9.

Quando la Loredana entrò nel porto di Candia, che i greci chiamano Iraklion, il sopracomito e il comito avevano perfezionato la versione ufficiale dell’abbordaggio della feluca e quello che ne era seguito: durante la sosta nell’isola alla ricerca dei ladri, erano riusciti a estorcere una soffiata a un informatore, e così avevano potuto intercettare l’imbarcazione con cui i ladri stavano fuggendo. Rimaneva un’unica preoccupazione, far accettare i diecimila zecchini presi ai mercanti come se fossero quelli che gli erano stati consegnati alla partenza; e non era una preoccupazione da poco. Uno zecchino, si sa, è uguale all’altro, cambia solo il nome del doge che l’ha coniato: e poiché la moneta non perde mai il suo corso, in un sacco di quelle dimensioni se ne trovano di tanti dogi diversi, e nessuno si sogna di farci caso. Ma quando la Repubblica fa trasferire dei fondi, il sacco è sigillato, e guai se alla consegna si scopre che il sigillo col leone di San Marco è rotto: come minimo le monete saranno ricontate ad una ad una, e si chiederà comunque conto al portatore di quella rottura. Al conteggio degli zecchini il Loredan era rassegnato, anche se ci sarebbe voluta un’intera giornata; ma qui bisognava spiegare come mai il sigillo non era soltanto rotto, ma sparito del tutto insieme al sacco. Prima di entrare in porto il comandante, che negli ultimi giorni di viaggio cercava di bere un po’ meno, aveva tenuto una conferenza su questo argomento col comito, e quest’ultimo, come al solito, l’aveva consigliato bene: bisognava dire che i topi avevano rosicchiato il sacco, tanto che sulla feluca s’era sfasciato, e i ladri avevano travasato le monete in un sacco nuovo. Negli uffici del governo a Candia la cosa sarebbe passata liscia, dal momento che il denaro era intatto.

I pensieri dei marinai, dei soldati e dei rematori erano di tutt’altro genere. Dopo la divisione del bottino ognuno si trovava in borsa molto più oro di quel che avrebbe immaginato, e il pensiero dominante di tutti era come l’avrebbero speso. Candia era una grande città, un porto dove attraccava ogni sorta di navigli, e dove si trovava di tutto.

Sapendo che dopo l’ingresso in porto sarebbe stato impossibile impedire alla gente di scendere a terra, il Loredan la prima sera fece fermare la galera all’esterno della rada, e il mattino seguente sbarcò con la scialuppa, abbracciando il sacco degli zecchini: il comito gli aveva consigliato di tenersi pronto per tutte le evenienze, persino quella sciagurata di doversela dare a gambe e riprendere il largo, anche se cosa avrebbero fatto in un’eventualità del genere lo sapeva solo Iddio. Quando si presentò agli uffici del governatore, il sopracomito era terreo in volto, ma lo spiegò con una debolezza d’intestini che l’aveva preso durante il viaggio, e da cui stava guarendo. Per fortuna andò tutto liscio come l’olio; la spiegazione di quel che era accaduto venne presa per buona, e l’inevitabile conteggio degli zecchini rivelò dopo cinque ore che non ne mancava neanche uno, sicché il sopracomito venne rimandato alla galera, col permesso di rimanere in porto una settimana a far riposare la ciurma, prima che gli venisse affidata una nuova missione.

