17.
Ci vollero parecchie settimane perché l’Aquila, riparati i danni, fosse pronta a riprendere il mare. Il problema maggiore furono i remi: ognuno di quei bestioni enormi, fatti per essere maneggiati da almeno tre uomini, era fabbricato con un unico tronco di faggio, e fra tutte le botteghe di rendere di Otranto non se ne trovarono più di otto già pronti; gli altri bisognò fabbricarli apposta, mandando ad abbattere gli alberi nei boschi della Sila e trasportando fin lì i tronchi, a un prezzo tale che messer Ettore si strappava i capelli. Poi, quando tutto fu pronto, la galera venne spalmata di sego, per rendere la chiglia più scivolosa e acquistare velocità nell’acqua; un sistema di carrucole e puleggie permise di inclinarla accanto al molo, mezzo sollevata in aria, e un barcone passava lungo la parte della chiglia rimasta scoperta, con un calderone di sego fuso e due uomini che spalmavano, mentre sul molo altro sego veniva fatto fondere nelle caldaie, e la ciurma si accalcava il più lontano possibile per sfuggire al fumo, al puzzo e alla calura. L’operazione venne compiuta a gran velocità, in meno di due giorni, perché i piloti avevano avvertito che il vento era buono ma non sapevano quanto sarebbe durato; e finalmente una sera verso il tramonto la galera uscì in mare.
Quando il pilota otrantino che li aveva condotti fuori si congedò e risalì sulla sua barca per tornare in porto, il comandante chiamò nella cabina Pasquale e il pilota di bordo. Sul tavolo aveva spiegato la carta nautica, e poiché c’era vento l’aveva fermata con il sestante e con l’orologio.
«Sentite un po’, voi due» disse. «Ho deciso che andiamo ad appostarci fuori Valona, e vediamo di fare qualche buon colpo. Qualcuno di voi la conosce, quest’isola?»
Col dito mostrò un’isoletta che sembrava sbarrare l’ingresso del porto di Valona. Il pilota annuì.
«Non c’è un granché. È disabitata. Però c’è qualche caletta, e acqua se ne trova.»
«Anche sul lato che non si vede dal porto?»
«Mi pare di sì.»
«E legna ce n’è?»
«Da quello che mi ricordo, è tutta macchia.»
Messer Ettore annuì, soddisfatto.
«Va bene! Andiamo a metterci lì, stabiliamo un posto di guardia sulla punta dell’isola, e la prima barca che arriva da giù la prendiamo. Da quello che mi hanno detto a Otranto, c’è abbastanza traffico in questo periodo lì a Valona.»
«C’è traffico soprattutto di grano, ho sentito»
commentò Pasquale, asciutto. Il grano, in genere, non era un carico così prezioso da valere la spesa d’una spedizione.
«Sai che ti dico, Pasquale? Coi tempi che corrono, anche il grano mi andrebbe bene. Il raccolto non sarà buono neanche quest’anno, si vede benissimo. Finirà che sarà più facile smerciare un carico di grano piuttosto che di panni, vedrai.»
Pasquale non era d’accordo, ma non poteva dirlo, perciò tacque rispettosamente. Se fossi io il comandante di questa galera, pensò, non andremmo in cerca di grano! Ma anche questa era una cosa che non valeva nemmeno la pena di pensare; dove s’era mai visto che un comito, un pezzente qualunque venuto su fra i marinai, potesse diventare comandante di galera? Una volta qualcuno gli aveva detto che fra i turchi succedeva precisamente così, e che spesso un comito che sapeva il suo mestiere veniva promosso rais; ma quelli, si sa, erano barbari.
«C’è un’altra cosa» continuò messer Ettore. «Dalle notizie che avevano a Otranto, non c’è peste per adesso a Costantinopoli, ma in Siria e in Egitto sì. Perciò quando prendiamo una barca, prima di salire a bordo ricordiamoci di sentire da dove viene, d’accordo?»
Gli altri assentirono, scambiandosi un’occhiata significativa. La peste c’era sempre, in un luogo o nell’altro di questo vasto mondo, e soprattutto nell’impero del Turco come per una punizione di Dio contro quegli infedeli; ma un conto era saperlo in teoria, un altro sapere che in pratica ci si poteva trovare a incontrare in mare un legno che si portava il contagio a bordo.
«Speriamo in bene!» concluse Pasquale; e si sforzò di sorridere.
