7.

Lo scalo al villaggio non diede alcun frutto. Dopo essere rimasti tre giorni in attesa, mettendo a terra squadre di scapoli per battere i dintorni, e aver terrorizzato i pescatori con la minaccia di atroci punizioni, bisognò affrontare la realtà: i ladri erano scomparsi, e i diecimila zecchini con loro.

Il viaggio della Loredana verso Creta continuò in un clima di palpabile tensione. Il sopracomito non usciva dalla cabina di poppa e si diceva che fosse molto malato. Gli ufficiali si guardavano fra loro con sospetto e non risparmiavano la ciurma; i galeotti tacevano, perché nessuno voleva farsi notare. Con grande sorpresa di tutti, l’inchiesta si era limitata a un serrato interrogatorio dell’equipaggio e della ciurma, ma il timore che la tempesta fosse soltanto rimandata induceva ciascuno a tenere la testa bassa. Michele sentiva sopra di sé lo sguardo ostile del comito e quello indagatore del parone, e badava a remare duro, anche perché al suo banco erano sempre solo in due e c’era da faticare il doppio.

Nei momenti di tranquillità, però, e soprattutto mentre consumava il rancio, cercava di riflettere sull’accaduto, e di capire come trarne vantaggio. Finché era a bordo della galera doveva tenere la bocca chiusa, questo era evidente. Ma dopo? Coll’arrivo dell’autunno la Loredana sarebbe tornata a Venezia a disarmare, licenziando la ciurma, e a quel punto il comito non avrebbe più avuto nessuna autorità su di lui. Fino ad allora i diecimila zecchini sarebbero rimasti al sicuro, seppelliti sull’isola, di cui Michele si era impresso nella memoria il profilo e la posizione, per essere sicuro di ritrovarla. Certamente il comito e i suoi complici sarebbero tornati a cercare il bottino dopo il disarmo della galera.

E allora c’erano due possibilità, ragionava Michele. Poteva fuggire prima di quel momento, raggiungere l’isola prima di loro, disseppellire il denaro e sparire per sempre.

Sarebbe stato ricco, e avrebbe potuto mandare a prendere Bianca e farsi raggiungere ovunque. Nei momenti in cui aveva voglia di sognare a occhi aperti, Michele s’immaginava di riuscirci davvero. Ma gli bastava incrociare lo sguardo diffidente del comito, che non lo perdeva di vista, per capire che si stava illudendo, e che se ci avesse provato sarebbe finito anche lui sepolto nell’isola. Per di più, si trattava di denaro rubato alla Repubblica, e la Serenissima aveva la memoria lunga. Con una punta di rimpianto, Michele si rese conto che l’alternativa più sicura era un’altra: aspettare che la galera tornasse a disarmare, e correre a denunciare l’accaduto. Il magistrato avrebbe fatto sorvegliare il comito, e mandato a disseppellire il bottino, e lui sarebbe stato perdonato e forse anche premiato: diecimila zecchini bastavano di sicuro a cancellare il naso rotto di uno sbirro. Su, si disse Michele, bisogna soltanto arrivare alla fine dell’ingaggio senza fare passi falsi.

Dopo qualche giorno di navigazione la galera giunse in vista di Corfù. Il profilo verde dell’isola si stagliava nel cielo limpido, e Michele, che non era mai stato da nessuna parte prima di quel viaggio, spalancava gli occhi e si voltava verso la prua per guardare. I forti che proteggevano l’ingresso del porto erano stati restaurati da poco e brillavano nel sole, ma i casali sparsi lungo la costa della montagna erano mezzo diroccati e in rovina. Mentre si avvicinavano alla rada il fischietto ordinò la voga a terzi, la galera rallentò e Michele, trovandosi nel turno di riposo, potè guardarsi intorno con comodo.

«Che posto è questo?» chiese al compagno; ma lo schiavone si strinse nelle spalle.

«Corfù» rispose dietro di lui il vecchio. «Ed era un gran bel posto ai miei tempi. Poi sono venuti i turchi e hanno bruciato tutto.»

Fuori le mura della città un enorme edificio attirava gli sguardi. L’intonaco era pieno di crepe e le finestre senza vetri, l’erba spuntava fra le pietre sconnesse, eppure, in qualche modo, sembrava che fosse ancora in costruzione; l’occhio esperto di Michele, che aveva fatto il muratore fin da bambino, si accorse subito che tutta un’ala non era ancora finita.

