13.

A Venezia era un inverno di fame. Due anni consecutivi di cattivi raccolti avevano lasciato i magazzini vuoti. La Signoria comprava grano in Levante, negli immensi latifondi dei pascià turchi; il sultano, preoccupato per il vettovagliamento di Costantinopoli, aveva proibito l’esportazione dal suo impero, ma per fortuna i pascià non volevano rinunciare a quel guadagno. Non ci rinunciava nemmeno il Gran Visir, che pure aveva promulgato personalmente il divieto a nome del Gran Signore. Una moltitudine di piccole imbarcazioni private, sciabecchi, feluche e caramussali, faceva la spola fra gli scali turchi di Volos e Salonicco portando di contrabbando il grano alle isole veneziane di Creta e di Zante, da dove era caricato sulle navi e portato a Venezia. Era un traffico pericoloso, ma redditizio per i padroni delle imbarcazioni, e quando arrivava nei magazzini di Palazzo Ducale e dell’Arsenale il grano era aumentato di prezzo all’inverosimile, ma almeno c’era. Il governo lo distribuiva a prezzo calmierato: ci perdeva, ma evitava di esasperare la piazza, e quella era la cosa più importante di tutte.

La città era piena di mendicanti, e quasi ogni mattina si trovava un morto, di fame e di freddo, nel cantiere del nuovo ponte di Rialto o sotto i portici del Palazzo, dove i poveri si rifugiavano per cercare un po’ di riparo. Una volta era un immigrato rimasto disoccupato e cacciato dalla bottega dov’era a servizio, un’altra una madre di famiglia rimasta senza l’uomo e finita nella strada. Ma anche la gente che lavorava faceva fatica a mangiare abbastanza; presso tutti i monasteri si distribuiva ogni giorno la minestra, e fra i poveri che facevano la fila c’erano anche onesti artigiani.

Bianca e le altre donne che abitavano da Margherita andavano tutte insieme, a mezzogiorno, al monastero dei Celestini, il più vicino a casa loro; il quartiere era popoloso, la coda in piedi al freddo interminabile, ma almeno la zuppa era calda, spessa e abbondante. La sera, quel che avevano guadagnato lavorando tutto il giorno bastava per cenare; così si tirava avanti, aspettando tempi migliori.

Un giorno Bianca arrivò a casa, ansimando sotto il peso della gerla di biancheria che portava sulle spalle, e Margherita aprendole la porta vide che tremava. Bianca era dimagrita in quei mesi, la pelle sugli zigomi era diventata meno luminosa, più opaca, ma la vedova non l’aveva mai vista così scossa.

«Ma che c’è? Cosa ti è successo?»

Venne fuori che Bianca, non sapeva come, aveva perduto al lavatoio o per la strada dei capi di biancheria. Se n’era accorta quando aveva consegnato il bucato a casa d’un mercante per cui lavorava tutte le settimane; insieme con le domestiche aveva contato e ricontato, e poi era tornata indietro a cercare, ma non c’era stato niente da fare: dei pezzi mancavano, e bisognava ripagarli. Bianca era disperata.

«Io non ho più un soldo! Come faccio?» ripeteva, fra le lacrime.

Le donne si riunirono a consulto. L’unica cosa che Bianca possedeva ancora, oltre ai vestiti che portava addosso, erano gli orecchini del matrimonio.

«Bisogna impegnarli» conclusero tutte. Non ce n’era una che in vita sua non fosse stata parecchie volte al Monte di Pietà, a impegnare gli orecchini o la catenina, la cintura o la borsetta. Daniela esaminò con attenzione gli orecchini alla luce della candela.

«Due o tre ducati te li danno» decretò. Bianca era disperata all’idea di separarsi dagli orecchini: era l’ultimo ricordo che le rimaneva di Michele, ma capiva benissimo che non c’era altro da fare.

«Forse è meglio venderli» disse, coraggiosamente. «Se li impegno, dove li trovo i soldi per riscattarli? Fra un anno e mezzo me li vendono, e addio!»

«Un anno e mezzo è lungo!» obiettò Lucrezia. «Magari torna il tuo uomo!»

Bianca sorrise e scosse la testa, fra le lacrime.

«Se torna, non voglio che debba pensare a ripagarmi gli orecchini! No, è meglio venderli, mi daranno di più, no?»

«Il doppio» disse Daniela, con aria esperta.

«State a sentire» intervenne la vedova. «Venderli non è il caso. So io cosa è meglio fare. Al ghetto c’è un’ebrea che fa prestiti su pegno, è da lei che bisogna andare.»

«Un’ebrea!» fece Bianca, spaventata.