La sera stessa, la Loredana entrava trionfalmente nel porto di Candia, e l’equipaggio si accalcava sul bordo pregustando una nottata di festeggiamenti, ad eccezione d’una squadra di marinai e soldati ingrugniti, sorteggiati pubblicamente per restare di guardia a bordo. Per tutti quanti il programma era innanzitutto di andare a bere, giacché il vino di Creta era famoso e di gran lunga migliore di quello che il sopracomito distribuiva con parsimonia nei giorni di festa; poi i pareri si dividevano equamente fra chi intendeva giocarsi ai dadi e alle carte quelle monete d’oro che parevano scottare fra le dita, nella speranza di trasformarle in una fortuna, e chi preferiva senz’altro spenderle in cambio di carne di donna. Ogni volta che un legno entrava in porto, ma soprattutto se si trattava d’una galera, carica di uomini fino all’inverosimile, tutte le taverne e i bordelli di Iraklion si preparavano a una nottata insonne; gli osti preparavano le botti di vino buono e quelle di vino annacquato da servire ai clienti già ubriachi, le mezzane si preoccupavano che le ragazze fossero truccate e profumate come si deve, e protettori e buttafuori provavano col pollice il filo del coltello, perché non si sapeva mai cosa poteva succedere.

Michele non aveva legato con i due rematori che gli erano stati messi accanto dopo la scomparsa di Marco e Giulio.

Erano tutt’e due schiavoni, parlavano poco l’italiano, e avevano sempre qualcosa da commentare nella loro lingua, per cui lui sapeva a mala pena come si chiamavano. Andò a finire che i tre galeotti del banco di dietro lo convinsero ad andare con loro: non sapevano ancora dove, ma innanzitutto a bere, che diamine, e poi si sarebbe veduto. Scesi a terra, vagarono per un po’ nei vicoli del porto; era una notte di luna, dal mare soffiava una brezza che allentava un po’

la calura soffocante, e da tutte le taverne proveniva il brusio intenso degli avventori e il tintinnio dei bicchieri. La prima e la seconda taverna in cui cercarono di entrare erano così piene che non si trovava posto; poi il vecchio, che conosceva la città, li condusse in un dedalo di vicoli oscuri che si allontanavano dalla rada.

«Ecco!» disse alla fine, indicando una porta socchiusa in fondo a una piazzetta silenziosa. Una frasca appesa all’architrave indicava che lì si dava da bere. Spinsero la porta e scesero alcuni gradini, fino a uno scantinato illuminato da poche lampade ad olio. Anche lì si trovavano già parecchi avventori, ma c’era comunque posto; prima di sedersi, però, il vecchio andò fino al bancone in fondo al locale. Era l’angolo più buio, dove l’oste poteva trafficare a suo piacere lontano dagli sguardi degli avventori. Invece dell’oste, però, dietro il bancone c’era una donna robusta, che aggrottò la fronte vedendo i quattro che venivano dritti verso di lei, e poi spianò il volto in un largo sorriso quando riconobbe il vecchio.

«Ma guarda un po’ chi c’è! Zuan Dolce, quanto tempo che non ti vedo. Non sapevo che eri a Candia!» disse. Da come parlava il veneziano si capiva che era italiana, e del resto nessun oste greco avrebbe lasciato la moglie a servire: anche lì, Michele aveva già fatto in tempo ad accorgersene, donne in pubblico non se ne vedevano.

«Siamo arrivati in porto stasera» replicò il vecchio; poi abbracciò la donna, che si asciugò le mani nel grembiule, portò una brocca e cinque bicchieri e sedette con loro al tavolo più vicino. Dopo qualche chiacchiera e un primo giro di vino bianco, il vecchio affrontò l’argomento che stava a cuore a tutti.

«Di’ un po’, dov’è che ci si diverte stanotte, eh? Manco da troppo tempo, devo aggiornarmi.»

La donna rise.

«Dipende da cosa volete fare! Soldi ne avete?»

Il vecchio le mostrò il sacchetto di cuoio che portava al collo, accarezzandolo in modo significativo. La donna rise ancora.

«Bene, allora dovete solo dirmi che cosa preferite! Se volete giocare, andate dal Magnagatti, qui dietro, lì c’è sempre qualcuno che ci sta. Ma se volete qualche altro divertimento, io la stanza al primo piano ce l’ho sempre, e non ci metto niente a far arrivare una ragazza.»

«Una sola?» chiese l’uomo dai capelli unti, con un sorriso lascivo. La donna allargò le braccia.

