33.
«Ferma! Ferma!» si mise a gridare il Casalini, cogli occhi fuori delle orbite.
«Ammaina!» urlò il sopracomito. «Torniamo indietro! Voi dei banchi, sciavoga!» Gli ufficiali si precipitarono sulla corsia ripetendo l’ordine per i forzati del lato sinistro di remare all’incontrario, per far girare la galera che spinta dal vento si allontanava a vista d’occhio dall’uomo in mare. Mentre i marinai correvano ad ammainare le vele, tutti i disoccupati che si trovavano a prua si precipitarono a poppa, per vedere cosa succedeva.
«È caduto! Uomo in mare!» strillava il Casalini.
Il sopracomito diede ordine di buttare in acqua barili vuoti e altri oggetti di legno, perché ser Girolamo potesse aggrapparsi a qualcosa e tenersi a galla finché non fosse stato soccorso. Ma il Lippomano, anziché nuotare in quella direzione, nuotava verso il mare aperto.
«Ma siete sicuro che sia caduto?» disse piano il Gritti. Il Casalini, spaventato, allargò le braccia, e tacque.
«A me non pare che voglia salvarsi» osservò il sopracomito.
La galera impiegò parecchio tempo per fermarsi e girare su se stessa; il Lippomano, ormai, era solo un puntino all’orizzonte.
«Nuota benissimo» constatò il Gritti, suscitando un gesto d’impazienza del Casalini. Finalmente la galera acquistò velocità, e cominciò ad avvicinarsi al fuggiasco. «Chi sa nuotare, in mare, e uno zecchino per chi lo riprende!»
gridò il sopracomito. Parecchi marinai si spogliarono in fretta e si gettarono in acqua. Il mare, nel frattempo, era diventato più mosso, e la galera rollava pericolosamente.
«Che storia!» mormorò fra sé il Casalini. Decine di persone, ora affollate di nuovo a prua, seguivano con ansia la caccia. Si vide prima uno, poi un altro dei marinai avvicinarsi a grandi bracciate al Lippomano; ma quando stavano per raggiungerlo, si tuffò di sotto. A bordo della galera si levò un urlo collettivo, subito seguito da un altro quando il fuggitivo riaffiorò alle spalle dei due, e si rimise a nuotare vigorosamente in un’altra direzione. Lì, però, altri nuotatori stavano sopraggiungendo. Il Lippomano sfuggì ancora una volta, diede poche bracciate, poi fu visto agitarsi scompostamente e sparire sott’acqua. Un nuovo urlo sfuggì a tutti quanti.
Due dei nuotatori andarono sotto anche loro, e riemersero dopo un po’, sorreggendo a fatica un corpo inerte.
Il fuggiasco venne riportato a bordo incosciente. Era livido, cogli occhi strabuzzati fuori dalle orbite, e gonfio per l’acqua bevuta.
«È vivo?» chiese ansioso il Casalini al cerusico della galera, che s’era chinato per primo sul corpo. L’uomo guardò in su e scosse la testa.
«Più morto che vivo.»
«Ma respira?» insistè il capitano. Il cerusico accostò l’orecchio alla bocca dell’affogato, mentre altri gli tastavano il cuore e il polso.
«Un po’ respira» fu il responso.
«Cercate di rianimarlo!» urlò il Casalini. «Messer Benetto, portiamolo a terra qui al Lido, che sia finita!»
In coma, il Lippomano venne trasportato al monastero di San Nicolò del Lido, dove furono chiamati in tutta fretta medici e cerusici; gli si cavò sangue, si fecero frizioni con aceto e con sostanze urticanti, ma nessun rimedio servì a tenerlo in vita. A mezzanotte, ser Girolamo Lippomano smise di respirare, senza avere riaperto gli occhi né recuperato la parola.
«E dunque non c’è dubbio che non è stato un incidente?»
«No, non c’è dubbio. Ha fatto di tutto per non essere salvato.»
Messer Zuanne Morosini tacque, e tamburellò con le dita sul ripiano del tavolo. I banchi davanti a lui erano pieni, non mancava nessun membro del Consiglio dei Dieci, il doge Pasquale Cicogna, che sedeva alla presidenza, si passava le dita inanellate in mezzo alla lunga e folta barba, e il capitano Casalini, in piedi col cappello in mano, attendeva sudando di capire se sarebbe stato rimproverato o no per quello che era accaduto.
