22.
Per tre giorni Michele rimase nascosto nel casotto, sepolto fra le ortiche e i ragni, in un caldo soffocante. Il villaggio era in preda alla disperazione; anche se i cristiani avevano portato via soltanto gli abitanti turchi, tutte le case erano state devastate e saccheggiate, e diverse donne stuprate.
Gli spahì dei dintorni che erano accorsi a combattere i corsari si erano divisi i prigionieri e se n’erano tornati allegri alle loro proprietà; i mercanti ebrei, tornati dalla boscaglia dov’erano riusciti a fuggire, avevano fatto riportare in magazzino il cotone, ma l’agà, che aveva perduto tutte le sue donne, era impazzito di dolore, e gli abitanti se ne stavano chiusi in casa, spaventati e istupiditi. Prima di ripartire, i turchi ordinarono al prete ortodosso, che durante il dramma se n’era rimasto chiuso a chiave in cantina, di ospitare in casa sua e rimettere in sesto i galeotti musulmani liberati. Anche Marni e Cazzogrosso, quando uscirono in piazza e raccontarono, in turco, la loro storia, vennero accolti benignamente, e benché il primo fosse un ebreo e il secondo un negro ebbero lo stesso trattamento degli altri. Il secondo giorno un fabbro venuto da un casale vicino segò l’anello che tutti quanti portavano alla caviglia, e gli ex schiavi sostituirono i berretti e le camiciole rosse con roba usata messa a disposizione dai contadini.
Nella casa della ragazza violentata c’era un continuo andirivieni di donne, e giorno e notte ne uscivano lamenti; per fortuna nessuno era andato a curiosare nel casotto, ma Marni e Cazzogrosso non sapevano come fare per portare da mangiare o almeno da bere a Michele.
«Morirà, con questo caldo» prevedeva il negro, preoccupato.
Alla fine decisero di correre il rischio di raccontare tutto al prete. Il brav’uomo si spaventò moltissimo, e dichiarò che lui non voleva averci nulla a che fare; ma i due, insistendo, si fecero dare un pane e un bricco di latte, e la seconda notte, col pretesto di uscire a respirare per il caldo, si spinsero fino al nascondiglio. Michele era mezzo morto per la sete, e trangugiò avidamente il latte che gli avevano passato attraverso il tettuccio sfondato.
«Cercate di farmi uscire di qui» disse poi, con voce rauca.
«Non so se ce la faccio ancora a lungo.»
Quella notte, in un angolo della chiesa che era stata riempita di paglia per far dormire i galeotti, i due amici discussero sul da farsi.
«Ragioniamo» diceva Marni. «Lui è un veneziano, non c’è nessun motivo che gli facciano qualcosa.»
«Hai torto» obiettò Cazzogrosso. «Lui innanzitutto è un galeotto cristiano, col ferro al piede. Se lo prendono capiranno subito che era uno dell’Aquila, e lo rivenderanno come schiavo.»
«Allora per prima cosa bisogna togliergli il ferro. E poi portarlo via di qui, in città, dove nessuno baderà a lui.»
Il giorno dopo il prete andò a dire all’agà che oramai quegli uomini si erano tutti ripresi, e che per l’amor di Dio desse loro ordine di andarsene da casa sua, perché lo stavano rovinando. L’agà sputò di disprezzo, ma venne egualmente in chiesa a vedere. Era un uomo anziano, grasso, con pochi capelli incanutiti e un’espressione di sofferenza che non lo abbandonava dal giorno della tragedia.
«Ebbene, musulmani!» disse ai galeotti che si erano alzati rispettosamente in piedi al suo ingresso. «Adesso siete uomini liberi, che cosa volete fare?»
Gli uomini, impacciati, non sapevano cosa rispondere. La maggior parte erano stati schiavi dei cristiani così a lungo che non avevano più nessun posto dove andare. L’agà spiegò che a Cipro, dopo le terribili perdite che la popolazione aveva subito al tempo della guerra, c’era lavoro per tutti, e che il sultano concedeva aiuti a quei musulmani che desideravano stabilirsi nell’isola. Se invece qualcuno preferiva partire, era libero di cercarsi un passaggio e andarsene con Dio. In ogni caso, il suo consiglio era di andare in città, a Nicosia, a registrarsi, e lì vedere quali occasioni il destino avrebbe portato.
Gli uomini, dopo una breve discussione, decisero di fare così. L’agà promise che li avrebbe accompagnati per un tratto, e avrebbe donato dieci aspri per ciascuno, per mantenersi durante il viaggio; al che tutti caddero in ginocchio, baciandogli le mani e le falde del vestito.
