28.

Il sabato dopo Pasqua il Senato, a cui non era stato rivelato il vero scopo della spedizione, confermò la nomina di ser Lorenzo Bernardo come inviato straordinario a Costantinopoli, e gli ordinò di partire appena possibile su una galera messa apposta a sua disposizione. In seguito, il Consiglio dei Dieci e gli Inquisitori sopra la propalazione dei segreti di Stato aggiunsero che Lorenzo, dopo aver arrestato il Lippomano, doveva spedirlo indietro sotto scorta e restare provvisoriamente a svolgere le funzioni di bailo finché non fosse stato nominato il successore. Ser Lorenzo impiegò ancora tre giorni per finire di fare i suoi bagagli, decidere quali domestici dovevano seguirlo e assumere altri uomini di fatica, poi andò in barca al Lido per parlare con il sopracomito. Dopo una parentesi di bel tempo il cielo s’era di nuovo riempito di nuvole, e tirava un vento freddo di tramontana. Il sopracomito si chiamava Giambattista Calbo, e lo accolse allargando le braccia.

«Con questo tempo, lo vede anche lei, non si può partire!»

Ser Lorenzo sbuffò con impazienza.

«Ma c’è fretta, messer Giambattista, molta fretta.»

«Lo so!» disse il sopracomito. Un segretario del Collegio era appena venuto a portargli i suoi ordini: la galera Calba doveva imbarcare l’illustrissimo signor Bernardo con tutto il suo seguito, e portarli dove il medesimo illustrissimo signore avesse voluto, senza chiedere altro e senza conoscere prima la destinazione, che doveva rimanere segreta per non nuocere al successo dell’affare. Avendo ricevuto un simile ordine, il sopracomito traboccava di curiosità.

«Mi dica almeno dove dobbiamo fare il primo scalo.»

«Quando potremo salpare glielo dirò» tagliò corto ser Lorenzo.

Ci vollero altri tre giorni perché finalmente un uomo venisse dal Lido a palazzo Bernardo ad avvisare che il tempo prometteva bene, e che quel pomeriggio si poteva partire.

I bagagli erano già caricati sulla galera da un pezzo, e anche i servitori si erano imbarcati il giorno prima. Al Lido ser Lorenzo incontrò il segretario Francesco Vianello, il dragomanno Marchetto Spinelli e il capitano degli sbirri del Consiglio dei Dieci Filippo Casalini, che dovevano accompagnarlo nel suo viaggio. Il segretario era un uomo giovane, con un lungo naso e a cui scappava spesso da ridere; anche il capitano, nonostante il suo mestiere, era un tipo gioviale e ridanciano; invece il dragomanno, l’interprete ufficiale, era un uomo già avanti negli anni, pingue e afflitto da una tosse catarrosa, che avrebbe fatto volentieri a meno di quel viaggio. Ma a Venezia non c’era nessun altro che sapesse il turco e di cui ci si potesse fidare in una faccenda così scabrosa: e così lo Spinelli aveva ricevuto dalla Signoria l’ordine perentorio di prepararsi e partire.

«Speriamo in bene!» disse, salendo faticosamente la scaletta della galera; e si fece il segno di croce.

Il vento era calato, e le acque della laguna scintillavano calme. Il sopracomito recitò una preghiera ad alta voce, davanti alla ciurma e all’equipaggio in ginocchio; poi la tromba diede il segnale della partenza, i galeotti si piegarono sul remo, e la galera si staccò dal molo. Ser Lorenzo si aspettava che il sopracomito venisse a chiedergli la rotta, ma non accadde nulla. Mentre la galera si addentrava nel mare aperto, messer Giambattista se ne stava appoggiato alla balaustra dell’arrembata di prua, mangiando una mela. Era evidente che dover dipendere da un altro a bordo della sua stessa galera lo irritava, e non aveva intenzione di collaborare. Ser Lorenzo pensò che era molto meglio cercare di addomesticarlo.

«Signor sopracomito» disse appoggiandosi accanto a lui, «quando vuole possiamo vedere insieme la carta, e decidere la rotta.»

«È lei che comanda» borbottò il Calbo, buttando il torsolo in mare.