«Così ha confessato da se stesso la sua colpa» osservò il doge, alla fine. Il Casalini respirò: nonostante il silenzio con cui avevano accolto il suo rapporto, e le espressioni impenetrabili che tutte quelle vecchie volpi sapevano assumere quando nella sala segreta c’era un estraneo, non pareva che i Dieci fossero poi così scontenti di com’era andata a finire.
«Va bene, potete andare, ma restate fuori ad aspettare»
ordinò il Morosini, dopo aver scambiato qualche parola a voce bassa col doge. Licenziato il capitano, la discussione si fece subito più accesa.
«È morto, va bene; ma questo non significa che non debba ricevere la punizione che si era meritato» disse ser Giambattista Soranzo. Era un ometto calvo, con una rada barba nera, che entrava facilmente in agitazione.
«E come?» chiese qualcuno.
«Lui non c’è più, ma c’è il corpo» dichiarò ser Giambattista. «Io propongo che sia strascinato, decapitato e appeso al pubblico ludibrio.»
«Insomma si tratterebbe di fare al corpo morto quello che lui ha meritato da vivo» riassunse il doge.
Messer Zuanne Morosini si schiarì la gola.
«Io credo» cominciò prudentemente «che prendercela con un cadavere non sia cosa che conviene al decoro e alla clemenza della Repubblica.»
«Al mondo si son visti tanti esempi di traditori squartati o impiccati dopo morti, e quei principi che hanno trattato così i loro nemici non son stati certo temuti di meno» lo interruppe Soranzo.
«È vero, ma in quel caso il tradimento era propalato e noto a tutti» ribatté il Morosini. «Il punto è se a noi conviene o no che si sappia che il bailo che Sua Serenità» e accennò al doge, silenzioso e assorto «ha mandato a Costantinopoli, e che prima d’allora ha rappresentato la Repubblica in tanti posti importanti, un uomo d’una delle più nobili famiglie, ci ha truffati così indegnamente, e per vilissimo denaro!»
«Le voci corrono» obiettò qualcuno.
«Ma finché non sono confermate, e il segreto resta qui fra noi, le voci non fanno danno. Anzi, proprio il fatto che corrono senza trovar conferma accresce la paura e il rispetto del popolaccio.»
«Io resto dell’idea che quell’uomo ha meritato d’essere straziato e messo alla gogna, e se non possiamo farglielo da vivo, dobbiamo farglielo da morto» ripetè ferocemente Soranzo.
Il doge sospirò, e prese la parola.
«Nemmeno le bestie selvatiche infieriscono sui cadaveri» cominciò.
«Tranne gli sciacalli» disse una voce.
«Appunto!» ribadì il doge. «Io credo che convenga mostrar clemenza, e permettere ai suoi di seppellirlo. Dov’è che sono le tombe dei Lippomano?»
«Nella chiesa dei Frati dei Servi» interloquì il segretario che stendeva il verbale.
«Ecco! Allora io chiedo di votare su questa proposta: che si restituisca il corpo morto ai parenti, senza altre dimostrazioni, e si permetta loro di seppellirlo nelle tombe di famiglia ai Servi.»
Il segretario preparò l’urna e distribuì le palline di stoffa.
I Dieci votarono in silenzio. Quando l’urna venne aperta, si vide che la maggioranza aveva approvato la proposta. Il segretario scrisse un appunto per il verbale, annotando il numero dei voti a favore e contro.
«Voglio sperare che almeno approveremo la confisca dei suoi beni, e la demolizione della casa dove abitava» tornò a intervenire Soranzo, malcontento. Gli altri si guardarono in faccia, perplessi: c’era infatti l’abitudine di prendere misure di quel genere contro i traditori. Ma stavolta?
«Non avete capito» si spazientì il Morosini. «Questa faccenda va messa a tacere, e basta. Cosa volete che dica la gente, se vedrà confiscare il patrimonio e smantellare la casa?»
«Dunque della giustizia ce ne infischiamo. Va bene, basta saperlo» disse ser Giambattista, sostenuto.