I piloti avevano avuto ragione: il secondo giorno di navigazione, quando già si vedevano avvicinarsi le montagne della costa albanese, il cielo si rannuvolò. Messer Ettore aveva tossito per tutta la notte, e anche adesso, mentre scrutava l’orizzonte, tossiva.
«Vitaccia di galera!» borbottò, di malumore.
Pasquale, chiamato a consulto, giudicò che non sarebbero riusciti a raggiungere l’isola prima del temporale. Il capitano degli archibugieri, che ascoltava, si fece il segno della croce. Dopo la tempesta, una buona metà dei suoi uomini avevano disertato, e quelli che restavano non avevano affatto l’aria allegra.
«Se prendiamo un’altra burrasca, non rispondo più di nessuno» disse seccamente. «Cercate di portarci al riparo.»
Messer Ettore e Pasquale lo guardarono di traverso. I loro sguardi dicevano chiaramente: e che ci possiamo fare? La gente di terra comunque non capisce e non capirà mai nulla! Più che altro per dare soddisfazione al capitano, e dimostrare che s’era fatto tutto il possibile, la ciurma venne lo stesso messa sotto pressione. Pasquale si piantò a gambe larghe in mezzo alla corsia, e soffiò nel fischietto. «
All’arrancata!» urlò. La voga all’arrancata era la più faticosa per i rematori che ad ogni giro dovevano dare uno strappo al remo con tutta la forza anziché lasciarsi semplicemente cadere all’indietro trascinandolo col loro peso. La galera, che già aveva il vento in poppa, aumentò impercettibilmente la velocità; ma il cielo si stava oscurando troppo in fretta.
Dopo qualche minuto cominciarono a cadere grosse gocce di pioggia, e qualcuno dei soldati, pallido come un cencio, s’inginocchiò a pregare. Michele, teso per lo sforzo e lucido di sudore, trovò comunque il tempo di dire a Cazzogrosso: «Mi pare che si spaventi un po’ presto, questa gente!»
Da quando era in galera, non solo gli si era sviluppata poderosamente la muscolatura delle cosce e degli avambracci, ma aveva anche imparato a gestire il fiato in modo tale che anche durante lo sforzo più duro riusciva a scambiare qualche commento coi vicini. Il negro assentì; anche lui, come tutti a bordo tranne i soldati, sapeva leggere i segnali del cielo, e distinguere un temporale da una burrasca.
«Balleremo un po’» disse, «e certo si starebbe meglio in porto. Ma alla fine ci bagneremo e basta.»
Dopo un po’ il vento era così forte che l’Aquila dovette ammainare, per evitare d’essere sbilanciata dalle raffiche, e continuò a procedere soltanto a forza di remi. Ora pioveva fitto, e non si vedeva a un tiro d’archibùgio, tanto che l’isola, che prima era parsa vicina, era scomparsa dietro la cortina d’acqua. Messer Ettore, dopo essersi consultato col pilota, decise che era meglio restare lì al largo anziché cercare di accostarsi a terra in quelle condizioni. Così venne ordinato di sospendere la voga, e tutti, fradici e infelici, rimasero in attesa che il temporale si calmasse, mentre le onde sbattevano la galera come un guscio di noce.
Finalmente, improvviso com’era arrivato, il temporale cessò. Una lama di cielo azzurro balenò fra le nuvole, e subito dopo vi si affacciò il sole, che tramontava dietro la bassa linea lontana della costa pugliese. Davanti a loro si profilava netta la montagna che domina la rada di Valona, e ancor più vicina, raggiungibile in forse mezz’ora, l’isoletta senza nome dove messer Ettore aveva deciso di stabilire la sua base. Vennero alzate le vele, per risparmiare la ciurma, giacché si trovavano pur sempre in acque ostili, e guai se la galera si fosse fatta sorprendere da un nemico superiore con i rematori stracchi; e il vento, che era molto calato, sospinse pigramente l’Aquila verso la sua meta. A bordo tutti quanti cercavano di asciugarsi all’ultimo sole, strizzando le camicie e le brache inzuppate; il capitano degli archibugieri verificava le armi dei suoi uomini, prendendo a male parole quelli che nel temporale non erano riusciti a tenere asciutte la polvere e le micce.
«Cosa faremmo se adesso ci venissero addosso i turchi, eh? E voi sareste dei soldati!» imprecava; e sputò.
Il pilota, affacciato a poppa, un braccio al di sopra della testa del timoniere, gli indicava la direzione da prendere per doppiare un piccolo capo che sbarrava la strada alla galera.