«Ma se gli ebrei per legge sono obbligati a vendere il pegno già dopo un anno, peggio del Monte!» obiettò Daniela.

«Sai che vantaggio!»

La vedova scosse il capo.

«Ma questa qui è brava. Se sa che sei una donna in difficoltà, dopo un anno ti rinnova la scadenza senza chiederti niente. Lo ha fatto anche con me.»

«Un’ebrea? Non ci credo!» disse Lucrezia, con disprezzo.

«Credimi pure!» si scaldò la vedova. «È una donna buona, anche se è ebrea. È vedova anche lei, senza uomo, e sa cosa vuol dire. Va’ da lei» proseguì, rivolta a Bianca. «Va’ al Ghetto Nuovo e chiedi di donna Regina Calimani. Raccontale tutto, dille che ti mando io. Si ricorda di me. Vedrai che ti sto consigliando bene.»

Così il giorno dopo alle prime luci dell’alba Bianca mise gli orecchini dentro un cencio e uscì in strada. Il Ghetto Nuovo non era lontano e quando arrivò le guardie avevano appena aperto il grande portone ferrato che la notte chiudeva gli ebrei nel loro quartiere e impediva ai cristiani di entrare. Una volta in quel dedalo di vicoli, bottegucce e casamenti sovraffollati non ebbe difficoltà a trovare la sua meta: tutti, lì, sembravano conoscere donna Regina. La casa dei Calimani era un palazzetto malandato, con un albero frondoso e un pozzo nel cortile; una domestica fece salire Bianca fino al primo piano, dove la padrona di casa sedeva in una stanza ben riscaldata, dietro un tavolo carico di scartafacci. Era una donna anziana e molto grassa, che respirava a fatica, e guardò con simpatia la giovane che stava rispettosamente in piedi davanti a lei. Bianca non era mai entrata nel ghetto in vita sua, e all’inizio era spaventata; scansava la gente ed evitava di sfiorare i muri, come se avesse avuto paura che le si attaccasse la peste. Ma la bontà che brillava negli occhi dell’anziana donna la rassicurò; sicché svolse il fagottino, facendo rotolare gli orecchini sul tavolo, e chiese quanto poteva avere. Donna Regina li prese, li guardò un istante, poi li pesò con una minuscola bilancina da orefice.

«Hai molto bisogno?» chiese poi, invece di dire una cifra. Bianca arrossì.

«Un po’» disse.

«Tuo marito non lavora?» insistè la donna, guardandole l’anello al dito.

«È in mare» disse Bianca. Da quella sera in cui la vedova le aveva insegnato l’incantesimo della bacinella, si era convinta che era davvero così, benché non avesse avuto notizia di Michele dal giorno in cui era scomparso. L’ebrea annuì.

«Lo so. Sono tempi brutti se una deve cavarsela da sola.

Facciamo trenta lire.»

Bianca fece rapidamente il conto: erano più di tre ducati.

«La ringrazio» disse, commossa.

La donna alzò le spalle.

«Se sapessi» disse vagamente; poi s’interruppe. Al piano di sopra s’era sentito un rumore, come di qualcosa che fosse caduto sul pavimento. Donna Regina sembrava allarmata.

«Beatrice, vieni un momento, se puoi!» chiamò. La domestica, che era in cucina, salì le scale in fretta e si affacciò, pulendosi le mani nel grembiule.

«Va’ su a vedere se rabbi Salomon sta bene, ho sentito che si sta muovendo» disse la padrona. La domestica scomparve.

«Mio suocero, che Dio lo prenda con sé quando sarà il suo giorno» spiegò donna Regina. «Ha più di ottant’anni, è diventato come un bambino. Che farci!» concluse; poi aggiunse qualcosa in una lingua che Bianca non capì.

«Allora» disse poi, come riscuotendosi. «Vediamo di fare la scrittura. E tu, guarda, lì c’è una seggiola. Siediti.»

Bianca esitò un attimo, poi sedette sulla punta della seggiola che le era stata indicata. Non solo la donna le ispirava fiducia, ma la stanza era assolutamente simile a qualsiasi altra stanza che le fosse capitato di vedere in una casa veneziana; niente permetteva di capire che era una casa d’ebrei. Quello che non le era mai capitato di vedere, invece, era una donna che scrivesse con tanta disinvoltura; fra le sue dita grasse e inanellate la penna d’oca pareva volare. In pochi minuti l’atto fu steso.

«Come ti chiami?»

«Bianca.»

«E poi?»

«Mio padre si chiamava Francesco da Vicenza.»

La donna scrisse un’altra riga.

«E tuo marito?»