«La giustizia è una grandissima preoccupazione di questa Repubblica, ma bisogna essere coerenti collo scopo»
intervenne il doge. «Abbiamo votato di non procedere contro il cadavere, e non procederemo nemmeno contro la casa.»
Ser Lunardo Michiel, che finora era stato zitto, si alzò a un tratto.
«Va pur detto» cominciò, soavemente «che quest’uomo ci ha reso un grande servizio ammazzandosi da sé. Perché se si fosse dovuto processarlo, non so cosa sarebbe potuto venir fuori. Peggio ancora: immaginate se laggiù a Costantinopoli gli fosse saltato in mente di fare resistenza. Poteva mettersi sotto la protezione del Turco, e rifiutare di venir via; e noi saremmo rimasti in un grandissimo imbarazzo, e avremmo fatto una figura per niente lusinghiera agli occhi del mondo.»
«Questo poi» intervenne il Morosini «è stato merito del Bernardo, che ha saputo gestire la cosa molto abilmente.»
«È vero» confermò più d’uno.
«Io posso dirvi» proseguì messer Zuanne «che in testa del Lippomano c’era eccome, l’idea di far resistenza e rifiutare di partire. Ma il Bernardo con belle parole ha saputo levargliela dalla testa.»
«Vedete dunque!» intervenne, agitato, Soranzo. «E voi venite a dirmi che dobbiamo essergli grati per essersi lasciato portar via così docilmente! Eppure ricordate tutti quel che scrive il Bernardo nella sua relazione, che un giorno, discorrendo, lui ha detto al Lippomano, per tenerlo tranquillo, che era molto contento della sua ubbidienza, e che in quel modo aveva dato un gran segno della sua innocenza; e il Lippomano gli ha risposto: caro signore, e che dovevo fare? Qui con l’oro si ottiene tutto quello che si vuole, e voi ne potete spendere più di me!»
Molti risero.
«Resta il fatto» riprese ser Lunardo «che il Lippomano ci ha liberato da gravi imbarazzi, intanto perché si è punito da se stesso, e poi perché allora è stato così ubbidiente ai nostri ordini. E io credo che nonostante i suoi grandissimi demeriti, questo po’ di merito possiamo riconoscerglielo; e perciò io vorrei mettere ai voti che nessuna ulteriore misura punitiva sia più presa nei suoi confronti.»
Il voto diede ragione a ser Lunardo, con un’unica voce contraria, evidentemente quella del Soranzo. Quest’ultimo tornò a sedersi scuotendo vistosamente la testa.
«Dunque questa faccenda è chiusa» dichiarò il Morosini.
«Ora, signori, c’è un’altra faccenda che il nostro bravo capitano Casalini ci ha riportato da Costantinopoli.»
«Il nostro bravo capitano Casalini meriterebbe d’essere imprigionato per essersi lasciato scappare il suo prigioniero a quel modo! Ancora un po’ e gli daremo un encomio!»
scattò ser Giambattista.
«Non dubitate che gli faremo sapere quello che pensiamo di questa faccenda, e non sarà un encomio» disse sinistramente messer Zuanne. «Ma c’è un altro uomo di cui dobbiamo discutere, ed è quel bandito che il Bernardo ci ha rimandato indietro con tanto di salvacondotto, e che a quanto pare ha una stranissima storia da raccontare. E’ ancora presto e c’è tempo: io proporrei di mandarlo a chiamare e ascoltarlo.»
Un quarto d’ora dopo Michele venne portato lì da due sbirri. Era ancora vestito con gli stessi abiti che aveva addosso alla partenza da Costantinopoli, quasi due mesi prima, e aveva l’aria abbattuta. All’arrivo a Venezia credeva che sarebbe stato lasciato andare, ma il capitano Casalini aveva ordine di portarlo difilato nelle carceri dei Dieci, in attesa dell’interrogatorio. Quelle ventiquattr’ore passate nella segreta, senza poter avvertire Bianca che era tornato, e nell’incertezza di quel che sarebbe accaduto poi, lo avevano prostrato più di tutto il lungo viaggio per mare.
Messer Zuanne Morosini lo guardò con curiosità.
