15.

«Vieni qua» ripetè l’assassino. Michele, incerto, mosse qualche passo verso l’ombra.

«Ma cosa c’è?» insistè.

«Sei in pericolo» disse Lupo, in un soffio; parlava piano apposta, perché il ragazzo sentisse e non sentisse, e d’istinto si avvicinasse ancora di più.

Michele rabbrividì.

«Cosa dici?»

Ormai era abbastanza vicino. Lupo uscì dall’ombra e lo prese familiarmente sottobraccio.

«Andiamo via di qui, che ci vedono» disse, con aria preoccupata.

Lo condusse con sé, e imboccò il primo vicolo. Ma lì sobbalzarono tutt’e due, perché per poco non si scontrarono con un uomo che veniva di buon passo verso di loro. Era l’ufficiale dai capelli rossi, il parone della Loredana.

«Guarda chi si vede» disse.

I due si tolsero il berretto e fecero per passare oltre, Michele spaventato senza saper perché, Lupo maledicendo la sua sfortuna.

«Aspetta un po’» ordinò il parone. I due si fermarono, in attesa.

«Vieni qui, tu, che ho da parlarti» continuò l’ufficiale, rivolto a Michele. «Tu, togliti dai piedi» intimò a Lupo.

Michele, sconcertato, si lasciò portare via dal suo salvatore, così come si era lasciato convincere ad accompagnare l’assassino, mentre quest’ultimo spariva fra i vicoli, bestemmiando a bassa voce.

Il parone si chiamava Cesare d’Anversa. Era figlio d’un mercante fiammingo che non aveva fatto fortuna a Venezia ed era morto non lasciandogli in eredità nient’altro che quel nome e i capelli rossi. Quanto a lui, era nato in Laguna e vissuto sempre sulle galere della Repubblica, per cui si sentiva veneziano come chiunque altro. Quella sera era sceso anche lui a terra a divertirsi, ma dopo aver perso ai dadi la sua parte del bottino della feluca, e averla riguadagnata quasi tutta, aveva avuto la forza di fermarsi; e mentre stava lì a veder giocare gli altri aveva cominciato a soppesare nella sua testa un problema che lo disturbava fin dalla mattinata. Anche a lui, come al comito, il comandante aveva mostrato la lista dei banditi, e anche lui, che conosceva uno per uno tutti i rematori della Loredana, aveva riconosciuto il nome di Michele, senza bisogno d’andare a controllare il libro di don Muzio. Non ne aveva parlato con nessuno, perché non era sicuro di quello che voleva fare, e non era un uomo abituato ad agire d’impulso.

Il suo dovere sarebbe stato ovviamente quello di denunciare il bandito e farlo arrestare. Ma in quel caso era sicuro che appena appeso alla corda il ragazzo avrebbe raccontato tutto quello che sapeva, dal furto degli zecchini alla cattura della feluca; e mettendo insieme tutto quanto, ne veniva fuori una storia piuttosto diversa da quella che il sopracomito aveva raccontato all’arrivo a Candia. Per quanto ne sapevano le autorità, il denaro era stato ritrovato, ma se una rivelazione inaspettata avesse messo loro la pulce nell’orecchio non ci avrebbero messo niente ad aprire un’inchiesta.

Dopo la faccenda della feluca tutti a bordo, anche quelli che c’entravano poco o niente, erano legati a doppio filo e se il sopracomito finiva nei guai era probabile che ci finissero tutti quanti. L’uomo dai capelli rossi guardava i giocatori sputarsi sulle mani, alzare gli occhi al cielo per garantirsi un po’ di attenzione dai santi protettori, poi gettare i dadi ed esultare o disperarsi, e intanto calcolava attentamente quel che gli conveniva fare. Il ragazzo non l’avrebbe certo denunciato lui, questo era poco ma sicuro; e tuttavia era probabile che lo avrebbero acchiappato lo stesso, e in quel momento lui, Cesare, voleva essere già lontano di lì. Domani stesso avrebbe cominciato a cercare un altro imbarco, e con un po’ di fortuna l’avrebbe trovato, lì a Candia di vascelli ne passavano tanti; a bordo lo rispettavano e lo scrivano gli avrebbe liquidato le sue spettanze senza fare storie, e quanto al sopracomito, sarebbe stato contento di vedersi intorno un testimone di meno.

