate un po’ di colazione con me. E una partita, volete?»
La scacchiera venne preparata su un tavolino accanto al letto. Bianca, appena tornata da messa, portò un vassoio di biscotti e una caraffina di vino, poi si mise a cucire in un angolo, mentre i due giocavano. Ma poco dopo un lamento proveniente dal letto la fece saltare in piedi. Clarice, pallidissima, cogli occhi sbarrati, si teneva il ventre fra le mani.
Bianca le corse accanto.
“Ci siamo davvero» disse la padrona, con voce alterata.
«Corri a chiamare le donne. Voi andate via, per piacere»
disse rivolta al marito. «Qui non è più posto per uomini.»
Ser Lorenzo, pallido anche lui, si alzò, la baciò in fronte e se ne andò. Le levatrici, subito risalite dalla cucina, tirarono via lenzuola e coperte e senza troppi complimenti esaminarono Clarice fra le gambe.
«Non so» disse la prima, dopo un po’. «È troppo presto non si vede ancora niente.» Proprio in quel momento Clarice ebbe un’altra fitta, e con un mugolio di dolore si portò le mani sopra il pube, prima di ricadere all’indietro fra i cuscini. Le levatrici si guardarono.
«Eh, sì che ci siamo!»
Bianca fu mandata a prendere una pezza per bagnare la fronte alla partoriente, e da ogni angolo della casa accorsero le domestiche e le cucitrici, pronte a rendersi utili. In un attimo attorno al letto della padrona c’era una dozzina di donne che commentavano, le lisciavano le coperte, la accarezzavano, le assicuravano che tutto sarebbe andato bene. Ogni volta che Clarice gemeva, tutte in coro la incoraggiavano, cercando di tranquillizzarla. Quasi tutte erano già in casa al tempo del suo primo parto, e cominciarono i confronti ad alta voce.
«Vi ricordate che caldo l’altra volta?»
«Era estate. La fine di agosto.»
«Era il giorno dopo l’Assunta» corresse una, più precisa.
«Anche allora cominciò di mattina.»
«E Francesca è nata la notte.»
«Di’ pure il mattino dopo.»
«Ma stavolta farà più in fretta» profetizzò la governante, chinandosi amorevolmente su Clarice che respirava con affanno tra una fitta e l’altra. «La prima volta è sempre la più dura. Lo so io che ne ho fatti nove; dal secondo in poi va tutto veloce, la strada è già preparata.»
«Speriamo» mormorò Clarice, con un’occhiata smarrita.
«Ohi!» gridò poi, contraendosi tutta. «Questa è stata più forte» commentò, con la fronte coperta di sudore. Bianca gliela rinfrescò con la pezzuola. Due donne, inginocchiate di fianco al letto, tenevano le mani della partoriente, accarezzandole piano. Ogni tanto una delle levatrici si avvicinava, scostava le coperte, si chinava a guardare, poi si rialzava, scuotendo la testa.
«Non è ancora cominciato sul serio» sentenziava.
Clarice sbuffava irritata. A volte passavano anche dieci minuti, un quarto d’ora senza che succedesse nulla, e qualcuna delle donne cominciava a guardare le altre come per chiedere se dopo tutto non si erano sbagliate; poi, di nuovo, Clarice mugolava di dolore, e tutte si chinavano su di lei.
Finalmente, dopo una fitta più dolorosa delle altre, la levatrice che la esaminava esclamò:
«Datemi un panno!»
Pulì Clarice fra le gambe e poi mostrò in giro il panno, sporco di muco e anche di un po’ di sangue.
«Adesso sì che è cominciato» disse, soddisfatta.
Dopo cinque ore Clarice, spossata e zuppa di sudore, cominciò non più a mugolare, ma a urlare ad ogni contrazione.
Qualcuna delle donne più giovani s’impressionava.
Bianca, in piedi dietro di lei, continuava a inumidirle la fronte, come le era stato ordinato. Non aveva mai visto un parto, e non si sentiva troppo bene; solo la tranquillità delle levatrici, che scherzavano con la governante e incoraggiavano ruvidamente la partoriente, la aiutava a tenersi su, perché pensava che se ci fosse stato pericolo non si sarebbero comportate così.
«Che ne dici, è il momento giusto per mangiare qualcosa, no?» disse una delle due. Clarice le lanciò un’occhiata feroce, ma in realtà si vedeva che anche a lei quella tranquillità faceva bene.