«Partirete domani; anzi no, il giorno dopo: domani rimettetevi ancora in forze a spese di questo cristiano!»
ordinò l’agà, e tutti risero; tranne il prete, che ascoltava dalla sacrestia e che si mise le mani nei capelli.
«Che cosa facciamo?» chiese Cazzogrosso a Marni.
«Bisogna trovare il modo di andare via di qua per conto nostro. Se andiamo con loro non possiamo certo far uscire fuori Michele. Ho trovato! Che stupido a non pensarci prima: si vede che non sono stato ebreo abbastanza a lungo.
Cos’è che fa un ebreo in questa situazione?»
Il negro lo guardò perplesso.
«Chiede aiuto agli ebrei del posto! Non importa quanto possano essere avari, fra ebrei ci si aiuta sempre.»
Il giorno stesso Marni andò dai mercanti ebrei, padroni del magazzino, a raccontare la sua storia. I mercanti, due fratelli, lo ascoltarono con diffidenza. In vita loro avevano veduto molte specie d’uomini, ma un ebreo come quello non lo avevano ancora incontrato. Per fortuna non erano teologi neppure loro, perciò non pensarono di esaminarlo troppo a fondo sulla sua fede; ma si vedeva che non desideravano fastidi.
«Che cosa vuoi da noi?»
«Una lettera di raccomandazione, signori carissimi, per Poter arrivare a Nicosia e là trovare un passaggio per la terraferma
«Noi non ti conosciamo» disse il maggiore dei due fratelli. «Se proprio vuoi, la lettera te la facciamo, ma scriveremo che non possiamo garantire per te.»
«Mi basta poter dire all’agà che parto per Nicosia con una vostra lettera, e perciò me ne andrò già stasera, io e i miei due compagni, senza aspettare gli altri.»
In quel momento una donna venne a portare tre bicchierini di raki su un vassoio. Erano bicchierini minuscoli. I due fratelli ne presero uno ciascuno, e indicarono il terzo a Marni.
«Che non sia l’ultimo!» disse l’ospite, e tutti bevvero.
«E perché vuoi proprio partire senza aspettare gli altri?
E chi sono questi compagni? Sono ebrei anche loro?»
Apprendendo che si trattava di un negro musulmano e di un cristiano italiano, i due si rannuvolarono ancora di più.
«No, fratello, qui c’è qualcosa che non va, tu adesso raccontaci la verità, altrimenti va a finire male» disse il maggiore, asciutto.
Trovandosi così imbrogliato, Marni finì per confessare tutto. I due mercanti impallidirono, e cominciarono a sudare.
«Andiamo bene! Un fuggiasco infedele nascosto qui al villaggio! Non lo sai che c’è da finire sul palo?»
«Questa è la situazione, ormai non ci si può più far niente. Ma se voi mi aiutate, domani saremo lontani.»
«E perché dovremmo aiutarti?» intervenne il fratello minore, in tono aggressivo.
«Per carità» disse Marni.
I due mercanti, ora, erano davvero adirati.
«No, fratello, tu ora te ne vai di qui, e di corsa, e non tornare mai più a farti vedere. Noi non sappiamo nulla e non abbiamo sentito nulla.»
Con la forza della disperazione, Marni ribatté: «Se me ne vado di qui, e cerco di far uscire dal villaggio il cristiano senza il vostro aiuto, è probabile che ci scoprano.
E se ci prendono vedranno che sono ebreo, e non crederanno mai che non mi avete aiutato. Io lo dirò. I due fratelli?
dirò; i mercanti? Certo che mi hanno aiutato, loro sapevano tutto; a chi altri potevo rivolgermi? Così dirò.»
I due si guardarono.
«E invece se ti aiutiamo partirai stanotte?»
«Sì, illustrissimo» confermò Marni.
«E cosa ti serve?»
«Signore, stanotte noi possiamo far uscire il nostro amico dal suo nascondiglio; non sarà difficile, il muro è di fango e il tetto è già mezzo crollato. Il problema è l’anello, non possiamo farci vedere sulla strada di Nicosia finché lui ha l’anello alla caviglia. Dovreste far venire il fabbro, fargli giurare il segreto, e segar via l’anello.»
«E poi?»
«E poi scrivere una lettera ai vostri soci di Nicosia, dicendo che l’ebreo Marni e i suoi due compagni sono stati liberati dalla schiavitù, e che li raccomandate perché possano trovare un passaggio per mare.»
Il mercante lo guardò, stringendo le labbra.
«Va’ fuori. Io e mio fratello dobbiamo parlare.»