«No» dichiarò Lorenzo, «è lei che comanda la galera, e tutt’e due obbediamo ai Serenissimi Signori. Venga, se vuole, che ho bisogno di discutere la rotta con lei.»

Un uomo corpulento, vestito di nero, percorreva la navata destra della basilica di San Marco, segnandosi di tanto in tanto davanti alle immagini. Quando giunse in fondo, un altro uomo si staccò dall’ombra delle colonne e gli si avvicinò. L’uomo corpulento guardava in alto, come perduto nell’oro dei mosaici.

«Dite, dunque» sussurrò. L’altro, guardandosi intorno con falsa disinvoltura, cominciò un lungo racconto. L’uomo corpulento ascoltava attentamente, e a un certo punto trasalì.

«Siete sicuro?» sibilò.

«Purtroppo sì, illustrissimo» si scusò l’altro. «Ho veduto io stesso gli ordini prima che fossero sigillati.»

L’uomo corpulento abbassò lo sguardo, e sospirò.

«Voi ci siete sempre stato devoto. Sarete ricompensato»

disse; e allungò la mano grassa, luccicante di anelli. L’altro la baciò, s’inchinò profondamente, poi si allontanò. Nella basilica, a quell’ora, non c’era quasi nessuno. L’uomo corpulento passò ancora un po’ di tempo lì, inginocchiandosi a pregare in più di una cappella; poi decise che aveva aspettato abbastanza. Uscì con passo stranamente svelto, data l’età e la corporatura; fuori, un servo che era rimasto ad aspettarlo seduto all’ombra si alzò di scatto e lo seguì con deferenza.

Mezz’ora dopo l’uomo corpulento era seduto nello studio dello stesso palazzo ai Carmini dove prima di partire per Costantinopoli abitava il senatore Lippomano. L’uomo era suo fratello, conosciuto come il priore Lippomano, perché viveva d’un ricco beneficio a Brescia, benché non si fosse ancora preso la briga di ricevere gli ordini sacri, per cui era un laico a tutti gli effetti. Mentre la sera calava su Venezia e gli stridi dei gabbiani si perdevano fra i canali, il priore rifletté a lungo, finché la stanza non fu buia. Allora fece accendere le candele e ordinò al domestico: «Va’ a chiamare il Mulo.»

Qualche minuto dopo, il Mulo era in piedi davanti a lui.

Era un fratello bastardo dei due Lippomano, chiamato proprio per questo con quel soprannome, e allevato da sempre in casa come il più fidato dei servitori.

«Mulo, ascolta» disse il priore. «C’è un affare serissimo e dovrai incaricartene tu.»

In poche parole spiegò d’aver saputo, da fonte sicura, che l’inviato straordinario a Costantinopoli aveva ordine dal Consiglio dei Dieci di arrestare il senatore e spedirlo sotto scorta a Venezia. Il Mulo ascoltava, impassibile.

«Il Bernardo è partito ieri, con la galera del sopracomito Giambattista Calbo. Nessuno sa che strada vuole fare. Senti bene, Mulo, bisogna che tu parta subito. Mio fratello non sa nulla, è questione di vita o di morte avvertirlo prima che il Bernardo arrivi laggiù. Gli porterai questa lettera»

aggiunse, prendendo penna e calamaio e cominciando a scrivere rapidamente. Il Mulo, curioso, aguzzò l’occhio e vide che la lettera era in cifra; dalla velocità con cui il priore scriveva, si vedeva che era abituato ad usarla. Quando ebbe finito, prese la ceralacca, inclinò la candela e sigillò il foglio piegato in quattro con uno degli anelli che portava al dito.

«È tutto?» chiese il Mulo, laconico. Il priore lo osservò di sotto in su.

«No» disse poi. «T’ho detto che nessuno sa che strada seguirà il Bernardo. Ma tu potresti scoprirlo. Noleggia una fregata, fermati a indagare in ogni porto, trova la traccia.

Non c’è bisogno che ti spieghi io come fare.»

«No, illustrissimo» sogghignò l’altro.