Quello, dunque, era l’uomo per cui ser Lorenzo Bernardo era venuto a chiedergli un favore: in fondo era grazie a lui che gli era venuta l’idea di mandare proprio il Bernardo a Costantinopoli, ed era stata una buona idea. Com’era strano, però, che il giovanotto fosse saltato fuori proprio a Costantinopoli, e con una storia così pazzesca da raccontare! Il Morosini era abituato a non fidarsi di nessuno, e a non credere alle coincidenze. Perciò era sospettoso e prudente quando cominciò a interrogare Michele.
«Il magnifico ser Lorenzo Bernardo» disse, squadrando il giovanotto che gli stava davanti col berretto in mano «
scrive che voi gli avete raccontato una lunga storia.
Raccontatela anche a questi signori.»
Michele cominciò, balbettando per l’emozione, a raccontare quello che gli era capitato. Raccontò come s’era imbarcato sulla Loredana, all’improvviso, perché scappava dagli sbirri.
«Solo dopo ho saputo che ero stato bandito. Ma il signor bailo mi ha detto che il bando è stato levato, e che la grazia è firmata, vero?» chiese, guardandosi intorno spaurito.
«È vero» confermò il Morosini, «e per questo potete stare tranquillo. Ma a noi interessa quello che è successo sulla galera. Voi confermate che si tratta della galera del sopracomito messer Andrea Loredan, che è salpata da Venezia il 27 luglio 1588?» chiese, dopo un’occhiata al dossier che aveva spalancato davanti sul tavolo.
«Non lo so il giorno» deglutì Michele, «ma la galera è quella.»
«Andate avanti.»
«Ecco» disse Michele, «fra noi galeotti ha cominciato subito a correre la voce che il sopracomito trasportava un sacco di zecchini.»
Il doge guardò il Morosini, che confermò con un cenno eloquente.
«Un sacco di zecchini da portare a Candia» continuò Michele. «E un giorno, mentre facevamo scalo a un’isola in Dalmazia, due ragazzi hanno rubato il sacco.»
«Due ragazzi?» intervenne il Soranzo.
«Volevo dire due galeotti. Due che erano al mio stesso banco, due ragazzi di Chioggia.»
«E poi?»
«E poi sono scesi a terra i soldati per cercarli, e io ero già a terra con la squadra mandata a far legna e acqua, e li ho visti che scappavano nella macchia, e i soldati li hanno raggiunti e li hanno ammazzati. E li comandava il comito della Loredana. E io ero nascosto lì vicino e ho sentito tutto: il comito ha detto, perché non ce li teniamo, gli zecchini? E ha detto, basta che diciamo che non li abbiamo trovati, li seppelliamo qua e non lo saprà nessuno.»
«E sapete come si chiamava il comito?» chiese qualcuno.
«No, illustrissimo, non lo so, io ero soltanto un galeotto» disse Michele.
Messer Zuanne si schiarì la voce.
«Questo poi non è un problema, lo sappiamo noi come si chiamava, ho già fatto cercare il libro di bordo della galera. Andate avanti.»
«Be’, i soldati hanno detto che per loro andava bene, e così hanno sepolto i due ragazzi, e anche l’oro, e poi sono tornati a dire che non avevano trovato niente. E io ho visto dove hanno scavato le fosse, e ho notato il posto, e sono sicuro che saprei ritrovarlo.»
«E l’isola come si chiamava?»
«Non lo so, ma la ritroverei, navigando da Zara. Ho visto bene il profilo delle montagne, me lo sono impresso in testa. È a una giornata da Zara» ripetè Michele.
Giambattista Soranzo si agitò sul suo banco.
«E voi perché non avete denunciato subito quello che avevate visto?»
«Lo so che ho sbagliato» disse Michele, seriamente. «Ho avuto paura, illustrissimo. Come fa un galeotto a denunciare il comito?»
«Dovevate denunciarlo, e il sopracomito avrebbe fatto giustizia» ribatté il Soranzo, gelido.
«Ser Giambattista, scusate, ma la storia non è ancora finita» intervenne il Morosini. «Non si è più parlato a bordo del sacco di zecchini?»
«Come no?» riprese Michele, rinfrancato. «Tutti dicevano che non era stato più ritrovato, abbiamo fatto tutto il giro dell’isola per ritrovare i ladri.»