«Non tanto in là, bada! Che c’è una secca. Tieniti più a filo che puoi. Ecco, vai così, vai così che vai bene.»
Un istante dopo l’Aquila superava il capo, scoprendo una meravigliosa caletta azzurra, bordata di sabbia candida. E
all’improvviso parecchie voci si misero a gridare, non per la bellezza mozzafiato della rada, ma perché all’ancora all’altra estremità c’era un vascello.
«Una galera!» urlò messer Ettore; poi si corresse all’istante. «No! Una galeotta! Sarà un corsaro! Dài che lo prendiamo! Voga!»
Al comando di Pasquale i galeotti si misero tutti insieme a remare, mentre i pochi archibugieri che avevano ancora le armi in grado di funzionare si affollavano a prua, e i cannonieri, riemersi dalla stiva dove avevano giocato a carte per due giorni, si affaccendavano ad aprire una cassa di palle.
La galeotta doveva essersi rifugiata nella cala per sfuggire al temporale, e per garantirsi maggiore stabilità aveva disalberato, smontando il suo unico albero; l’ultima cosa che si aspettava era di poter essere attaccata di sorpresa.
Molta della sua gente era a terra, impegnata senza dubbio a far legna e acqua; si vedeva che i turchi più vicini correvano sulla spiaggia per raggiungere la barca che stava staccandosi dalla riva per tornare a bordo, mentre altri correvano all’impazzata in tutte le direzioni. Sembrava che il corsaro non avesse la minima speranza di salvarsi, così senza vele e con tanti uomini sbarcati; ma i marinai e i soldati che dalla prua dell’Aquila non staccavano gli occhi dalla galeotta ebbero un’esclamazione di rabbia vedendo che il vascello disalberato si muoveva, e prendeva il largo senza aspettare la barca, da cui provenivano urla e gesti disperati. Il rais, evidentemente, aveva deciso di sacrificare gli uomini a terra pur di salvare tutto il resto; si fidava dei suoi rematori e aveva calcolato bene, perché la galeotta cominciò subito a guadagnare terreno. Pasquale, che era corso anche lui a prua e aveva la vista acuta, contò rapidamente.
«Ventidue banchi» stabilì. «Non la prendiamo più.»
L’Aquila, con i suoi venticinque banchi, aveva appena tre remi in più per parte, ma era più pesante della galeotta e portava molta più gente a bordo; con un robusto vento in poppa avrebbe potuto raggiungerla, ma in quella giornata di bonaccia non c’era nessuna speranza. Messer Ettore, che per l’eccitazione aveva smesso di tossire, fece una smorfia di delusione.
«Tira alla barca» disse poi al cannoniere, indicandogli la scialuppa che aveva ormai rinunciato a raggiungere la galeotta, e cercava di uscire in mare per conto proprio, sperando di passare inosservata. Il cannone dell’Aquila sollevò uno spruzzo poco distante dalla barca; un secondo tiro, lungo, piombò nell’acqua poco al di là.
«Aspetta, vediamo se hanno capito l’antifona» disse il comandante, fermando l’artigliere che si preparava al terzo colpo. La barca, infatti, prevedendo d’essere colpita aveva rinunciato a puntare al largo e s’era buttata verso la spiaggia; uno o due uomini a bordo s’erano perfino gettati in mare, e ora nuotavano verso la riva.
«Accostiamo» ordinò messer Ettore. «Signor Annibale» disse poi al capitano degli archibugieri, «prepari i suoi uomini, che scendiamo a terra e andiamo a prendere quella gente.»
La galeotta, ormai giunta al largo, stava alzando il suo unico albero, e pochi minuti dopo era così lontana che s’intravvedeva appena il triangolino bianco della vela. L’Aquila voltò la prua verso la riva, e si accostò prudentemente. Il pilota e Pasquale, col filo a piombo, misuravano la profona’ mentre a prua i cannonieri puntavano i pezzi verso spiaggia. La maggior parte dei turchi rimasti a terra erano spariti nella macchia; ne restava in vista solo qualcuno che scaricava inutilmente l’archibùgio contro la galera in avvicinamento.
«Sei braccia. Ferma!» disse il pilota. I rematori si fermarono, il timoniere manovrò, e la galera, spinta dall’abbrivo, ruotò lentamente su se stessa. Ci volle un po’ per riportarla, a forza di remi, a puntare verso la riva, in modo che i cannoni di prua potessero tenerla sotto tiro.