«Lo vedete com’è stanotte! Di più sarà difficile. Ma niente paura, ve ne faccio venire una che vi basta per tutti.»

Gli uomini cominciavano ad essere eccitati. Michele vide i loro volti lucidi di sudore, i loro occhi ammiccanti e si accorse che provava solo fastidio. Io non devo andarci per forza, pensò. Ma che figura ci faccio? Gli altri mi prenderanno per un lattante…

«Italiana?» chiese il terzo galeotto.

«Greca» rispose la donna. «Ma da leccarsi i baffi, va’.»

«Dài allora, falla venire» decise Dolce. «Poi per andare a giocare c’è sempre tempo.»

La donna si alzò, riempì la brocca dietro il banco, poi scomparve nell’interno buio della casa. I quattro rimasero a bere abbastanza a lungo da vuotare anche quella brocca, parlando poco; ognuno preferiva star solo col suo desiderio, pregustando la soddisfazione che non avrebbe tardato. Tardò un poco, invece, e gli uomini cominciavano a innervosirsi, ma l’ostessa, tornata da un pezzo al suo posto, li rassicurava con gesti fin troppo espliciti. Finalmente dall’interno della casa, che doveva avere un’uscita posteriore, si sentì un rumore di zoccoletti, seguito da un passo pesante d’uomo, e una ragazzina entrò nella stanza, accompagnata da un greco baffuto. L’uomo parlò brevemente con la padrona, diede un’occhiata sospettosa ai quattro seduti al tavolo, poi annuì e disparve. L’ostessa prese per le spalle la ragazza e la condusse dagli uomini.

«Eccola qua, questa è Melissa. Su, non le offrite da bere?

La stanza sopra è pronta, chi vuol salire con lei si accomodi.»

Zuan Dolce prese per mano la ragazza e se la fece sedere sulle ginocchia. Era giovanissima e spaurita, con una treccia nera lucida d’olio avvolta intorno alla testa, e una camiciola allacciata stretta sotto la gola, sotto cui s’indovinavano due piccoli seni.

«Su, bevi» disse il vecchio, riempiendole il bicchiere. La ragazzetta, ubbidiente, bevve. Michele incontrò il suo sguardo e qualcosa che non capì lo fece vergognare acutamente; ma si sforzò di cancellare quel sentimento da femminuccia. Lui era un uomo, altroché se lo era.

«Allora, chi sale per primo?» chiese il vecchio in tono brusco. Gli altri si guardarono.

«Va’ tu, Zuan Dolce» disse poi il terzo rematore.

Michele e l’uomo dai capelli unti assentirono. Il vecchio allargò in un sorriso goloso la bocca sdentata, si tastò il mento per sentire se era ben liscio, giacché quel giorno, in previsione dell’uscita, tutti quanti a bordo si erano sbarbati, poi si alzò e si diresse alla porta. La ragazza lo seguì docilmente, e Michele la accompagnò con gli occhi finché non disparve; rimase per un istante il rumore dei suoi zoccoletti che ticchettavano su per la scala, poi si sentì sbattere una porta, e poi più nulla.

Nello stesso momento, su uno dei moli del porto di Iraklion, il comito della Loredana stava discorrendo a bassissima voce con un altro galeotto; e l’argomento di quella conversazione tenuta al riparo da orecchie indiscrete era proprio Michele. Fin dalla terribile sera in cui aveva ucciso i due ragazzi e sepolto il sacco degli zecchini, il comito sospettava che Michele avesse veduto qualcosa; ma il sospetto non era abbastanza forte da spingerlo ad agire drasticamente. All’arrivo a Candia, però, aveva trovato una novità che l’aveva obbligato a prendere una decisione. Nel corso del suo viaggio la galera aveva perduto molto tempo a causa di vari incidenti, e quel giorno stesso era entrata in porto una fregata partita da Venezia dieci giorni dopo la Loredana. Portava, fra l’altro, un elenco di banditi, cioè di delinquenti condannati al bando da tutti i domini di San Marco, sotto pena di morte se fossero stati ripresi; e il governatore l’aveva notificato al sopracomito Loredan, come prevedeva la procedura.