«Quando l’avrai trovato, vedi un po’ se si presenta l’occasione. Non aver fretta, seguilo per qualche giorno, tanto farai sempre a tempo a prendere del vantaggio: basta che tu arrivi a Costantinopoli prima di lui.»

«Ma se l’occasione si presentasse?» chiese il Mulo.

Il priore Lippomano distolse lo sguardo.

«Se il Bernardo non ci arrivasse proprio, a Costantinopoli per mio fratello sarebbe ancora meglio, hai capito?»

«Ho capito» disse l’altro.

«Bravo! Prendi, e non badare a spese» ordinò il priore, cavando da un cassetto una borsa già pronta e gonfia.

«Vado» disse l’uomo. Inchinandosi si tolse il berretto, scoprendo, sotto i capelli che la moda imponeva di portare cortissimi, un’orecchia intera e un’altra dimezzata da un’archibugiata, tanti anni prima a Lepanto.

«Va’, ti benedico» disse il priore; e lo congedò con un gesto lento della mano.

All’inizio il viaggio della Calba era andato liscio; ma il terzo giorno il vento cambiò. La galera, che s’era fermata la sera prima nel porticciolo di Veruda sotto Pola, non potè più uscirne per tre giorni. Ser Lorenzo, che col mare aveva poca dimestichezza, scalpitava, ma tutti quanti a bordo la prendevano con tanta tranquillità da convincerlo che non ci si poteva far nulla; sicché ingannò il tempo facendo lunghe passeggiate sulla spiaggia, all’ombra dei pini marittimi, stupendosi del candore della sabbia finissima e dei riflessi cangianti dell’acqua.

Il mattino del 1° maggio pareva che il tempo si mettesse un po’ meglio e il sopracomito dichiarò che prima di sera, se continuava così, si poteva salpare; subito dopo, però, un marinaio venne ad avvertire che era stata avvistata una vela in avvicinamento.

«Una fregata» giudicò messer Giambattista, dopo averla osservata per un po’.

«Appena entra in porto, fate venire il padrone» disse ser Lorenzo, che aveva ordine di interrogare tutti i padroni di barche provenienti dal Levante, e vedere se avevano lettere da Costantinopoli.

Era una fregata di Cattaro, e il padrone interrogato disse subito che sì, andava a Venezia e gli avevano affidato un pacchetto di lettere. Ser Lorenzo gli ordinò di portarle a bordo della galera; l’uomo era perplesso, ma finì per obbedire. Il pacchetto venne aperto, e ne uscì una dozzina di lettere, fra cui parecchie sigillate con lo stemma del bailo a Costantinopoli.

«Come sapete, io ho l’autorità di aprirle» dichiarò ser Lorenzo. Il sopracomito, il segretario e il dragomanno, che erano con lui nella camera di poppa, assentirono.

«Ser Francesco, stendiamo un verbale» ordinò ser Lorenzo al Vianello. «Loro, signori, mi facciano la cortesia di uscire.»

Rimasti soli, il segretario ruppe i sigilli.

«Sono in cifra!» esclamò, vedendo le lettere. Ser Lorenzo annuì. «Era previsto. Mi hanno consegnato anche la cifra di Costantinopoli»; e mise sul tavolo un quinternetto rilegato. «Al lavoro, ser Francesco.»

Il segretario cominciò laboriosamente a decifrare le lettere, trascrivendole sul verbale. Ci volle qualche ora; all’inizio ser Lorenzo, impaziente, spiava sopra la sua testa per leggere le righe già trascritte, poi si stancò e rimase ad attendere.