«Michele di Matteo muratore.»

«Sai fare la firma?»

Bianca scosse la testa.

«Metti una croce qui. Aspetta, ti tengo io la mano. Non è difficile, vedrai. Pronta?»

Bianca, ubbidiente, impugnò la penna e fece il segno di croce, guidata dalla mano ferma della donna.

«Ecco! E adesso contiamo le tue trenta lire.»

Donna Regina aprì un cassetto e cominciò a tirarne fuori monetine d’argento e di rame, facendone due mucchietti separati. Le contò e ricontò, poi disse a Bianca: «Porgi il fazzoletto. O hai il borsellino?»

«È troppo piccolo» disse Bianca, mostrandolo.

La donna spinse le monete nel fazzoletto, poi lo annodò destramente.

«Ecco qua. E bada di non perderlo! Ma cos’hai?»

Bianca, infatti, s’era messa a piangere.

«Su, su! Cosa c’è?» ripeteva la donna, maternamente; ma Bianca continuava a piangere. Non sapeva neppure lei perché; era arrivata lì piena di paure, e la semplice cordialità con cui la donna l’aveva trattata le aveva d’un tratto spezzato qualcosa dentro.

«Non lo so! Mi scusi! È che…»

La donna l’abbracciò.

«È dura per tutti di questi tempi, bambina. Vedrai che quando torna tuo marito andrà tutto meglio.»

Bianca annuì, fra i singhiozzi.

«Ti darei un bicchiere di vino» disse donna Regina; e aggiunse subito in fretta, vedendo che Bianca s’irrigidiva: «ma è proibito, lo so. Voi cristiani non potete né bere né mangiare in casa nostra. Manca solo una legge che vi proibisca di piangere, magari prima o poi faranno anche quella»

aggiunse, con amarezza.

Bianca si asciugò le lacrime con la manica della camicia e si alzò.

«Non so come ringraziarla» disse, cercando di sorridere.

«Niente» replicò la donna. «Ah, senti un po’!» aggiunse, richiamandola. «Io sto cercando una domestica cristiana. Non conosci mica qualcuna che vorrebbe venire a servizio da me?»

Bianca spalancò gli occhi.

«Ma non è proibito?» balbettò.

«No» disse donna Regina. «Ti sembra strano, eh? Ma il fatto è che noi abbiamo bisogno di domestici cristiani per essere serviti il sabato. Il sabato noi non possiamo fare niente, neanche accendere il fuoco o la candela, non possiamo cucinare. Il Signore lo ha voluto. Perciò chi può assume dei cristiani, non è vietato. Però anche loro non possono mangiare né bere a casa del padrone, e neanche dormirci la notte, si capisce: devono tutti uscire dal ghetto prima che si chiudano le porte. Allora, se conosci qualcuna mandala da me, d’accordo?»

All’improvviso Bianca ebbe un’idea folle. Quella donna le piaceva così tanto che tutti i suoi pregiudizi erano svaporati in un istante. Il tono materno con cui aveva parlato non solo a lei, ma anche alla domestica l’aveva toccata nel profondo; quando era stata a servizio da Faustina, non era certo così che la trattava la padrona.

«Non potrei venire io, signora?» disse tutto d’un fiato.

Donna Regina sorrise e scosse la testa.

«Ma tu sei troppo giovane, bambina mia. Non ti lasceranno mai venire.»

«Perché?» chiese Bianca, stupefatta. La donna rise, ma d’un riso amaro.

«Non te lo immagini? Hanno paura. I giovani possono essere influenzati. E le donne giovani corrono più pericoli delle vecchie.»

«Ma io non corro nessun pericolo! La prego, signora, mi provi!»

«Non hai capito» disse la donna. «Devi fare domanda al magistrato, loro ti convocano e ti esaminano, poi se gli sta bene ti danno il permesso di venire a lavorare al ghetto. Ma a te non lo daranno mai.»

«Mi lasci provare!» esclamò Bianca. Donna Regina cercò di dissuaderla, ma vedendo la sua ostinazione si rassegnò. Le spiegò come si chiamava la magistratura a cui doveva rivolgersi, e in quale palazzo aveva i suoi uffici; poi la congedò.

Bianca s’inchinò e uscì; donna Regina continuò a guardarla con tenerezza, scuotendo la testa, finché non fu scomparsa.