In sé il fatto non aveva proprio nulla di straordinario: la condanna al bando era inflitta per ogni sorta di reato, i tribunali della Repubblica macinavano veloci e pronunciavano ogni mese decine di sentenze fra la città, la Terraferma e il Dominio da Mar, le cui notifiche si rincorrevano poi di porto in porto, colpendo imparzialmente patrizi e poveracci. Il sopracomito aveva scorso con indifferenza l’elenco, poi l’aveva passato al comito senza commenti; era chiaro che non riusciva ancora a pensare a nient’altro se non alla faccenda dei diecimila zecchini, andata miracolosamente liscia, e quei nomi di banditi non gli avevano detto nulla. Ma il comito era stato colpito da un nome che invece gli diceva qualcosa, e risalendo in galera un rapido controllo sul libro di don Muzio gli aveva confermato che Michele di Matteo muratore, della parrocchia di Sant’Agnese, condannato al bando per infedeltà, era proprio il pianiero del sesto banco destro, il giovanotto che era tornato a bordo trafelato e cogli occhi pieni di paura quella famosa sera sull’isola.

Il comito, a questo punto, si trovava di fronte a un problema che non poteva evitare di risolvere. Anche se il suo superiore, colla solita sventatezza, non s’era accorto di nulla, prima o poi il ragazzo sarebbe stato riconosciuto e arrestato: i termini concessi dal tribunale per uscire dai domini di San Marco erano già trascorsi. Il fatto che la condanna non fosse stata notificata personalmente all’interessato non era una scusante: dopo tutto era colpa sua se si era dato alla macchia invece di lasciarsi arrestare e processare!

Catturato, gettato in prigione, minacciato della forca, il ragazzo se sapeva qualcosa avrebbe certamente parlato. Di fronte a questo pericolo, pensò il comito, la speranza che il suo istinto si sbagliasse e che Michele dopo tutto non avesse visto proprio niente non bastava più; bisognava fare qualcosa, e subito.

Perciò quella sera il comito chiamò un galeotto di cui già altre volte aveva avuto occasione di servirsi in affari da tenere nascosti, e mentre passeggiavano prendendo innocentemente il fresco sul molo gli spiegò di che cosa si trattava.

«Tu sei l’uomo adatto per fare il colpo» concluse. «Non sei tu che l’hai reclutato?»

Il galeotto, che non era altri se non Lupo, ghignò affermativamente.

«Quell’ingrato! Gli avevo promesso di proteggerlo, ma non è mai venuto a cercarmi.»

«Altro che proteggerlo!» sogghignò il comito. «Ora gli farai la festa. Non voglio che stanotte torni a bordo, hai capito?»

«Non sarà mica facile trovarlo già stanotte» obiettò Lupo.

«E’ meglio aspettare la libera uscita di domani sera. Io lo seguirò, e farò un lavoretto pulito.»

Il comito si strinse nelle spalle, scontento.

«Vedi tu. Se non lo trovi stanotte, pazienza. Tu però cercalo lo stesso.»

«Candia è grande.»

«Ma le strade che conducono al porto non sono poi tante. Lupo, ascoltami bene, è un lavoro che va fatto in fretta, cinque zecchini in più se me lo fai fuori già stanotte.»

Gli occhi del galeotto si accesero di avidità.

«Va bene» disse, «ho capito che tocca passare la notte in bianco. Ma vossignoria sa che sono il suo servitore.»

«Va bene. E sta’ attento, sai? Non voglio fastidi.»

Lupo rise.

«A me certe cose non c’è bisogno di dirmele!»

Il vecchio scese fischiettando.

«Allora, a chi tocca?»