Il vento era calato, la galera non rollava più, sarebbe stato il momento di ripartire, ma era troppo importante verificare che cosa scriveva il Lippomano. Quando la trascrizione fu conclusa, ser Lorenzo la scorse rapidamente. Le lettere erano state scritte fra il 15 marzo e il 4 aprile, ed erano simili a tutte quelle che la Signoria riceveva, una volta ogni due o tre settimane, da ciascuno dei suoi ambasciatori. Il bailo era stato invitato a pranzo dall’agà dei giannizzeri, in una sua villa sulla riva del Corno d’Oro, e conversando in giardino quel dignitario gli aveva assicurato che il sultano amava la pace e ne apprezzava i benefici; uno schiavo napoletano che lavorava a dipingere una parete nell’anticamera del Gran Visir aveva ascoltato una conversazione a proposito di certe spie in partenza per Venezia, ed era venuto a riferirla al bailo, sicuro d’una ricompensa; nell’Arsenale non si vedevano preparativi e non era stato assunto personale straordinario, segno sicuro che quell’estate la flotta turca non sarebbe uscita; nel quartiere degli ebrei s’erano scoperti alcuni casi sospetti di peste, che però non suscitavano ancora preoccupazione, perché accadeva la stessa cosa tutti gli anni; il bailo aveva dovuto sostenere una spesa imprevista per riparazioni al tetto del palazzo; il corso dei grani a Costantinopoli saliva, com’era inevitabile in quella stagione, e i mercanti riferivano che stava salendo ancor più a Salonicco, perché non ci si aspettava un buon raccolto. Sapendo quello che sapeva sui traffici del Lippomano, Ser Lorenzo fece una smorfia leggendo queste ultime righe, poi si rivolse al Vianello.

«Va bene. Adesso rimettiamo le lettere nel pacchetto, però le sigilliamo insieme a una lettera nostra indirizzata a Sua Serenità, dove spieghiamo dove e quando abbiamo rotto i sigilli-E ora che ci penso, ser Francesco, non sarà meglio scrivere anche agli Inquisitori sopra la propalazione dei segreti di Stato, per avvertirli che abbiamo letto queste lettere?»

«È sempre meglio mettere le mani avanti, e protocollare tutto» confermò il segretario, che benché giovane aveva già imparato come si resta a galla in una burocrazia.

«Facciamolo, allora. Ancora un po’ di lavoro per voi»

sorrise ser Lorenzo; poi uscì ad avvertire il sopracomito che di lì a poco sarebbero potuti salpare.

Ripartita alla sera, la galera attraversò il golfo del Quarnaro; poi, siccome all’orizzonte c’era foschia e il pilota sconsigliava di entrare in mare aperto, si inoltrò negli stretti canali tra le isole. In certi momenti la costa montuosa era così vicina che sembrava di navigare in un fiume, anziché nel mare. Una leggera tramontana consentiva di andare a vela, impiegando la ciurma solo quando bisognava vincere qualche corrente o accostare a terra per la notte.

«E’ quasi un viaggio di piacere» disse il Vianello allo Spinelli. Il dragomanno rispose con un grugnito, e il segretario, offeso, decise di lasciarlo perdere.

Alla sera del 5 maggio entrarono nel porto di Curzola, e ser Lorenzo prese da parte il Calbo. Fino a quel momento, obbedendo alle istruzioni ricevute, aveva discusso la rotta con lui ogni sera, prevedendo approssimativamente la tratta che avrebbero potuto percorrere il giorno dopo; ma ormai si avvicinava l’ultima tappa del viaggio per mare.

Il sopracomito distese sul tavolo della cabina la carta nautica. Era disegnata a mano, su pergamena; e dove la pelle della pecora assumeva una forma appuntita, in corrispondenza del collo della bestia, era dipinta a vivaci colori la Madonna del Soccorso. Le basi veneziane nell’Adriatico e nello Ionio erano contrassegnate da uno scarlatto leone di San Marco, e un altro leone molto più grande designava Venezia; era così grande che la città ricopriva mezza Italia settentrionale. Genova in confronto, notò ser Lorenzo con soddisfazione, era una macchiolina insignificante.

«Possiamo arrivare a Ragusa domani sera?» chiese. Ogni volta che gli faceva una domanda così diretta, messer Giambattista si stringeva nelle spalle, allargava le braccia e menzionava i venti e la Provvidenza, evitando di rispondere; ma ser Lorenzo ci si era già abituato.

«Glielo chiedo» precisò «perché lo Spinelli deve sbarcare lì.»

Il sopracomito lo guardò, sorpreso. Potrebbe anche dirmi qualcosa di più, pensava. Ser Lorenzo glielo lesse negli occhi.

«Abbia pazienza, messer Giambattista, io obbedisco agli ordini. Dunque, possiamo arrivarci domani?»