«Cala la barca!»
Gli archibugieri si accalcarono nella barca messa in mare, e messer Ettore li seguì, insieme al loro capitano.
«Pasquale! Tira su quella gente, sgombrami la spiaggia!»
ordinò messer Ettore, calcandosi il cappello in testa e saggiando con la mano l’elsa della spada. Poi la barca, con sei marinai ai remi, cominciò ad avvicinarsi alla riva. I turchi tirarono qualche archibugiata, ma le palle caddero in acqua a grande distanza. Poi il pezzo principale dell’Aquila, una colubrina che sparava palle da cinquanta libbre, tirò con gran fragore. La palla andò a inabissarsi nella spiaggia a poca distanza dai turchi, sollevando un gran getto di sabbia, seguita dopo un istante dalle palle dei pezzi più piccoli. Un attimo dopo la spiaggia era vuota. La barca remò fino a due passi dalla riva, poi gli uomini saltarono in acqua e rapidamente si schierarono in formazione; messer Ettore e il capitano degli archibugieri li precedevano con le spade sguainate.
Affondando nella sabbia, i soldati avanzarono fino alle dune coperte di arbusti che chiudevano la vista dal mare; lì si allargarono a ventaglio, lasciando una decina di passi fra un uomo e l’altro, e cominciarono a inoltrarsi nella macchia. Dalla galera i marinai seguivano con attenzione la caccia, commentando ad alta voce e scommettendo, mentre la barca tornava indietro per caricare altri soldati. Ogni tanto dal folto della macchia si sentiva echeggiare uno sparo, oppure uno scoppio d’urla rivelava che la preda era stata trovata. La barca aveva appena sbarcato sulla spiaggia un’altra dozzina di soldati quando si videro due archibugieri spuntare sulle dune spingendo avanti a sé tre uomini seminudi, con le mani legate dietro la schiena. Sospinti sulla barca, i tre vennero portati a bordo, mentre già alla spiaggia ne arrivavano altri. L’intera faccenda durò meno di due ore; alla fine tutto l’isolotto era stato rastrellato, e quattordici turchi portati sull’Aquila.
Messer Ettore li esaminò uno per uno nella cabina di poppa, prima che fossero ferrati alla caviglia e messi al remo; la galera aveva già tre galeotti per banco, ma sui sedili c’era spazio per un quarto, e i remi erano predisposti con quattro maniglie.
«Che dici, Pasquale?» diceva soddisfatto il comandante, quando ne trovava uno particolarmente muscoloso. «Questo a Messina ce lo pagheranno bene cento scudi, o no?» I prigionieri erano tutti marinai o giannizzeri, gente solida e abituata a stare in mare, il tipo di schiavo che si vendeva bene.
«Altri due o tre colpi così, e siamo in pari con le spese»
calcolava messer Ettore; e Pasquale assentiva. Ma oltre a valutare la sua merce, il comandante voleva sapere con chi aveva avuto a che fare. I più svegli fra i prigionieri vennero interrogati, senza bisogno d’interprete, nella lingua franca a base d’italiano storpiato che tutti più o meno masticavano nel Mediterraneo. Un giannizzero un po’ più anziano degli altri, con una lunga cicatrice che gli attraversava la faccia dal mento fino al sopracciglio, e qualche filo candido nei lunghi mustacchi cadenti, confermò che il loro legno era una galeotta corsara, con base a Durazzo.
«E il rais chi è?»
Il turco disse che si chiamava Ali Ginoves. I due genovesi si guardarono.
«Un rinnegato, vero?»
Il turco confermò, e del resto gran parte dei rais delle galeotte corsare, tanto nel Levante quanto in Barberia, erano rinnegati cristiani, la cosa non era un segreto per nessuno.
«Ali Ginoves» ripetè messer Ettore, pensieroso. «Mi pare di averlo già sentito, questo nome.»
«Ma certo!» esclamò Pasquale. «L’ho già sentito anch’io.
Aspetti! Non è uno di Recco?»
«Bregante! Gregorio Bregante, che fu catturato da Uccialì a Tunisi: ne ho sentito parlare ancora di recente, è proprio lui.»
Il giannizzero, che seguiva la conversazione senza capire nulla, sentendo quel nome annuì vigorosamente.
«Sì, sì» confermò allegro, «Gregorio!»
«Ma guarda un po’» disse messer Ettore. Era compiaciuto come se avesse ritrovato un vecchio amico. «Me lo ricordo benissimo, era parone d’una fregata. Guarda un po’!»
ripetè. «E così, fa base a Durazzo?»