Marni uscì, e la donna che aveva servito il raki lo fece sedere su una panca. Ma non dovette attendere a lungo: i mercanti lo richiamarono dopo pochi minuti.
«Va bene» gli dissero. «Faremo tutto quello che ci hai chiesto, per amor di Dio. Ma poi bada di non farti mai più rivedere.»
Marni cadde in ginocchio e baciò le mani a entrambi.
«Verremo appena farà buio» promise.
Quella notte Michele, più morto che vivo, venne estratto dal casotto e portato al magazzino. Lì i mercanti avevano fatto portare del vino, della minestra di lenticchie e dell’halvà; dopo aver saputo che era a digiuno da tre giorni, avevano paura che non fosse abbastanza in forze da poter partire subito, e avevano una gran fretta di liberarsi di lui. Il fabbro venne, dopo aver giurato di tenere il segreto, e segò l’anello, dopodiché i tre amici si misero in cammino.
Michele, rivestito con una camicia usata e un berretto di lana da pescatore, zoppicava e si teneva in piedi a stento, tanto che dovettero dargli un bastone. Lasciato il casale camminarono per poco più di un’ora, poi dovettero fermarsi a dormire sul ciglio della strada, perché Michele non ce la faceva più. Oltre alla lettera, i mercanti avevano dato loro una bisaccia con qualcosa da mangiare e un otre di vino, e una manciata di aspri, per essere ben sicuri che arrivassero a Nicosia, dove nessuno avrebbe fatto caso se fra i galeotti liberati dalla galera cristiana c’era un uomo in più o in meno.
Nei giorni successivi i tre amici camminarono di buon passo, fermandosi a dormire soltanto nelle ore più calde del pomeriggio, comprando da mangiare nei casali e viaggiando durante le ore notturne; la famosa lettera di raccomandazione era un documento sufficiente a cavarli d’impaccio se avessero incontrato un posto di guardia, ma Marni e Cazzogrosso temevano soprattutto che gli altri galeotti, partendo dal casale freschi e riposati, potessero raggiungerli, nel qual caso rischiavano che Michele fosse riconosciuto e denunciato.
Per sei giorni marciarono in mezzo a montagne aride e inospitali; in molte zone la rada vegetazione era ridotta a monconi d’alberi bruciati e la landa era coperta di cenere bianca, per gli incendi provocati dalla calura estiva. Poi, finalmente, discesero nella pianura di Nicosia, e avvicinandosi alla città cominciarono ad attraversare un paesaggio più civilizzato, con campi di cotone e aranceti. Alla sera del settimo giorno entrarono in città; la lettera, che raccontava la loro liberazione dalla schiavitù e li indirizzava al capo della comunità ebraica, fu consegnata ai soldati del posto di guardia, insieme agli ultimi aspri che rimanevano nella bisaccia, e grazie a questa precauzione fu giudicata sufficiente per farli entrare in città.
Era l’ora della preghiera serale, e da tutti i minareti i muezzin chiamavano i fedeli. Michele, che non aveva mai sentito niente del genere, rimase stranamente colpito, tanto più vedendo i turchi che per strada interrompevano le loro faccende, srotolavano, se l’avevano, il tappeto da preghiera, e si mettevano carponi, mentre gli abitanti greci ed ebrei, pur girando rispettosamente al largo, continuavano a fare gli affari propri. Cazzogrosso si cercò un angolo non troppo sudicio e s’inginocchiò anche lui, mentre Marni e Michele attendevano a poca distanza.
«A casa non lo facevo mai!» confessò il negro ridendo, quando la preghiera fu conclusa. «Ma adesso mi pare che sia il caso di ringraziare Dio!»
«E fate così tutte le sere?» s’informò Michele, curioso.
«Tutte le sere? Cinque volte al giorno, vuoi dire!»
rispose Cazzogrosso, orgoglioso.
Michele fischiò.
«Bisogna avere del tempo da perdere!»
Per fortuna il negro non se la prese.
«Ognuno fa a modo suo» disse, filosofico.
Mentre cercavano la casa di rabbi Abram Abravanel, capo della comunità ebraica, videro che Nicosia, benché piena di abitanti, di botteghe e magazzini, di chiese e moschee, mostrava ancora parecchi segni della guerra di vent’anni prima, del bombardamento e del terribile saccheggio, in cui l’intera popolazione cristiana era stata uccisa o ridotta in schiavitù. Nella piazza della cattedrale cattolica, che le autorità ottomane avevano trasformato in moschea, i palazzi nobiliari costruiti in stile veneziano erano ancora diroccati e disabitati, i cortili pieni di macerie e d’erbacce, sui muri le tracce dell’incendio. I tre si fermarono a guardare a bocca aperta.