«L’ospedale militare» disse il vecchio; e sputò. «L’hanno tirato su al tempo della guerra col Turco, quanti soldi ci hanno speso! Volevano fare l’ospedale più grande d’Italia. Non l’hanno mai usato.»

«I turchi l’hanno bruciato?» chiese Michele, ingenuamente.

«Ma figurati!» disse il vecchio con disprezzo. «Non vedi che è ancora lì? Non era neanche finito, non c’era niente da rubare. Hanno messo il naso dentro e se ne sono andati. Poi la guerra è finita e dell’ospedale non è più importato niente a nessuno. È così che vanno le cose da noi, caro mio.»

Quando la galera entrò in porto e il sopracomito scese a terra tutti rimasero col fiato sospeso, in attesa di vedere se sarebbe tornato accompagnato da un capitano e dagli sbirri, per aprire una nuova inchiesta; invece tornò da solo e andò difilato in cabina, e subito dopo fu dato alla ciurma il permesso di scendere a terra, come in qualunque normale scalo. Michele si disse che avrebbe fatto meglio a restare sul chi vive e tenere gli occhi aperti. Il comito non poteva essere sicuro che fosse stato proprio lui ad assistere all’assassinio dei due ragazzi e al seppellimento dell’oro, ma era evidente che lo sospettava. Se avesse deciso di liberarsi di lui, era a terra, e non sulla galera, che avrebbe cercato l’occasione. Michele non era nemmeno in grado di riconoscere gli scapoli che avevano fatto il colpo: quella sera c’era troppo buio e comunque era tutta gente sconosciuta, per cui non sapeva neppure contro chi stare in guardia.

Ma mentre la frotta dei galeotti in libera uscita scendeva sul molo e si disperdeva a gruppetti per i vicoli della città, la curiosità gli fece dimenticare i suoi timori. Corfù gli pareva da una parte un luogo familiare, dall’altra un mondo nuovo e sconosciuto, dove tutto lo stupiva. Le case erano costruite alla moda d’Italia, e dappertutto ci si faceva capire parlando italiano, ma la gente del posto era vestita in un modo così strano che li avrebbe presi per turchi, se i compagni, ridendo, non gli avessero assicurato che erano greci.

«E sono cristiani?» indagò, incredulo.

«Una specie» gli risposero.

«Ma io non mi fiderei tanto» rincarò un altro.

Impiegò un po’ per accorgersi di un’altra stranezza: per la strada non si incontravano donne. Le case intonacate a calce avevano le finestre chiuse e gli scuri accostati; dai portoni s’intravvedeva qualche volta un cortile ombreggiato da un fico, ma di donne neanche l’ombra.

«Le tengono chiuse!» gli spiegò un compagno ridendo.

«È la loro moda. Non si fidano.»

«E fanno bene!» aggiunse un altro. «Le greche, quando vedono un uomo, vanno subito in calore, sono capaci di tutto.»

A un certo punto, sbucando in una piazzetta, Michele s’imbatté nello scrivano della galera. Se ne stava da solo a bere vino bianco seduto su una panca all’ombra d’una vite rampicante, fuori da una mescita, e gli occhiali gli brillavano al sole. Vedendo Michele gli fece cenno di raggiungerlo.

«Vieni qui, bevi con me!»

Michele non aveva sete, ma lo scrivano era un superiore, e non si poteva dire di no.

«Allora, raccontami un po’, come ti va? Ti piace la vita di galera?» chiese lo scrivano, cordiale, dopo aver fatto venire un altro boccale di vino.

«Non c’è male» rispose Michele, prudente. Aveva già notato al momento dell’imbarco che lo scrivano parlava in un modo tutto suo, e si era chiesto da dove veniva; e stavolta, dopo aver bevuto, trovò il coraggio di domandarglielo.

«Ma voi, scusate, non siete di Venezia?»

L’altro rise.

«Ma quando mai! Io sono di Napoli, caro mio!»

Michele ne aveva vagamente sentito parlare.

«E che posto è?»

«Un bel posto, ragazzo. Un gran bel posto. Chi lo sa se un giorno ci tornerò. A proposito, mi chiamo Muzio, don Muzio Apricola. Ma tu non bevi: oste, un altro boccale qui per il mio amico!»