Il sopracomito finse di esaminare attentamente la carta nautica, e di riflettere.

«Se non cambia il vento, sì» ammise alla fine.

Ma nel pomeriggio del giorno dopo il vento cambiò davvero. Manovrando con le vele si potè continuare, ma la velocità era bruscamente diminuita. Ser Lorenzo, impaziente, guardava il sole che calava in fretta dietro le montagne verdi dell’isola.

«Mettiamo ai remi» ordinò.

Subito il tuffo dei remi cominciò a formare dietro la poppa della galera una lunga scia di schiuma. Anche così, però, messer Giambattista e il pilota dichiararono che non sarebbero arrivati a Ragusa prima di notte.

«Se fosse un porto nostro ci farebbero entrare anche col buio, ma i ragusei non lo faranno mai» previde il sopracomito; e sputò. Il disprezzo per i ragusei era condiviso da tutti a Venezia: ecco una città che pretende d’essere cristiana, però paga il tributo al Gran Signore, e lo informa di tutto quello che succede nella Cristianità, e come se non bastasse gode di privilegi commerciali nell’impero del Turco che a noi veneziani farebbero così comodo, e invece ci sono negati! Ce n’era abbastanza per desiderare che un giorno o l’altro Dio si stancasse dell’ipocrisia dei ragusei e li mandasse in rovina loro e la loro dannata città. Nel frattempo, però, bisognava’fare buon viso a cattivo gioco, e a dire la verità non era privo di utilità neppure per gli altri cristiani disporre d’un luogo d’incontro e di scambio sul confine fra i due mondi: una terra di nessuno dove condurre molti affari che altrimenti non si sarebbe saputo come portare a termine.

«Possiamo prendere terra un po’ prima, se c’è un posto adatto» suggerì ser Lorenzo. «Sbarchiamo lì il dragomanno, e domattina potrà andare a Ragusa.»

«E noi invece non ci andiamo?» chiese il sopracomito.

«No, messer Giambattista, noi andiamo a Cattaro. E lì probabilmente la lascerò libero.»

Ho capito, pensò il sopracomito, vai a Costantinopoli.

Fino a quella sera aveva creduto che la loro destinazione potesse essere Ragusa, ma se il Bernardo si faceva condurre fino a Cattaro, l’ultima base veneziana nell’Adriatico, e con tutta quella segretezza, e poi sbarcava per continuare il viaggio per via di terra, non poteva essere diretto che alla capitale del sultano. Ma perché diavolo il dragomanno doveva fermarsi a Ragusa? Oh, be’, che facciano un po’ quello che vogliono, visto che è una faccenda tanto segreta, pensò, con una punta di rancore.

Poco prima del tramonto la galera accostò a terra a qualche miglio da Ragusa. Fra i pescatori del posto si trovò uno che parlava italiano, e venne mandato a cercare un cavallo o un mulo per condurre il dragomanno in città. Mentre si aspettava il suo ritorno, ser Lorenzo diede allo Spinelli le ultime istruzioni. Secondo i calcoli fatti prima della partenza, per trasportare tutta la gente del seguito e i bagagli bisognava noleggiare trentasei cavalli.

«Cercate di avere un buon prezzo, ma non contrattate troppo, che abbiamo fretta» raccomandò ser Lorenzo.

«Vorranno una caparra» fece notare il dragomanno. Ser Lorenzo assentì.

«È troppo giusto.» Fece portare il sacchetto dov’erano contenuti i fondi per la missione, ne cavò fuori un certo numero di monete d’oro, le contò accuratamente, e fece firmare una ricevuta allo Spinelli.

«E per la scorta, voi cosa dite?»

Il dragomanno si strinse nelle spalle. Tutti sapevano che per viaggiare nell’impero ottomano senza rischiare vessazioni dalle autorità locali, per trovare facilmente ospitalità nei caravanserragli o in casa dei notabili e non dover mettere continuamente mano alla borsa, bisognava avere degli accompagnatori ufficiali, capaci di attestare che i viaggiatori erano sotto la protezione del Gran Signore e di minacciare punizioni a chi li avesse ostacolati.