Fu così che il giorno dopo Bianca si presentò alla sede degli Ufficiali al Cattaver, i magistrati che sorvegliavano le gare d’appalto, l’esazione delle gabelle e l’attività degli usurai, e che da un po’ di tempo s’intromettevano anche nella vita privata degli abitanti del ghetto, col pretesto che la maggior parte degli usurai erano appunto ebrei. Dopo quattro ore di anticamera, l’usciere l’introdusse nell’ufficio dove tre magistrati, tutt’e tre abbastanza giovani, avevano appena finito di fare colazione. Un domestico stava portando via i resti del pasto e i bicchieri di vino; uno dei tre si puliva i denti. Tutti quanti guardarono con interesse la giovane donna che s’era fermata in piedi sulla soglia«Vieni avanti» disse il presidente, che era il più giovane di tutti. Bianca obbedì, disse chi era, e spiegò perché era venuta. I tre aggrottarono la fronte.

«E perché vuoi andare a lavorare dai giudei?»

«Ho bisogno di lavorare» disse Bianca. «La signora donna Regina ha detto che vuole una domestica cristiana per accendere il fuoco il sabato» aggiunse, tutto d’un fiato.

«Ma tu quanti anni hai?» chiese il presidente.

«Diciassette» disse Bianca. I tre si guardarono e scossero la testa.

«Cos’è, uno scherzo? Non lo sai che bisogna avere almeno quarant’anni per poter servire in casa degli ebrei?»

«Ma perché?» chiese Bianca, ingenuamente.

«Come perché? Quelli sono gente pericolosa, aspettano solo di avere a che fare con una persona giovane, che non sa niente, per attirarla dalla loro parte!»

«Ma che cosa fanno di male? A me sembrava che la signora donna Regina fosse una donna buona» obiettò coraggiosamente Bianca.

«Non c’è nessun ebreo buono!» ribatté seccamente il presidente. «E dicendo così tu stai dimostrando proprio quanto sarebbe pericoloso lasciarti andare in casa sua!»

«Senza contare» disse quello che si stava pulendo i denti «l’altro pericolo.»

Bianca lo guardò interrogativa.

«La tentazione! Non t’immagini cosa può succedere a una donna giovane in casa di giudei?»

Bianca voleva rispondere che se era per questo, si sapeva fin troppo bene cosa capitava alle serve in tutte le case, anche quelle dei cristiani; invece obiettò: «Ma lì è la casa di una donna!»

«E non ci sono uomini?»

«C’è il padrone vecchio, ma ha ottant’anni!»

«Tu non li conosci i giudei, quelli ci danno dentro anche a ottant’anni» disse volgarmente uno dei tre; e tutti risero.

«Basta perdere tempo» concluse il presidente. «La risposta è no, e ora vattene. Se vuoi lavorare, cercati un posto in casa di cristiani, capito?»

Bianca s’inchinò e uscì.

Nei mesi seguenti non solo Bianca, ma tutte le pigionanti della vedova si misero a cercare una casa in cui entrare a servizio, perché nessuna ce la faceva più a mantenersi col suo lavoro. Il mese di marzo fu il più freddo a memoria d’uomo, e bisognò comprare altra legna, e intanto il prezzo del pane continuava ad aumentare, mentre tutti attendevano angosciosamente di capire come sarebbe andato il nuovo raccolto. Ma c’erano troppe donne che cercavano lavoro, e nessuna di loro riuscì a trovarlo; perciò la piccola comunità si assottigliò. L’orfanella neonata che allevavano per conto della Pietà morì dopo aver tossito disperatamente per tre giorni, e anche quella piccola fonte di reddito disparve. Daniela decise all’improvviso di tornarsene al suo paese, nel Polesine, e nessuno riuscì a trattenerla: fece fagotto e sparì. Marta, che oltre a se stessa doveva mantenere anche il bambino, non sapeva più come fare; cercò una bottega in cui collocare il bambino come garzone, ma era ancora troppo piccolo, e nessuno lo voleva. Mentre cercava, però, incontrò un giovanotto delle sue parti: un poco di buono, dissero tutte la prima volta che venne a cercarla a casa per invitarla a uscire, ma lei si ostinò a dire che non era vero, era tutta invidia perché lei aveva ritrovato un uomo, e dopo un po’ di tempo anche lei fece fagotto, prese il bambino per mano e sparì. A occupare il suo letto venne un’altra donna con due bambini piccoli, che campava mendicando; parlava poco, e non era pulita, ma pagava regolarmente la pigione, e la vedova non poteva permettersi d’essere schizzinosa.

Bianca, che al lavatoio continuava a guadagnare appena abbastanza per nutrirsi di pane nero, fu molto colpita dalla nuova pigionante, e nelle serate che si andavano un po’ per volta allungando riuscì a farle raccontare la sua storia. Si chiamava Chiara, ed era la vedova d’un carpentiere; finché il marito era vissuto, la famiglia stava bene, perché come tutti i carpentieri di Venezia quando non aveva lavoro a bottega aveva il diritto di presentarsi all’Arsenale e farsi pagare la giornata, che ci fosse o no qualcosa da fare.