«E solo voi sapevate che era inutile, e non avete detto niente» fece notare ser Lunardo Michiel.
«Sissignore» ammise Michele, avvilito. «Avevo paura.
Non l’ho detto subito, e dopo non potevo più.»
«E visto che i ladri non sono stati ritrovati, cos’è successo poi?»
«Ecco» disse Michele, «prima di arrivare a Creta abbiamo abbordato una feluca turca. C’erano a bordo degli ebrei con delle merci e dell’oro. Il signor sopracomito ha fatto sequestrare tutto, e poi hanno detto a noi che quelli erano i ladri, e che avevano recuperato l’oro rubato. Ma io so che non è vero.»
«E di questa feluca come mai nessuno ha saputo niente?» intervenne ancora il Michiel.
«Io non ho visto, perché ero al mio banco. Ma dicono che hanno ammazzato tutti quelli che c’erano a bordo, perché non si sapesse.»
Michele tacque, sudato e spaventato, cercando di capire cosa pensavano della sua storia quei signori vestiti di porpora.
«Va bene!» tuonò il doge, dopo un istante di silenzio, «Portatelo via.»
Le guardie vennero a prendere Michele e lo condussero fuori. Subito dopo che fu uscito, i Dieci cominciarono a parlare tutti contemporaneamente, e solo a fatica i Signori Capi riuscirono a mantenere l’ordine.
«Un simile bugiardo non l’ho mai visto!» protestava ser Lunardo Michiel. «Il sopracomito Loredan è arrivato a Candia e ha consegnato regolarmente l’oro, sta tutto a verbale, il resto sono solo fandonie!»
«Messer Lunardo» disse ser Zuanne, guardandolo fisso, «sbaglio o quel sopracomito è il marito di una delle vostre nipoti?»
Il Michiel ammise che era vero, ma non si smontò.
«E allora?» ribatté con aria di sfida. «Qui si accusa un patrizio veneziano di essersi fatto rubare il denaro che la Repubblica gli aveva affidato, e di aver assalito un legno turco, ammazzato l’equipaggio, rubato a sua volta del denaro e averlo consegnato al posto dell’altro senza riferire neanche una parola dell’accaduto, e tutta questa storia che non sta né in cielo né in terra la racconta un bandito, senza uno straccio di prova, e noi dovremmo credergli?»
«Io dico» intervenne Soranzo «di metterlo alla tortura e fargli confessare che si è inventato tutto.»
Il doge, che ascoltava lisciandosi la barba, intervenne.
«Signori, l’accusa è troppo grave per non indagare con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione. Propongo di far arrestare il comito, e pregare il signor sopracomito Loredan»
e qui mutò intenzionalmente il tono, fissando ser Lunardo «di venire a riferirci quello che sa, e dopo averli interrogati, se sarà il caso, rispediremo quel giovanotto a Zara e vedremo se potrà fornirci le prove del suo racconto.»
«Ma scusate» intervenne qualcuno, «anche se la storia fosse vera, a quest’ora il comito sarà già tornato laggiù a scavar fuori il denaro, no?»
Anche questo era vero. I Dieci tacquero, perplessi.
«Può darsi» concesse il doge, asciutto. «Ma è nostro dovere verificare. Chiedo di mettere ai voti la mia proposta.»
Fuori della sala, il capitano Casalini prese in consegna Michele e lo portò con sé.
«Dove mi portate?» chiese Michele, quando si accorse che anziché uscire si stavano addentrando sempre più nel labirinto di scale e corridoi del Palazzo Ducale.
«Alle prigioni dei Signori Capi» disse il capitano, come se fosse ovvio.
Michele impallidì.
«Come alle prigioni? Ma io ho un salvacondotto del signor Bernardo, mi hanno detto che sono stato graziato!»
«E chi dice di no?» ribatté il Casalini. «Infatti siete stato graziato, e di quella condanna non se ne parla più. Ma ora siete sotto inchiesta per le vostre rivelazioni, e starete qui finché piacerà ai Signori del Consiglio.»
Michele barcollò sotto il colpo.
«Ma io credevo che mi avrebbero lasciato andare da mia moglie!» balbettò.
«Tanta gente è passata di qua, che credeva qualcosa e si sbagliava» tagliò corto il capitano.
***