«L’ideale sarebbe un ciaus» osservò ser Lorenzo. Con quel titolo i turchi indicavano gli inviati personali del sultano, temuti e obbediti all’istante ovunque si presentassero, con i loro enormi turbanti bianchi e la mazza che era il simbolo del loro rango. Alla notizia che un ciaus era in arrivo presso di lui non c’era governatore provinciale che non tremasse, chiedendosi se gli portava soltanto un ordine da eseguire, oppure la notifica della sua destituzione, e fors’anche un laccio di seta con cui farsi obbedientemente strangolare.

«Tutto sta a vedere se ce n’è qualcuno a Ragusa che debba tornare a Costantinopoli; può anche darsi, ce n’è sempre tanti sulle strade» disse lo Spinelli. «Però costerà molto caro» avvertì.

«E se no, cercate due o tre spahì o giannizzeri» ordinò ser Lorenzo, sapendo che i militari turchi rifiutavano di rado di guadagnare qualche zecchino facendo da scorta ai viaggiatori cristiani, e di bere vino a loro spese finché durava il viaggio. «Ma mi raccomando, dovete trattare senza dire per conto di chi, né dove bisogna andare. Non voglio che i ragusei informino la Porta che un inviato veneziano è in arrivo. Li condurrete a Cattaro, e lì sapranno tutto.»

Qualche ora prima dell’alba il dragomanno partì per Ragusa con un mulo e un servitore, e la galera uscì in mare e fece vela verso sud. A mezzogiorno s’inoltrò nelle acque basse delle Bocche di Cattaro, sfilando davanti alla fortezza turca di Castelnuovo. Tutti guardarono con rispetto e con un po’ di apprensione i poderosi bastioni, da cui l’artiglieria aveva tirato così spesso, durante le guerre del passato, contro i legni veneziani che cercavano di inoltrarsi negli stretti per portare soccorso alla città assediata; ma ora la Serenissima e il Gran Signore erano in pace, e il castello, riconoscendo la bandiera di San Marco che sventolava a poppa, tirò solo un colpo a salve in segno di saluto.

La sera, dopo un lento e tortuoso percorso fra le secche, la galera entrò in porto a Cattaro: da lì in poi, sulla costa, non c’era più nessun porto che non fosse caduto in mano turca. Ser Lorenzo scese a terra e andò a confabulare col governatore, per decidere insieme a lui l’itinerario da seguire nel viaggio terrestre: lì arrivavano notizie fresche dai sangiaccati turchi confinanti, e se ne sapeva sempre di più che a Venezia. Il governatore, che aveva appena finito di cenare, insistè per far preparare una nuova cena e convocò in gran fretta tre o quattro dei più facoltosi mercanti cittadini, per sentire il loro parere. Intorno alla tavola si discusse fino a tarda sera, bevendo la malvasia del governatore.

I mercanti non erano sicuri di quale fosse la strada migliore. Benché si sforzassero di parlare italiano, ogni tanto si consultavano fra loro in lingua slava, e si capiva che volavano parole aspre. Alla fine, il governatore riassunse il parere della maggioranza: era meglio continuare con la galera fino al porto di Alessio, e prendere la via di terra da lì, attraversando il territorio governato dal sangiacco turco di Scutari, anziché imboccare direttamente la strada da Cattaro, attraverso il territorio del sangiacco di Ducagini.

«Peccato!» sospirò ser Lorenzo. «Speravo di non dover risalire in galera. Ma se, come dite voi, la strada non è sicura, passeremo dalla strada di Scutari.»

«Farete bene. Il sangiacco è un buon amico, e con lui si sta da bravi vicini» garantì il governatore; e i mercanti, sollevati, annuirono.

E’ tutto chiaro, pensò ser Lorenzo: il sangiacco di Ducagini deve aver aumentato la percentuale che intasca per chiudere un occhio sul contrabbando, e questa brava gente, che c’è tutta dentro fino al collo, non è ancora riuscita a mettersi d’accordo con lui.

«Voi però» ordinò, rivolgendosi al governatore «manderete subito qualcuno al sangiacco di Scutari, visto che è così buon amico, perché ci faccia la cortesia di scriverci delle lettere di raccomandazione per il viaggio.»