Il prigioniero confermò che la galeotta stava annidata in quel porto, e non lasciava passare un vascello cristiano senza attaccarlo.
«La settimana scorsa abbiamo preso due marsigliane che venivano da Venezia, con più di cento botti d’olio, e dei cavalli.»
Risultò che tutto il bottino veniva rivenduto seduta stante a Durazzo, e il rais trovava sempre dei compratori; trattandosi di legni veneziani la cosa era illegale, dato che la Repubblica era in pace col Gran Signore, ma il cadì di Durazzo chiudeva tutti e due gli occhi, dato che ci aveva anche lui un bell’utile.
«I veneziani non saranno per niente contenti» osservò messer Ettore, soddisfatto; e Pasquale rise. Qualunque fastidio potessero avere i veneziani era sempre fonte di compiacimento; per di più ad opera di un genovese, benché rinnegato!
«Ma come mai le galere veneziane non cercano di pigliarlo?»
Il giannizzero si mise a ridere.
«Non è possibile! Alì ha i suoi amici dappertutto.
Quando compaiono le galere, lo avvertono con segnali, di giorno e di notte, per più di cinquanta miglia da tutto il paese intorno.»
«E bravo Gregorio!» approvò messer Ettore. «Quasi quasi mi dispiace di avergli messo tanta paura.»
Finito l’interrogatorio dei prigionieri, il comandante decise di dar da mangiare alla ciurma e riposare qualche ora, ma di ripartire in ogni modo prima dell’alba. L’incontro con la galeotta significava che quel posto non era più sicuro, e che se poteva darsi che Ali Ginoves se ne fosse tornato a Durazzo senza preoccuparsi di avvertire Valona, era meglio non correre rischi. Alle due di notte il trombettiere diede la sveglia, e l’Aquila, spinta dai remi a tutta forza, prese il largo facendo rotta verso sud. Chiamati Pasquale e il pilota, messer Ettore comunicò i suoi ordini.
«Andiamo giù fino al Pazù» disse; all’epoca gli italiani chiamavano così quella che oggi è l’isola di Paxos, a sud di Corfù. «Lì abbiamo degli amici e possiamo aspettare che passi qualche trasporto diretto a Parga.»
Il tempo s’era messo al bello, il vento era leggero ma stabile, e la galera scivolava senza fatica verso sud, facendo i suoi cinque o sei nodi. I turchi catturati e incatenati ai remi, dopo che il barbiere aveva rasato tutti e reciso senza pietà i mustacchi dei giannizzeri, avevano suscitato per un po’ l’interesse generale, ma quasi subito anche quella novità s’era esaurita. Cazzogrosso s’interessava sempre di ogni nuovo rematore assegnato ai banchi vicini, e poiché uno degli schiavi presi sull’isola, un marinaio greco piccolo, tarchiato e molto giovane, era finito due banchi più avanti, s’era beato a lungo a contemplarne i muscoli, dando di gomito a Michele e facendo ogni sorta di commenti osceni.
Michele all’inizio s’infastidiva di questi scherzi, ma ormai sopportava con pazienza; aveva capito da un pezzo che il negro era fatto così, gli piaceva guardare e parlare, ma poi non dava fastidio a nessuno, e quando non ne poteva più prendeva il suo piacere da solo, di notte, quando tutti erano raggomitolati per dormire.
A Paxos, in territorio veneziano, la galera fece in modo d’arrivare di notte, tenendosi ben lontana dai villaggi dei pescatori. Accostò in una caletta isolata, e il comandante mandò a terra due uomini con una barca. Tutto il giorno seguente passò senza che nessuno si facesse vivo, mentre i forzati caricavano acqua e tagliavano legna; ma la notte successiva i due uomini tornarono, e di lì a poco arrivò attraverso le montagne un piccolo convoglio di muli, carichi di barili d’olio e vino, casse di biscotto e formaggio, e polvere da sparo. Le provviste vennero caricate nella stiva, riempiendo i vuoti aperti dalle prime settimane di viaggio, una somma di denaro passò di mano in mano, e subito dopo, nel cuore della notte, la galera ripartì silenziosa com’era arrivata. Alle prime luci dell’alba il terzo di poppa stava remando, e tutti gli altri a bordo sonnecchiavano per recuperare il sonno perduto, quando il marinaio di vedetta gridò forte:
«Ohé! Vela a tribordo!»
***