«Signora» disse l’altra, «ordinate al cuoco che prepari qualcosa per tutte queste donne, a pancia piena la serviremo meglio che a pancia vuota.»
Clarice fece appena in tempo ad annuire; poi sbarrò gli occhi e per quanto cercasse di resistere urlò di nuovo, come in agonia.
«Maria Vergine, muoio, muoio, aiutami tu» mormorò, quando la fitta fu passata. Le levatrici si guardarono ancora.
«Vedi un po’» disse la più anziana. L’altra si inginocchiò, fece allontanare le donne che le toglievano la luce, scostò le coperte. Senza tanti riguardi appoggiò le mani alle cosce di Clarice ed esaminò la sua fessura.
«Forse sì» disse poi. «Aspettiamo la prossima.»
Per due o tre minuti rimasero in silenzio, attendendo. Poi all’improvviso, Clarice urlò e si inarcò, portandosi le mani dietro le reni, e urtando con le gambe la levatrice.
«Non va bene!» disse questa, seccata, mentre Clarice continuava a urlare. «Un’altra volta tenetele le braccia e le gambe.» Quando terminò la fitta, Clarice chiuse gli occhi e si rannicchiò fra i cuscini. Vedendo che non obiettava, le donne le presero i polsi e le caviglie.
«Allargatele le gambe» ordinò la levatrice. «E tenete forte!»
Dopo un’attesa di altri tre minuti, che sembravano non passare mai, Clarice ricominciò a urlare e a divincolarsi.
Stavolta, però, non poteva muoversi, e la levatrice si chinò a guardarle fra le gambe. Quando si rialzò aveva un largo sorriso.
«Lasciatela andare! Evviva, madonna Clarice, ci siamo, si sta aprendo. Tu, ragazza» disse rivolta a Bianca, che era pallida come un morto, «non fare quella faccia! Va’ giù, vai a vedere se è pronto da mangiare, che fra un po’ bisogna rimboccarsi le maniche sul serio.»
Bianca scappò via, fin troppo felice di allontanarsi; era ancora sulle scale quando la raggiunse un nuovo urlo di Clarice, dapprima sordo come se la donna cercasse di trattenersi, poi selvaggio come quello d’un animale ferito.
Stava per aprire la porta che dava sulla cucina, quando la porta si aprì dall’esterno e davanti a lei comparve ser Giacomo.
«Eccola qui!» sorrise l’uomo allegramente, e spalancò le braccia. Bianca, colta di sorpresa, fece un passo indietro.
«Dài, vieni qui, che ho una voglia di abbracciarti! Perché non ti sei più fatta vedere, eh?»
«Ma adesso non posso!» disse Bianca in fretta. «Devo tornare di sopra, la padrona sta partorendo!»
«Lo so, me l’hanno detto» disse l’uomo, fattosi più serio.
«Ma io non resistevo più, avevo troppa voglia di vederti.
Su, dammi almeno un bacio.»
Bianca si arrese e si lasciò abbracciare; poi si divincolò.
«Lasciami andare, adesso.»
Corse in cucina con il cuore che batteva violentemente. In un altro momento forse non le sarebbe dispiaciuto baciare Giacomo, sentire la sua morbida barbetta rossa che le solleticava la gola, ma adesso era troppo concentrata sul dramma che stava accadendo lassù nella camera della padrona.
Quando ripassò dalla scala per risalire, Giacomo era ancora lì.
«Pedaggio» disse, sbarrandole la strada. Bianca non aveva voglia di litigare, e gli diede un bacio in bocca; poi scappò via.
«Ti aspetto di sotto, torna presto!» le raccomandò l’uomo.
Lei, nella fretta, non ci fece nemmeno caso. Risalì, e col fiato corto avvisò che era stato preparato da mangiare e che le donne se volevano potevano scendere a turno.
Clarice continuava a gridare ad ogni fitta, poi ricadeva spossata all’indietro, madida di sudore; le donne, tutt’intorno, la toccavano e le parlavano; le coperte erano state tirate via definitivamente e ammucchiate sul cassone del corredo, per cui la partoriente giaceva con le gambe nude sotto gli occhi di tutte. La levatrice più anziana scese con alcune altre a mangiare, e tornò mezz’ora dopo, asciugandosi le labbra unte col dorso della mano. Clarice era nel pieno d’una fitta e urlava disperatamente, inarcando la schiena. La levatrice si chinò a guardare.