Bevvero ancora; la calvizie precoce dello scrivano si imperlava di sudore, i suoi occhi brillavano aperti e cordiali dietro le lenti. Qualche giorno prima il sopracomito lo aveva chiamato in cabina, aveva voluto verificare sul libro i dati anagrafici di Michele, e poi gli aveva ordinato di tenerlo d’occhio e farlo parlare. Ovviamente il Loredan non sapeva niente di quello che era successo sull’isola, ma Michele era comunque il compagno di remo dei due ladri; il comito gli aveva sconsigliato di metterlo alla tortura, e sua signoria aveva imparato a fidarsi ciecamente dell’esperienza del suo secondo, ma gli era rimasta comunque una pulce nell’orecchio. Perciò lo scrivano aveva atteso l’occasione, e adesso che si era presentata era deciso ad approfittarne.

«E allora, di’ un po’, che te ne sembra di quei due che se la sono svignata col sacco degli zecchini? Fortunati loro, eh?» esclamò, strizzando un occhio.

Michele presentì il pericolo e tacque, accontentandosi di stringersi nelle spalle.

«Tu li conoscevi bene, eh?» insistè il napoletano. «

Magari li conoscevi già prima di imbarcarti?»

«Io no» rispose Michele, secco. Lo scrivano sospirò e cambiò argomento.

«E a casa chi hai lasciato? Non ce l’hai una ragazza che ti manca?»

Come sempre quando pensava a Bianca, Michele si sentì rimescolare; e il vino che aveva bevuto non lo aiutò.

Vedendo che distoglieva lo sguardo, lo scrivano si commosse e per un momento si dimenticò del motivo per cui lo aveva chiamato.

«Su, racconta! Come si chiama? È bella, eh?»

Michele, facendosi forza, raccontò qualcosa di sua moglie e della sua famiglia, badando bene però a non lasciarsi sfuggire le circostanze in cui suo padre era morto e lui si era imbarcato.

«Senti un po’» disse lo scrivano, colpito da un’idea improvvisa, «non vuoi scrivere a casa?»

«Magari!» disse Michele.

«E allora! Che ci vuole? Quello è il mestiere mio. Dài, torniamo a bordo che te la scrivo. E tua moglie troverà di sicuro qualcuno che gliela legge.»

«Ma per mandarla? Costerà molto!» obiettò Michele. Il napoletano fece segno di no, sorridendo.

«La mandiamo col pacchetto del sopracomito: loro dovranno solo dare la mancia al portalettere.»

Lo scrivano era contento: un po’ perché anche lui aveva bevuto, il ragazzo gli stava simpatico e dargli una mano non gli costava nulla, un po’ perché sperava che dettando la lettera Michele si sarebbe lasciato scappare qualcosa di interessante da riferire al sopracomito. Pagò il vino per tutti e due e insieme si avviarono per ritornare alla galera.

«Allora!» disse don Muzio, quando si fu installato al suo banco. Davanti aveva un foglietto di carta, penna d’oca, calamaio, candela e ceralacca. «Come vuoi cominciare?»

«Non lo so» ammise Michele, imbarazzato. L’altro sorrise con indulgenza.

«Non ti preoccupare, ti aiuto io. Dunque, “Moglie mia carissima”?»

Michele annuì vigorosamente. L’altro cominciò a scrivere.

«Cos’è che vuoi dirle?» chiese poi. Michele si grattava la testa: avrebbe voluto dirle tante cose, ma non poteva raccontarle allo scrivano.

«Lo sa che ti sei imbarcato?»

«No!» riconobbe Michele, sollevato. «Diciamoglielo.»

Lo scrivano cominciava a insospettirsi, ma non disse nulla.

«Dunque, “Ti scrivo per dirti che sono in porto di Corfù sulla galera Loredana, dove mi sono imbarcato dopo…”. Già, dopo cosa?»

«Dove mi sono imbarcato» tagliò corto Michele. «Don Muzio, non facciamola lunga, già farà fatica a farsela leggere, l’importante è che sappia che sto bene.»

In quel momento si sentì il coccodè di una gallina che ha fatto l’uovo. Lo scrivano si alzò e andò a ispezionare la gabbia vicino alla botola della stiva, in cui fin dalla partenza sopravvivevano bene o male quattro galline spaventate. Frugò fra la paglia e tirò fuori l’uovo.

«Questo sarebbe per sua signoria» disse strizzando l’occhio, «ma non se n’è accorto nessuno, e tu zitto, eh?»

Se lo bevve in un sorso, poi tornò a sedersi.

«Cos’altro vuoi dirle? No, aspetta, te lo dico io: se vorrà risponderti, deve sapere dove indirizzare la lettera. Noi andiamo a Candia, bisogna dirle di indirizzarla là.»