«La guerra!» commentò Marni.
In quel momento un uomo sbucò da una viuzza e si fermò a guardare con loro. Era vestito come un contadino, ed era piuttosto alticcio. Fece un gesto col braccio, e disse qualcosa in greco. Quando vide che non lo capivano, lo ripetè in turco.
«Dice se abbiamo visto cos’è successo» tradusse Marni a Michele. Sentendo parlare italiano, l’uomo fece un salto.
«Sei italiano?» disse a Michele, con ostilità.
Michele annuì, sulla difensiva.
«Veneziano» disse. L’uomo sputò con disprezzo.
«Hai visto cos’è successo ai veneziani?» esclamò, in un italiano stentato, mostrando con un largo gesto della mano le facciate diroccate dei palazzi. «Loro tenevano i contadini come schiavi. Proprio come schiavi» ripetè. «Non erano padroni, erano diavoli. Li facevano lavorare come bestie.
Ed ecco cosa gli è successo: sono venuti i turchi, e li hanno ammazzati tutti» concluse, soddisfatto.
«Dài, andiamo» disse Marni; e tirò via gli altri due.
«Tutti! Non ne è scampato neanche uno!» gli gridò dietro l’ubriaco.
Quando furono lontani, Marni diede una gomitata a Michele.
«Vedi che non ti conviene restare qui. Cipro non è posto per un veneziano.»
«È vero» riconobbe Michele, asciutto.
Durante il viaggio i tre avevano parlato a lungo del loro futuro. Marni era deciso a tornare a Costantinopoli, e con l’aiuto dei suoi correligionari ci sarebbe riuscito senza dubbio, ma in fondo al cuore aveva paura di quello che avrebbe trovato; mancava da diciott’anni, e chissà che ne era stato, nel frattempo, di sua moglie e delle sue figlie. Ma soprattutto, se le avesse ritrovate non avrebbe mai potuto confessare d’essersi fatto ebreo: i musulmani, come i cristiani, punivano con la morte l’apostasia.
«Ebbene, mi rifarò turco. È un po’ che ci sto pensando.
Ho nostalgia della moschea» diceva il bizzarro uomo.
Cazzogrosso non aveva nessun posto dove tornare; a Tunisi era stato schiavo, ora invece era un uomo libero.
«Resterò qui. Se è vero che c’è lavoro per tutti, mi sistemerò» dichiarava sorridendo.
Michele, quanto a lui, dopo la loro inaspettata liberazione dalla galera aveva escogitato un nuovo piano. Sapeva che a Costantinopoli risiedeva in permanenza un bailo mandato da Venezia, per rappresentare il governo della Serenissima e curare gli interessi dei mercanti veneziani. Se fosse andato a presentarsi da lui, avrebbe potuto raccontargli la faccenda dei diecimila zecchini della Loredana senza correre il rischio di entrare in territorio veneziano, dove poteva essere arrestato in qualunque momento. Se davvero quel denaro poteva essere il prezzo della sua libertà, era meglio scoprirlo lì, dove le autorità veneziane non potevano fargli niente. Agli amici non poteva raccontare la verità, ma finse di lasciarsi sedurre dagli argomenti di Marni, che voleva convincerlo a venire con lui a Costantinopoli, anziché restare a Cipro con Cazzogrosso.
«Qui ci sarà anche lavoro, ma alla Città c’è tutto il mondo» diceva con gli occhi sognanti. «Là, non sai mai che occasione può capitarti.»
Discutevano ancora quando giunsero alla casa di rabbi Abram. Era un ricco palazzo, che testimoniava l’importanza del suo possessore.
«Gli ebrei stanno bene qui» non potè fare a meno di osservare Michele, con una punta di acrimonia. Marni lo guardò, sorpreso.
«È grazie a questi ebrei che potrai trovare un lavoro o un passaggio in mare! È una fortuna anche per te che stiano bene, mi pare.» Michele capiva di aver detto qualcosa di ingiusto, ma era stato allevato tutta la vita a provare odio e disprezzo per gli ebrei, e non gli era facile liberarsene.
Certo, anche Marni era ebreo, almeno per il momento, ma lui era diverso. La faccenda era troppo complicata. Michele si strinse nelle spalle, imbarazzato.