Tornando in galera, ser Lorenzo non potè fare a meno di condividere le sue impressioni col segretario.

«Che banda di galantuomini!» esclamò. «Fra loro e i turchi, non so chi ruba di più.»

«È vero» commentò ser Francesco, ridacchiando. «Ma d’altra parte bisogna compatirli. Vivono qui, si può dire, in bocca dei turchi. Come farebbero a campare senza adeguarsi?»

Il giorno dopo arrivò lo Spinelli da Ragusa. Non aveva trovato giannizzeri, ma s’era messo d’accordo con un trasportatore, un caravanbascì come lo chiamavano i turchi, per noleggiare trentasei cavalli fino a Costantinopoli. L’uomo era venuto con lui per chiudere l’affare; vestiva alla turca ma garantì d’essere cristiano, e disse di chiamarsi Xarco.

Era un uomo di pelo nero, con gli occhi torbidi e due enormi mustacchi su un viso di bevitore. All’inizio era allegro, ma quando seppe che non se ne faceva più nulla si incupì.

«Avevo fatto un buon prezzo! Chi altri vi dava così tanti cavalli a 950 aspri l’uno?» disse duramente, in turco.

«Quanto fa in ducati?» chiese Lorenzo allo Spinelli, dopo che questi ebbe tradotto.

«Quindici zecchini, al cambio di qui» rispose pronto il dragomanno.

«Non è molto davvero» esclamò ser Lorenzo, felicemente sorpreso.

«È che l’aspro si svaluta. Non hanno più argento, e li coniano sempre più leggeri. Per noi che veniamo di Cristianità e abbiamo l’oro è un gran vantaggio. Già adesso, vedrete, quando sapranno che siamo cristiani tutti vorranno essere pagati in zecchini piuttosto che in aspri.»

«Resta il fatto che non partiamo più di qui, ma da Alessio. Chiedetegli un po’ se può farci avere i cavalli laggiù.»

L’interprete tradusse; seguì una lunga e tesa conversazione in turco, di cui ser Lorenzo non capì nulla, tranne che l’altro era sempre più irritato.

«Dice che non si può» tradusse alla fine, sinteticamente, lo Spinelli.

«Ebbene, mandatelo al diavolo» concluse seccamente ser Lorenzo; e fece per alzarsi. Ma l’altro, col viso rosso di rabbia, batté il pugno sul tavolo.

«Tu non mandi me al diavolo, cane veneziano»

proferì, in un italiano stentato ma perfettamente comprensibile.

Ser Lorenzo arrossì, e portò la mano all’elsa della spada.

«Per carità!» gridò il dragomanno; e facendogli letteralmente violenza lo costrinse a sedersi, grazie anche all’aiuto del segretario che aveva fatto lo stesso gesto dall’altro lato.

«Non possiamo trattar male quest’uomo! È figlio d’un fratello dell’agà di Castelnuovo» spiegò, concitato.

«Ma non aveva detto che è cristiano?» chiese ser Lorenzo, sbalordito.

«E con ciò? Qui capita di tutto e non bisogna stupirsi di niente.»

Xarco, parlando mezzo in turco e mezzo in italiano, fece capire che si considerava profondamente offeso.

«E che cosa vuole?» chiese alla fine ser Lorenzo, esasperato, ma deciso a chiudere comunque l’incidente. Il dragomanno rifletté un attimo.

«Gli avevo dato quattro zecchini di caparra. Io direi che se glieli lasciamo, forse può bastare.»

L’uomo scosse la testa e aggiunse qualcosa.

«Ne vuole uno in più» tradusse l’interprete.

«E diamoglielo» concluse ser Lorenzo, sollevato, e mandandolo al diavolo in cuor suo, visto che non poteva farlo ad alta voce.

Rispedito Xarco a Ragusa, vennero assunti otto portatori Per la lettiga che ser Lorenzo s’era portato dietro, in previsione di un viaggio lungo e faticoso. I mercanti, convocati nuovamente a consiglio, suggerirono di portarsi dietro anche un dragomanno per la lingua slava, dal momento che a parlava gran parte delle popolazioni suddite del Turco; ser Lorenzo acconsentì, e venne trovato un messer Vincenzo Pitcovich che dietro adeguato compenso accettò di seguire la spedizione fino a Costantinopoli.