Michele seguiva affascinato i gesti rapidi e leggeri della mano che impugnava la penna d’oca. Lo scrivano finì la frase e lo guardò.

«Non vuoi dirle quando tornerai a casa? Per novembre, se tutto va bene, torniamo a Venezia a disarmare.»

Michele acconsentì.

«Ecco!» disse lo scrivano, dopo aver scritto. «È corta, così non tribolerà a farsela leggere.» Con gesti resi veloci dalla lunga abitudine piegò più volte il foglio, accese la candela e sciolse un po’ di ceralacca sulla piega, sigillandola.

«Ora l’indirizzo, “Per Bianca moglie di Michele muratore, parrocchia di Sant’Agnese”. Cos’altro si può mettere?»

«Stiamo in un campiello così piccolo che non ha neanche un nome» confessò Michele. «Dietro all’attracco del traghetto della Giudecca.»

«Mettiamo così allora» disse don Muzio, ingegnandosi a far stare tutto sul foglietto ripiegato più volte e divenuto minuscolo. «Ecco fatto; ora la infilo nel pacchetto del corriere.»

Guardando il ragazzo che sorrideva contento, lo scrivano si disse che col furto quello lì non c’entrava per niente. Buon per lui che non l’hanno messo alla corda, pensò.

E tanto peggio per sua signoria…

Dopo lo scalo a Corfù la galera continuò il suo viaggio verso Creta. Il tempo era bellissimo, in contrasto con gli umori di quei duecentocinquanta uomini accalcati a bordo; non c’era quasi vento, sicché non si poteva procedere a vela, e si andava avanti tutto il giorno vogando a terzi, per non stancare troppo la ciurma. Il fischietto non smetteva mai di suonare e a Michele pareva che il tempo si fosse fermato; sia quando faticava al remo, sia quando sonnecchiava nel turno di riposo il ritmo della voga gli pulsava nelle vene, ossessivo e implacabile. I marinai avevano poco da fare, anche se per tenerli occupati gli ufficiali facevano rammendare le vele, controllare i cavi, lucidare i cannoni; gli scapoli oziavano tutto il giorno, accovacciati alla bell’e meglio nei pochi spazi liberi. In cabina, il sopracomito aveva ricominciato a bere coi nobili di poppa, come se niente fosse accaduto; ma chi lo vedeva da vicino si accorgeva che beveva troppo, e aveva gli occhi iniettati di sangue.

Una mattina all’alba, al largo della Morea, la vedetta in coffa segnalò una vela che s’intravvedeva appena all’orizzonte.

Il comito e alcuni marinai si portarono a prua e sporgendosi sopra lo sperone dorato aguzzarono la vista, ma l’imbarcazione era ancora troppo lontana per poter capire di chi si trattava. Il comito, lasciato il fischietto a un marinaio, andò a parlare col Loredan e i due decisero di alzare le vele, per approfittare d’un alito di brezza favorevole, continuando a vogare a terzi. Dopo un paio d’ore ci si accorse che la distanza dal vascello sconosciuto era leggermente diminuita, e quelli con l’occhio più acuto cominciarono a scommettere. Non era una galera, su questo erano tutti d’accordo, perché aveva una vela sola; uno azzardò che fosse una galeotta corsara, ma gli altri obiettarono che in quelle acque non era frequente incontrarne, sicché la questione rimase in sospeso.

Il sopracomito era venuto anche lui a vedere, e dopo essere rimasto un po’ in silenzio fece cenno al comito che voleva parlargli.

«Cosa credi, che possa davvero essere un corsaro?»

Il comito si strinse nelle spalle.

«Non credo, illustrissimo.»

L’altro fece una smorfia, e sputò. Il comito si accorse che nonostante l’ora mattutina aveva già bevuto.

«Se invece fosse un corsaro!» sospirò il comandante. «

Magari carico di bottino! Avremmo risolto tutto, eh?»

Anche se il Loredan non si abbassava a confidarsi con i suoi subalterni, il comito sapeva che era terrorizzato all’idea di quel che gli sarebbe successo quando fosse arrivato a Candia senza il denaro. Certamente sarebbe finito sotto processo, e se pure ne fosse uscito pulito, la sua carriera era bell’e finita: per un giovane patrizio che per la prima volta usciva di casa al servizio della Repubblica una catastrofe del genere non aveva rimedio. Se poi suo padre, com’era probabile, aveva investito parecchio, in protezioni e in quattrini, per fargli avere il comando della galera e aiutarlo ad armarla, anche il ritorno a casa doveva apparirgli come un incubo.