«Va bene!» decretò, soddisfatta. «Va’ giù in fretta»
disse all’altra, «che ormai da un momento all’altro ci siamo.»
Quelle che non avevano ancora mangiato si accalcarono per scendere. Clarice ora aveva chiuso gli occhi, e fra una fitta e l’altra stava raggomitolata con le braccia intrecciate sul seno; Bianca, dietro di lei, le rinfrescava la fronte, e non poteva fare a meno di guardare di soppiatto quelle gambe che ogni pochi minuti scalciavano nell’agonia, e quel ventre tondo che fra poco si sarebbe sgonfiato come una vescica bucata, lasciando scivolare fuori il putto. Passò un’altra mezz’ora, durante la quale Clarice urlò e si divincolò dieci volte, poi la porta si aprì e rientrarono le donne.
Clarice le accolse con uno sguardo di gratitudine, poi si voltò verso Bianca.
«Ma tu non hai mangiato.»
«Non importa, signora» rispose Bianca. Ma Clarice aggrottò la fronte.
«Importa sì! Ho bisogno che tu sia forte. Va’ giù a mangiare.»
Bianca ubbidì e corse via. Scendendo le tornò in mente Giacomo, e si aspettava quasi di trovarselo di nuovo di fronte sulle scale, ma non lo incontrò da nessuna parte.
Mangiò in fretta un piatto di minestra, in piedi accanto al focolare, e risalì. Arrivò appena in tempo, perché tutte le donne si erano assiepate ancor più vicino al letto e rumoreggiavano ansiose e allegre.
«Si son rotte, si son rotte!» dicevano. Bianca si avvicinò e vide che una delle levatrici puliva con un cencio fra le gambe di Clarice; la partoriente, benché sfigurata dal dolore, aveva una luce nuova negli occhi.
«Ohi!» gridò subito dopo, e si portò le mani all’inguine.
«Ora è il momento di cominciare a spingere, bella signora» disse la levatrice. «Voi, fate spazio, che la soffocate!»
Clarice, sudando copiosamente, cercò di obbedire; ma subito si divincolò di nuovo, agitando le gambe in aria e urlando di dolore.
«No, così non va bene!» disse severamente la levatrice.
«Guardi che le faccio tener ferme le gambe! Faccia la brava, non è mica la prima volta, no? E stavolta sarà più facile. Su, spinga!»
Clarice, con gli occhi sbarrati e trattenendo a fatica le urla, si mise d’impegno. Bianca, affascinata, non staccava gli occhi dall’inguine della padrona.
«Hai visto, Bianca?» le disse Clarice, tentando di sorridere. «Ricordatelo quando toccherà anche a te. Non è difficile. È come cagare.»
A qualcuna delle donne sfuggì un risolino imbarazzato, ma la levatrice anziana annuì compiaciuta.
«È proprio così, la signora ha detto bene. Su, spinga!»
La testa del bambino, però, non compariva. Dopo un po’
Clarice non riuscì più a controllarsi e a trattenere le urla. Le levatrici s’inginocchiarono entrambe a scrutare, poi, dopo essersi consultate, cominciarono a premere cautamente sul ventre, da un lato e dall’altro. Clarice gridava disperatamente e invocava la Vergine che la liberasse. Tutte le donne si erano fatte indietro e tacevano, attendendo. L’attesa durò a lungo, e le levatrici non sorridevano più, adesso.
«Non capisco» mormorò una delle due, tastando il ventre. Eppure mi sembra che sia messo giusto, ‘sto putto.»
«Purché non abbia il cordone intorno al collo»
sussurrò l’altra.
«Sta’ zitta!» la fulminò la prima. «Non dirle neanche per scherzo queste cose!», e si fece svelta un segno di croce. Poi guardò Clarice per vedere se aveva sentito.
«Io lo so che ‘sto putto mi ammazza!» gridò all’improvviso la partoriente.
«La Vergine l’aiuterà. Su, donne, che state a fare lì? In ginocchio, e dite l’Ave Maria!»
La stanza si riempì del mormorio monotono della preghiera, interrotto dalle urla sempre più acute di Clarice.
Bianca aveva fatto per inginocchiarsi anche lei, ma la padrona l’aveva trattenuta aggrappandosi al suo braccio.