Nei giorni seguenti il vento continuò gagliardo da levante, spingendo la galera verso il mare aperto, e costringendo il sopracomito e il pilota a ordinare frequenti soste.

Nei rari momenti in cui il vento calava, la galera poteva avanzare a remi, e a un certo punto un po’ di maestrale le permise di aumentare la velocità per qualche ora; ma nel complesso ser Lorenzo aveva l’impressione di non andare avanti.

«Non ne posso più di questo modo di viaggiare!»

commentava, quando la gente di mare non sentiva. «Per fortuna ora si scende e si continua a piedi.»

In un villaggio di pescatori sotto Dolcigno, dove s’erano fermati per far legna e acqua, ser Lorenzo stava pranzando ospite del prete, quando un uomo venne a bussare alla canonica e chiese se era lui l’illustrissimo signor Bernardo.

«Sono io» disse Lorenzo, sorpreso. L’uomo cercava proprio lui, e stava andando a Dolcigno, dove pensava di trovarlo; ma scorgendo dalla strada la galera ancorata presso la spiaggia aveva avuto la buona idea di venire a vedere.

Portava due lettere dell’uomo che il governatore di Cattaro aveva mandato al sangiacco di Scutari; ser Lorenzo lesse la prima, e imprecò.

Il segretario e i due dragomanni, che partecipavano al pranzo, lo guardarono sorpresi.

«Ah, una cosa da niente! Sapete il sangiacco di Scutari, quello che è tanto amico nostro, e con cui il signor governatore viveva da buon vicino? Ebbene, si vede che erano un po’ troppo amici, perché è stato sostituito, è già partito, e nessuno sa chi verrà al suo posto.»

«Andiamo bene!» esclamò il segretario.

«Signori, quando si viaggia nel paese del Turco è sempre così, bisogna essere preparati a tutto, aver pazienza e confidare in Dio» disse lo Spinelli. «Ma c’è un’altra lettera, mi pare.»

Ser Lorenzo la dissuggellò e lesse.

«Va meglio! Il nostro uomo, visto che a Scutari non concludeva niente, ha pensato di andare ad Alessio, e ha contattato i trasportatori, dice che di cavalli ce n’è. Ha trovato anche una guida e due giannizzeri, ma non ha concluso nulla, perché chiedono troppo.»

Il gruppo asserenò.

«I giannizzeri, vostra signoria potrebbe anche chiederli all’agà di Dolcigno» suggerì il Pitcovich.

Ser Lorenzo annuì. Il prete da cui s’erano fermati aveva preparato da mangiare sotto un pergolato davanti alla canonica, al riparo dal sole che a quell’ora picchiava duramente; una leggerissima brezza portava un po’ di fresco, e sotto di loro il mare scintillava immobile. Sui pini, tutt’intorno, impazzavano le cicale.

«Come si sta bene qui! Bisognerebbe poterci restare un po’, e non avere una missione da compiere» sorrise ser Lorenzo. Gli altri assentirono ridendo. Il vino del prete era buono e soprattutto fresco di cantina, per cui ne avevano già bevuto parecchio.

«E non doversi più imbarcare su quella maledetta galera» aggiunse lo Spinelli, la cui tosse non era stata guarita dall’umidità delle notti in mare.

«Faremo così» decise ser Lorenzo. «Voi, messer Pitcovich, domani andrete ad Alessio a fermare i cavalli, e a prendere informazioni sulla strada migliore. Voi, invece» continuò, rivolgendosi allo Spinelli, «andrete a Dolcigno a parlare con l’agà, e vedrete di trovare in ogni modo due giannizzeri. Io resterò qui ad aspettarvi. Quando sarà tutto fissato, ci faremo portare in barca ad Alessio con tutta la gente e le robe.»

«E basta con la galera?» chiese lo Spinelli, soddisfatto.

«Basta con la galera» assentì ser Lorenzo; e diede un’occhiataccia al segretario Vianello, che a quella notizia aveva levato comicamente le braccia per ringraziare il Cielo.

 

***