Per tutti quei giorni il comito, che aveva i suoi motivi per stare in guardia, lo aveva osservato di nascosto, chiedendosi che cosa avrebbe fatto; ed ora cominciava a intuirlo.

«Ah, certo» disse cautamente.

«E se non è un corsaro, chi potrà essere?» insisteva il sopracomito. L’altro allargò le braccia.

«Un brigantino o una tartana di mercanti. Carica d’olio, magari, o di formaggio. Da queste parti se ne incontrano spesso.»

Il sopracomito non parve entusiasta all’idea. Si tormentò la barbetta appena spuntata, che copriva malamente i brufoli dell’adolescenza.

«Comunque andiamogli sotto» si decise poi. «Stiamo guadagnando?»

«Un po’ per volta.»

«E quanto ci vorrà per raggiungerli?»

«Di questo passo, sei o sette ore.»

Il sopracomito guardò il cielo, dove il sole stava salendo.

L’estate volgeva alla fine, ma le giornate erano ancora lunghe; sei o sette ore, però, gli parvero un’eternità.

«Bisogna andare più in fretta. Basta con la voga a terzi, falli remare tutti.»

Il comito aggrottò la fronte.

«Se vostra signoria permette, non è ancora il momento.

La gente si stancherà, e al momento buono sarà stracca. E

poi c’è anche un’altra cosa. Quello là sta andando giù lungo la costa, proprio come noi. A quest’ora ci hanno visti di sicuro, e si stanno chiedendo chi siamo e che intenzioni abbiamo. Se si accorgono che abbiamo accelerato, sono capaci di spaventarsi e buttarsi verso terra, e allora possono anche arrivare a Modone prima che noi li raggiungiamo.

Invece se noi continuiamo a guadagnare un po’ per volta, e magari a un certo punto pieghiamo verso terra, non si accorgeranno di niente; anzi, se siamo fortunati penseranno che vogliamo entrare in porto. Quando saremo più vicini mettiamo gli uomini a vogare all’arrancata e ci portiamo fra loro e la costa, e allora non ci scappano più, anche se dovessimo aspettare fino a domani per prenderli.»

Il sopracomito ascoltava a bocca aperta.

«Bene, mi pare una buona idea» ammise poi con degnazione. «Va’ pure» ordinò. Mentre tornava al suo posto sulla corsia, il comito si voltò e vide che sua signoria era di nuovo seduto in fondo alla cabina, intento a versarsi da bere.

Dopo qualche ora l’imbarcazione misteriosa era abbastanza vicina da permettere alle vedette di riconoscerla senza più dubbi: era una feluca di trafficanti, probabilmente carica di merci a giudicare da come pescava. Il vento leggero la spingeva senza fretta verso sud, mentre la galera, vogando con due terzi dei banchi, guadagnava terreno. Il comito l’aveva portata poco per volta più vicina alla costa, in modo che se la feluca avesse improvvisamente deciso di cambiare direzione e far vela verso un porto la galera sarebbe stata in condizione di tagliarle la strada. Sulla prua della Loredana un gruppetto di marinai osservava in continuazione, discutendo animatamente; il comito, affidato il fischietto a un aiutante, andava e veniva dalla cabina di poppa, da cui il comandante non era più uscito.

«Sbaglierò» disse a un certo punto uno dei marinai, «ma quelli lì sono turchi.»

Nonostante gli sforzi, nessun altro riusciva a vedere com’era vestita la gente a bordo. Di per sé la feluca poteva essere greca come siciliana, non c’era niente nel legno o nella vela che ne tradisse l’origine, e le imbarcazioni mercantili portavano raramente una bandiera.

«Turchi, eh?» disse il comito; e non aggiunse altro. Fra sé e sé, però, bestemmiò. Se fosse stato un corsaro, turco o spagnolo non faceva differenza, si poteva prenderlo e sequestrargli tutto il bottino, e nessuno avrebbe protestato.

Ma se erano pacifici mercanti, il discorso era diverso.

Speriamo che quello là abbia ben chiara la differenza, e che non ci metta nei guai, pensò il comito, a disagio.

Il sopracomito arrivò dalla poppa. Aveva bevuto ancora e camminava a fatica. Si fece portare una sedia e rimase lì, facendosi aria col fazzoletto, finché un’altra delle vedette non ripetè:

«Sì, sono proprio turchi.»