Ma quando il marito si era ammalato ed era morto il pane era mancato subito; Chiara era tornata dai suoi genitori, ma dopo un po’ anche loro erano morti, i suoi due fratelli le avevano detto senza mezzi termini che c’era da mangiare appena abbastanza per le loro famiglie, e siccome non aveva imparato nessun mestiere si era messa a mendicare.

«Non è mica una brutta vita» affermò, con un sorriso grinzoso. «Al freddo e al caldo ti abitui subito. Bisogna solo difendere il posto, è tutto lì. Io sono sempre la prima, al mattino, sulla gradinata di Santa Maria Formosa, e guai a chi prova a togliermi di lì. Alla fine la tua giornata te la sei guadagnata. Di’ un po’, vuoi venire anche tu? A una bella ragazza gli uomini la fanno volentieri, l’elemosina.»

«Davvero mi prenderesti con te?» disse Bianca, senza riflettere.

«Certo» rispose la mendicante. «Poi però si fa a metà, chiaro?»

L’indomani era domenica, e non si lavorava comunque.

Perché no, pensò Bianca. Il denaro avuto dall’ebrea stava diminuendo rapidamente, e quando fosse finito non avrebbe più saputo nemmeno come pagarsi il letto. Cosa c’era di male a mendicare, dopo tutto? Solo domani, e solo per provare…

«Dài» disse, cercando di sorridere. La vedova e Camilla, che cucivano, la guardarono a lungo, ma non dissero niente.

L’indomani, prima dell’alba, la mendicante la scosse.

I bambini erano già in piedi, coi loro stracci addosso, e piagnucolavano come sempre per la fame; la madre gli dava da mangiare soltanto la sera, perché di giorno facessero più pietà.

«Anche tu, se mi dai retta, non mangiare» disse a Bianca, che aveva tirato fuori il suo tozzo di pane. «Se hai l’aria affamata piaci di più. E le scarpe lasciale a casa.»

Uscirono nel buio, scalze, tirandosi dietro i bambini.

Bianca aveva dormito poco, per l’eccitazione, la paura e la vergogna, ma ora sentiva soprattutto il freddo e l’umido dell’ora mattutina. Camminarono a lungo per le calli ancora deserte, fino alla piazza di Santa Maria Formosa.

«Ecco! Mettiti qui» disse Chiara, accovacciandosi sui gradini. Bianca la imitò, cercò di scaldarsi con le mani i piedi intirizziti dal freddo, poi si avvolse stretta nello scialle e attese, trepidante.

Si era aspettata di vergognarsi molto quando la gente passando, avrebbe cominciato a lanciarle occhiate pietose ma si accorse che non era così. Agli occhi di chi entrava in chiesa a dire una preghiera o ad accendere una candela era solo una mendicante senza nome. La prima volta che una donna le mise in mano una monetina ringraziò mormorando una giaculatoria, come le aveva insegnato Chiara, e anche quella diventò subito un’abitudine. Il freddo era pungente, ma raggomitolandosi contro la donna e i marmocchi riusciva a resistere; il peggio era la fame, ma quando si rese conto che le monetine accumulate nel grembiule erano già abbastanza per una razione di pane, ed era solo metà mattina, riuscì a farsi forza, inghiottendo saliva.

«Guarda che non è mica sempre così» l’avvertì Chiara.

«Oggi è domenica, e di domenica bisogna riuscire a far su abbastanza per tre giorni.»

La sera, quando divisero il guadagno, a Bianca rimase effettivamente abbastanza per comprarsi tre giorni di pane.

«Che ti dicevo? In questo mestiere bisogna saper fare i conti, cara mia» disse la donna. Quanto a lei, aveva guadagnato abbastanza per comprare anche un po’ di vino, e stava preparando sul focolare una zuppa di pane per i bambini. Quando fu pronto sedettero a mangiare, tutt’e quattro insieme, e Chiara versò un fondo di zuppa anche a Bianca. Margherita, Camilla e Lucrezia, che avevano già mangiato, cucivano nell’altro angolo della stanza, parlando fra loro. Fin da quando Chiara era arrivata, lei e i suoi bambini avevano mangiato per conto proprio; le altre dicevano che erano sporchi, e mandavano cattivo odore. Bianca, che aveva pensato allo stesso modo, si accorse all’improvviso che ora non ci faceva più caso. Sono già diventata anch’io come loro, pensò.

 

***