Rabbi Abram fece fare ai tre una lunga anticamera; era occupato in un colloquio con un segretario del beylerbeyi, il governatore turco di Cipro, e colloqui del genere, da cui di solito il segretario usciva con la borsa più pesante di prima, erano una parte essenziale dell’attività politica del rabbino. Quando finalmente li ricevette, aveva l’aria stanca ma soddisfatta, e si vedeva che desiderava liberarsi rapidamente di quegli importuni; tuttavia ascoltò senza dare segni di impazienza. Marni, che conosceva il mondo, abbreviò al massimo il suo racconto, e mostrò la lettera. Il rabbino la scorse rapidamente.
«Ebbene!» disse, benevolo. «Che cosa posso fare per voi?»
«Illustrissimo» disse Marni, «io e il cristiano vorremmo imbarcarci per Costantinopoli. Ci aiuti, e Dio la ricompenserà. Il moro, invece, vorrebbe trovare lavoro qui.»
Il rabbino lo osservò con attenzione.
«Un ebreo, un musulmano e un cristiano» disse pensoso. «Sembra davvero che Qualcuno mi voglia mettere alla prova! C’è una novella…» ma s’interruppe. «Cosa potete saperne, voi? Ma raccontami qualcosa di più su di te, ebreo Da dove vieni?»
Marni si trovò in grave imbarazzo. Si era chiesto a lungo se fosse meglio, trattando con gli altri ebrei, raccontare la vera storia della sua conversione, oppure fingere d’essere ebreo dalla nascita, e aveva deciso che questa seconda soluzione era la migliore. S’era anche inventato una storia fittizia, per cui i suoi genitori, ebrei di Costantinopoli, erano morti quando lui era bambino, ed era stato allevato dalla carità dei vicini, per cui non ricordava nulla della sua famiglia né del suo paese d’origine. Il rabbino lo ascoltò fino in fondo, poi, d’un tratto, gli rivolse la parola non più in turco, ma in una lingua che Marni non conosceva. Marni, smarrito, rimase lì con un sorriso ebete.
«Se sei un ebreo di Costantinopoli, come mai non parli il ladino?» chiese severamente il rabbino, ritornando al turco. Michele, che di tutta la conversazione non poteva capire una parola, guardava ora Marni, ora il rabbino, ora Cazzogrosso, che il turco invece lo parlava e aveva cominciato a sudare.
Marni tentò di giustificarsi.
«Illustrissimo, io so che i miei non venivano dalla Spagna, venivano dall’Oriente, io non so da dove, forse perfino da Baghdad, il vostro ladino non l’abbiamo mai parlato!»
Il rabbino tacque per un po’, osservandoli. L’impressione che si trattasse di tre truffatori l’aveva avuta fin dall’inizio, e ora gli si confermava. Dovrei farli cacciare in strada, e ordinargli di non farsi più rivedere, pensò. Ma si accorse che non aveva voglia di farlo. Non era meno faticoso, dopo tutto, aiutarli? Chiedevano così poco, e anche quella sarebbe stata un’opera gradita a Dio. E forse, chissà, Dio glieli aveva mandati apposta, quei tre, per mettere alla prova la sua carità. Pareva davvero la novella del Boccaccio, che il rabbino aveva letto molti anni prima, in traduzione castigliana, e non aveva mai più dimenticato. Un rabbino, e le tre religioni del Libro…
«Non dire più niente» decise bruscamente. «Non voglio sapere altro. Vi aiuterò, per amor di Dio. Tu, moro» disse, rivolgendosi a Cazzogrosso, «vuoi lavorare? Nei miei magazzini c’è sempre bisogno di braccia. Ti darò un biglietto per il mio amministratore. Voi due invece volete andare a Costantinopoli? Ebbene, vi raccomanderò. Il mese prossimo dovrebbe arrivare un galeone da laggiù, a caricare cotone. Se glielo chiedo io, il padrone vi prenderà a bordo, ma dovrete lavorare, anche remare se necessario, capito?»
I tre caddero in ginocchio e gli baciarono le mani.
«Va bene, basta così» sospirò il rabbino. «Ora andate di sotto, vi daranno da mangiare e da dormire.»
Più tardi, mentre mangiavano una minestra di fave e riso, i tre si guardarono commossi.
«Le nostre strade si separano» disse Marni.
«Sapete?» disse Cazzogrosso. «Dice il Corano che l’ebreo e il cristiano che compiono azioni buone saranno anch’essi salvati. Finora non avevo capito, mi pareva impossibile.
Ma adesso ho capito» concluse, con gli occhi lucidi.
«Io questo non l’ho mai sentito dire» dovette ammettere Michele. «Ma ora ci credo anch’io» aggiunse; e si soffiò il naso nella manica della camicia, per nascondere la commozione.
***