Tutti guardavano il comandante. Se la feluca era turca, non si capiva perché continuare a inseguirla; Venezia era in pace col Gran Signore ormai da quindici anni, una pace ottenuta a fatica e con molti sacrifici e che nessuno aveva voglia di rompere. Qualche incidente coi corsari era inevitabile, e in tal caso le autorità di entrambe le parti cercavano di evitare scandali, ma i legni da guerra e le imbarcazioni commerciali mantenevano una scrupolosa correttezza.

«Quanto ci vuole per raggiungerla?» domandò il sopracomito, con la voce impastata.

Il comito aggrottò la fronte.

«Vogando come adesso, un’oretta» rispose.

«Andiamo a tutta forza allora, prendiamola prima che ci scappi» ordinò inaspettatamente il comandante. I marinai intorno a lui si guardarono, ma nessuno osava replicare. Guardarono il comito, e videro che si mordeva le labbra.

Finora aveva fatto più o meno tutto quello che voleva, senza che il Loredan se ne accorgesse; ma contraddirlo apertamente era un’altra faccenda.

«Prenderla?» disse infine, facendosi forza. Il sopracomito si voltò di scatto e lo fissò con lo sguardo torbido.

«Prenderla, sì! E vedere cos’hanno a bordo!» esclamò.

Il comito chinò il capo, andò a prèndere il fischietto e diede il segnale della voga a tutta forza. Con un sobbalzo la galera accelerò e cominciò a volare a pelo d’acqua. Il sopracomito, a cavalcioni della sua sedia, fissava il mare liscio come l’olio e la macchia bianca della feluca in lontananza.

Il parone venne a unirsi al gruppetto di marinai che stazionavano a prua discutendo vivacemente, anche se a bassa voce. Dopo un po’ arrivò anche lo scrivano, annuì con forza sentendo i discorsi che si facevano, e poi lui e il parone andarono dal comito. Questi li ascoltò senza smettere di fischiare, poi scosse la testa. Don Muzio allargò le braccia, ed entrambi ritornarono indietro. Discussero ancora un po’

cogli altri, poi il parone si grattò la testa e andò col berretto in mano a piantarsi davanti al sopracomito.

«Che c’è?» chiese quello bruscamente.

«Illustrissimo, la gente è preoccupata. Non vorremmo che succedesse un incidente con ‘sti turchi. Non è meglio lasciarli stare?»

Il Loredan lo guardò con disprezzo.

«Lasciate queste cose a chi ne sa più di voi!» ordinò, tagliente. L’uomo dai capelli rossi strinse le labbra, poi s’inchinò e tornò dai compagni.

«Niente da fare» disse. «Non lo so cosa si è messo in testa, ma non lo smuove nessuno.»

Un mormorio di disappunto e di preoccupazione accolse queste parole.

«Che Dio ci aiuti» disse uno; e tutti si segnarono.

La feluca era ormai più vicina e tutti vedevano che la gente a bordo era vestita alla turca. A poppa del piccolo vascello si affollavano parecchi marinai che scrutavano in direzione della galera. Il sopracomito, pieno di eccitazione, si alzò dalla sedia.

«Bombardieri!» urlò. «Sparate un colpo, che si fermi!»

Il parone e lo scrivano si guardarono, tutt’e due pallidi e muti. Anche fra i galeotti, che remavano rivolti all’indietro e senza vedere niente, si era già sparsa la voce che stavano dando la caccia a una barca turca; ma il comito li costringeva a tenere un ritmo tale che nessuno aveva fiato per commentare. Ma fra i marinai raccolti a prua l’allarme cominciava a lasciare il posto all’eccitazione della caccia; dopo tutto, il sopracomito doveva sapere quello che faceva, e non era affar loro preoccuparsene. Il capo bombardiere e i suoi assistenti si affaccendavano attorno al cannone; aprirono la cassa della polvere e quella delle palle, caricarono il pezzo e attesero. Il sopracomito, dopo aver fatto due o tre passi avanti e indietro in grande agitazione, urlò: «Fuoco!».

Il pezzo sparò, facendo tremare lo scafo e rinculando fino all’albero maestro, dove un mucchio di materassi e di cordami assorbì a fatica l’urto di quelle due tonnellate di bronzo. La palla volò nell’aria e andò a perdersi in mare, sollevando uno spruzzo a grande distanza dalla feluca. Tutti attesero ansiosamente di vedere che cosa avrebbero fatto i turchi; poi le vedette urlarono tutte insieme: «Ammaina!

Ammaina!».

Sulla feluca la vela si stava lentamente afflosciando.

 

***