«Sta’ qua» aveva mormorato, e Bianca era rimasta lì, accarezzandole i capelli fradici di sudore.
«Non viene» sussurrò una delle levatrici, tetra. Aveva parlato piano, ma Clarice la sentì.
«E io cosa faccio?» urlò disperata.
All’improvviso Bianca ebbe davanti agli occhi un ricordo d’infanzia, sepolto da anni nel più profondo della memoria. La stalla, il calore delle vacche, fuori il buio dell’inverno, una donna sulla paglia, la sorella di sua madre, circondata da donne com’era adesso Clarice, come lei sudata, urlante e terrorizzata; e poi una delle donne, una vecchia, che la costringeva a cambiare posizione, a mettersi carponi.
Le vacche figliano così e possono figliare così anche le cristiane, aveva detto la vecchia.
«Signora» mormorò Bianca, incerta. Clarice la guardò con gli occhi vitrei.
«Al mio paese si dice che quando il putto non esce, bisogna mettersi a quattro zampe» disse Bianca tutto d’un fiato. Per un istante parve che Clarice non avesse sentito, ma poi tutte videro che si puntellava sui gomiti, cercando di voltarsi.
«Ma che stupidaggini dici, ragazza!» la sgridò la levatrice più giovane.
«È vero» intervenne una delle donne. «Anche al mio paese si fa così.»
«Così si sgravano le vacche… e le contadine!» ribatté la levatrice.
Clarice scosse la testa.
«Anch’io. Non ce la faccio più» balbettò; e con uno sforzo si tirò su e si mise carponi. La levatrice più giovane guardò la più anziana. Quest’ultima alzò le spalle.
«Non cambia niente. Non stiamo a litigare» sussurrò.
Clarice aveva ripreso a urlare. Le donne in ginocchio ricominciarono a pregare. Le levatrici cambiarono posizione anche loro, e Bianca, ora che Clarice non poteva più aggrapparsi al suo braccio, s’inginocchiò anche lei accanto alla padrona.
Poi, una delle levatrici esclamò:
«Ecco che viene! Dio sia lodato!»
Tutte le donne si rialzarono e accorsero.
«Largo! Largo!» dicevano le levatrici. Ognuna prese Clarice per una coscia, aprendole il più possibile.
«Dài che viene! Dài che viene!»
«Maria Vergine!»
Clarice urlò di nuovo: come il maiale quando lo sgozzano, pensarono nello stesso istante tutte le donne che erano state contadine. Adesso nel lenzuolo sotto di lei s’era formata una pozza di sangue; ma nell’apertura si muoveva qualcosa. La levatrice anziana ficcò le mani lì in mezzo, Clarice urlò di nuovo, e un istante dopo la levatrice era in piedi e scuoteva energicamente un fagottino che gocciolava sangue e muco. Passò qualche secondo, e poi dal fagottino eruppe un pianto disperato.
«È nato! Ed è un maschio, signora!» annunciò la levatrice, trionfante. Clarice, stravolta, si lasciò cadere sul fianco, e tentò un sorriso.
«Acqua calda, su! E asciugamani!» ordinò la levatrice.
«E tu, ragazza» ordinò a Bianca, «va’ giù a prendere della legna, che il camino fra un po’ si spegne! Finora la signora ha sudato, ma adesso bisogna che non prenda freddo!»
Bianca, confusa, si precipitò alla scala, scese in cucina e da lì nel primo cortile, dove c’era la legnaia. Ma appena uscita nel freddo del pomeriggio d’inverno si bloccò di colpo: lì avvolto nel mantello, c’era Giacomo.
«Finalmente! Ti sei fatta aspettare, sai?»
«La signora ha partorito! È un maschio!» annunciò Bianca, senza fiato.
L’uomo si tolse il berretto.
«Congratulazioni!» esclamò, con un sorriso. «E tu dove corri?»
«Mi hanno mandata a prendere la legna» disse Bianca indicando la porta della legnaia: un casotto di mattoni intonacati, alto quanto un uomo, con un tettuccio di tegole sconnesse.
«Mi pare una buonissima idea, lì dentro staremo tranquilli» disse Giacomo. Bianca impallidì.
«Ma io non ho tempo! Devo tornare su con la legna!»
«Anch’io non ho tempo, eppure ti ho aspettata tutto il giorno. Su, fai la brava, entra e non fare tante storie» disse l’uomo, che non sorrideva più.
***