L’uomo dai capelli unti si guardò intorno per vedere se qualcuno gli contestava la precedenza. Siccome gli altri due abbassavano lo sguardo, si alzò leccandosi le labbra, si strinse baldanzosamente la cintura e si avviò alla scala.

Zuan Dolce tracannò un bicchiere di vino e lo posò rumorosamente sul tavolo.

«Che soddisfazione» esclamò. «Facciamo una vitaccia, ma vale comunque la pena di vivere, compagni!»

L’altro galeotto rise.

«E com’è?»

«Vedrai!» disse il vecchio, strizzando l’occhio. «E tu?

Pronto a cavarti la voglia?» continuò, rivolto a Michele.

Michele tacque, e bevve.

«È timido, il ragazzino» ridacchiò l’altro.

Continuarono a stuzzicarlo per un po’, ma con poco risultato. Non durò a lungo, del resto, perché si sentì aprirsi e richiudersi la porta di sopra, e un passo giù per le scale. L’uomo dai capelli unti riapparve barcollante nel vano della porta.

«Hai fatto presto!» scherzò il vecchio.

L’uomo sedette di schianto.

«Quella lì ci sa fare!» sbottò.

«Io vado, allora» disse il terzo; e si avviò.

«Per te non resterà più molto» rise l’uomo dai capelli unti, rivolto a Michele. Il ragazzo tacque, e bevve ancora.

«Preparati, perché quella lì lo sbriga in due minuti» lo avvertì il vecchio; ed entrambi gli uomini risero.

Passò un po’ di tempo.

«Oh! Sta durando, l’amico! Non lo facevo così resistente» disse dopo un po’ Zuan Dolce.

«Detto fatto» replicò l’altro; perché la porta di sopra si aprì e si richiuse per la terza volta.

«Ora tocca a te! Vai, ragazzo!» lo incoraggiò il vecchio.

Michele posò il bicchiere vuoto.

«Non ne ho voglia» disse.

I due reagirono con esclamazioni d’incredulità.

«Cos’è, cosa c’è?» chiese il terzo galeotto, che arrivava allacciandosi i calzoni.

«Il ragazzo, qui, dice che non ha voglia di salire» disse beffardo l’uomo dai capelli unti.

«Non sai cosa ti perdi!» disse l’ultimo arrivato. «

Guarda che lei è là che ti aspetta colle gambe larghe», e fece un gesto sguaiato.

«Non ci vado. Non ho voglia» ribatté ostinatamente Michele. Aveva bevuto fino a quel momento, per darsi il coraggio di non salire per quella scala, e di affrontare l’irrisione dei compagni.

«Ma cos’è, sei un uomo o no?» fece il terzo galeotto, sorpreso. Ma rimase ancora più sorpreso quando Michele si alzò in piedi e si appoggiò pesantemente al tavolo.

«Se vuoi te lo dimostro subito, qui fuori» ribatté il ragazzo.

«Ehi! Ehi! Basta!» disse Zuan Dolce, allarmato. «Stasera non è il momento di litigare! Abbiamo appena cominciato a divertirci. Non vuoi salire? Va bene, fatti tuoi! Tu lascialo stare, è solo un ragazzo» disse al terzo.

Regolarono il conto con la padrona e uscirono in strada. L’ uomo con i capelli unti chiese che cosa volevano fare.

«Si va a giocare» disse il vecchio. «Hai sentito la padrona?

C’è la taverna del vicentino qui dietro, me lo ricordo benissimo. Da lui si trova sempre qualcuno che ci sta.»

«Io non vengo» disse Michele, deciso. Gli altri lo guardarono, stavolta francamente seccati.

«Cos’è, hai paura di perdere? Guarda che i principianti hanno sempre fortuna!»

«Non ho voglia, stanotte. Preferisco andare a dormire.»

«Ah, ma ho capito tutto! Ha l’innamorata da qualche parte, e adesso va a trovarla» rise l’uomo dai capelli unti.

Zuan Dolce guardò fisso Michele, poi scoppiò anche lui a ridere.

«Macché! Crepa solo di sonno. Va’ a dormire, ragazzo, se ne hai bisogno. Noialtri ormai campiamo anche senza dormire, ma per i giovani è diverso. Va’ a dormire» ripetè.

Michele si congedò dai tre compagni, si fece indicare la direzione da prendere per arrivare al porto, e s’incamminò per i vicoli deserti.

Quando il comito lo aveva lasciato, Lupo si era guardato rapidamente intorno, e aveva individuato un angolo buio sotto le ultime case che si affacciavano sulla rada. Da lì si poteva tener d’occhio il movimento di soldati, marinai e galeotti fra le imbarcazioni alla fonda e i vicoli adiacenti al porto. I cinque zecchini di premio gli facevano gola, ma fare il colpo non era affatto facile. Aspettando l’indomani, avrebbe potuto parlare con il ragazzo a bordo della galera, e inventare qualche scusa per convincerlo a ritrovarsi con lui a terra la notte seguente, senza che nessuno ci facesse caso: ben difficilmente si sarebbe potuti poi risalire fino a lui, quando il mancato ritorno di Michele avesse provocato un allarme.

Nessuno sapeva quanto a lungo la Loredana sarebbe rimasta in porto, e con un po’ di fortuna potevano passare diversi giorni prima che l’assenza del ragazzo fosse notata; anche se le notti cominciavano a farsi più fresche, molti degli uomini finché ne avevano la possibilità preferivano ancora dormire a terra, ben avvolti nel cappotto, in qualche angolo riparato, piuttosto che nel carnaio di corpi della galera.

Forse solo al momento di partire il parone, facendo l’appello, si sarebbe accorto che Michele mancava, e anche allora avrebbe pensato semplicemente che aveva disertato; lo scrivano avrebbe annotato il fatto sul suo libro, e si sarebbe diviso col parone il credito del ragazzo, truccando i conti in modo da far risultare che l’aveva liquidato in precedenza; e nessuno si sarebbe più preoccupato di lui. Ma farlo fuori già stasera, pensava Lupo, era un’altra faccenda; quello lì era certamente sceso a terra in compagnia, e difficilmente sarebbe tornato a bordo da solo. Attirare la sua attenzione senza farsi notare da nessuno era impossibile, e Lupo era troppo prudente per correre rischi. Il posto d’osservazione che s’era scelto, però, gli fece venire un’idea. Con un po’ di fortuna, da lì poteva veder arrivare Michele, e attirare la sua attenzione chiamandolo dal buio, senza che gli altri fossero in grado di capire chi era stato a chiamarlo, tanto più, si disse con un sogghigno, che sarebbero certamente stati tutti ubriachi. Se poteva fare in modo che Michele lo raggiungesse in quell’angolo, e che gli altri se ne tornassero a bordo senza aspettarlo, il più era fatto. Perciò si sedette sui calcagni, badando a tenersi bene nell’ombra, e si preparò ad una lunga attesa. In un’altra epoca, avrebbe fumato una sigaretta dopo l’altra; ma allora il tabacco non era ancora stato introdotto dall’America. Lupo tirò fuori dalla tasca uno stuzzicadente d’osso, e cominciò a frugarsi fra i denti: anche quello aiutava a passare il tempo.

Quando, con l’avanzare della notte, la gente cominciò a tornare a bordo, Lupo senza togliersi lo stecchino di bocca aguzzò lo sguardo e si preparò all’azione. S’era alzato un po’ di vento, e un branco di nuvole scorreva nel cielo, velando a tratti la luna; ma il galeotto aveva l’occhio acuto. Un gruppo dopo l’altro sbucava dai vicoli, barcollando più o meno clamorosamente a seconda del vino ingurgitato, e si dirigeva verso le imbarcazioni alla fonda.

Molti, arrivando all’acqua, si guardavano intorno, sceglievano un angolo riparato e si buttavano a dormire. Se anche Michele avesse deciso di dormire al fresco, si poteva pensare di tagliargli la gola nel cuore della notte; ma col rischio che qualcuno fosse sveglio e se ne accorgesse, e con la certezza che comunque l’indomani l’assassinio sarebbe stato scoperto e aperta la caccia al colpevole. No, si disse Lupo, bisogna intercettarlo prima che salga a bordo o che si metta a dormire, e convincerlo a venire con me, poi so ben io come farlo sparire in modo che per un po’ nessuno si accorga di nulla.

Subito dopo si immobilizzò, lo stecchino stretto fra i denti. Non credeva alla sua fortuna: era proprio lui, ed era solo.

Era sbucato da una direzione inattesa, quasi alle spalle di Lupo, e ora gli passava davanti così vicino che con pochi passi avrebbe potuto raggiungerlo. Per un attimo l’istinto del cacciatore gli fece venir voglia di tirar fuori il coltello, raggiungerlo con quattro salti, accoltellarlo sul posto e sparire; ma si trattenne, rendendosi conto che era un piano insensato. Invece si alzò in piedi senza fare rumore, e fischiò piano. Per fortuna in quel momento sulla banchina non c’era nessuno, e Michele non potè non sentirlo.

Eppure continuò a camminare, e Lupo si accorse con stizza che era troppo ubriaco, o troppo assorto nei suoi pensieri, per badare a quello che sentiva. Un’irragionevole rabbia contro quella vittima che si rifiutava di collaborare gli fece digrignare i denti. Ti faccio vedere io, pensò con odio. Poi, senza arrischiarsi fuori dal cono d’ombra, chiamò a mezza voce.

«Ehi! Ragazzo!»

Stavolta Michele sentì, si fermò e si guardò intorno. Lupo arrischiò un rapido movimento fuori dall’ombra.

«Qui! Vieni un po’ qui!»

Michele esitava e Lupo si rese conto che, a meno di essere completamente brillo, non c’era nessun motivo perché obbedisse a un invito così inquietante. Perciò uscì allo scoperto e gli sorrise.

«Non aver paura, sono il tuo vecchio amico Lupo» disse.

Michele lo fissò accigliato, poi la fronte gli si spianò.

Istintivamente l’uomo non gli era mai piaciuto, e dopo la faccenda del pizzo che era stato costretto a pagargli all’imbarco aveva deciso di non aver più a che fare con lui; ma comunque non era uno sconosciuto.

«Che c’è?» chiese.

«Devo parlarti. È una cosa grossa» improvvisò Lupo.

Come avrebbe continuato non lo sapeva, ma l’importante era che il ragazzo venisse fin lì, si lasciasse prendere sottobraccio e condurre via. Quella fila di case, lui lo sapeva bene, sul retro si affacciava su un canale di scolo; lì l’acqua era così densa e fetida che non si vedeva a un palmo di profondità. Quando l’avessero trovato, avrebbero pensato che era caduto dentro ubriaco, ed era affogato in quel metro e mezzo d’acqua.

Michele ne aveva troppe, di cose grosse che gli pesavano addosso, per non credere a quello che gli diceva l’uomo.

Si mise in allarme, ma la curiosità era più forte; e anche la paura, anziché trattenerlo, lo spingeva ad accettare l’invito.

Non sapeva di che cosa volesse parlargli Lupo, se della sua fuga da Venezia di cui era stato testimone inconsapevole, o forse dell’uccisione di Marco e Giulio e del seppellimento dei diecimila zecchini, o magari, chissà, della strage della feluca turca; ma di qualunque cosa si trattasse, Michele per la sua stessa sopravvivenza aveva bisogno di saperlo.

«Vieni qua» ripetè l’assassino, facendo segno con la mano; e Michele si mosse verso di lui.

 

***