Il ragazzo, però, sarebbe finito male. Stordito com’era, forse non si rendeva neppure conto del rischio che correva, trovandosi ancora in territorio veneziano dopo la scadenza fissata nella condanna. Pazienza, pensò Cesare. Io non posso farci niente. O forse sì, invece. D’un tratto gli era venuta un’idea. A prima vista, non era facile far scampare Michele: non poteva certo imbarcarsi su un altro legno veneziano, e nemmeno nascondersi a lungo a Creta, dove prima o poi sarebbe incappato in qualche controllo. Bisognava farlo andare molto più lontano: ma Cesare conosceva il modo.

Già, disse fra sé. Basterebbe che me lo tenessero nascosto finché arriva l’Aquila. Ma perché dovrei, obiettò: soltanto perché mi sta simpatico? Chi fa il bene solo per l’amor di Dio magari si troverà bene nell’altro mondo, ma in questo qui non fa fortuna. Malcontento, si guardò intorno. Da tutti i tavoli dell’osteria gli avventori fissavano con avidità il tavolo dei giocatori, dove le monete passavano di mano in mano. Vediamo, si disse: dammi un segnale, se ci sei. Si sputò sulle mani, si alzò, si avvicinò ai giocatori, buttò uno zecchino sul tavolo.

«Chi ci sta? Un giro a zara, il primo che azzecca prende tutto.»

I giocatori lo guardarono, qualcuno con lo sguardo già torbido per il vino, altri con l’occhio astuto di chi valuta le probabilità.

«Hai deciso di rischiare di nuovo, eh?» esclamò uno.

«Bene, io ci sto» aggiunse, spingendo uno zecchino in mezzo al tavolo.

«Troppo per me» rifiutò un altro; e anche l’ultimo scosse la testa e spinse indietro la sedia su cui stava a cavalcioni Cesare fissò l’avversario.

«Tira tu, Spada.»

L’uomo raccolse i tre dadi, li strinse nel pugno.

«Undici!» gridò, e buttò i dadi. Un mormorio di delusione si levò tutt’intorno.

«Quattro, tre e tre dieci» constatò freddamente Cesare.

«Ora tocca a me.»

Mentre agitava i dadi nel pugno, calcolava. Tutti i giocatori abituali sapevano che i numeri più frequenti erano il dieci e l’undici, e che più ci si allontanava, più era difficile che la combinazione chiamata uscisse. Ma questa non era una partita qualunque, era in gioco la vita d’un uomo, e il risultato non dipendeva dall’aritmetica.

«Tre» gridò; e buttò i dadi. Stavolta non ci fu un mormorio, ma un’esclamazione di meraviglia. Tutt’e tre i dadi mostravano l’asso. Cesare si sentì tremare il cuore. Più chiaro di così!

Spada si era già rizzato in piedi, digrignando i denti; ma Cesare parlò prima di lui.

«I dadi sono i tuoi, Spada. Non dire qualcosa di cui ti pentiresti.»

L’uomo restò immobile per un istante, poi tornò a sedersi pesantemente. Cesare raccolse le due monete d’oro.

«Buonanotte alla compagnia» disse; pagò il vino che aveva bevuto, uscì e camminò rapidamente nella notte attraverso i vicoli tortuosi di Candia. Giunto alla meta bussò a una porta e una domestica assonnata e mezzo svestita, coi capelli scarmigliati, lo fece entrare.

«A quest’ora!» gli disse il padrone di casa, che lo ricevette a letto, in una stanzetta soffocante del piano rialzato.

Era in camicia da notte, sotto il letto s’intravvedeva il pitale, e accanto a lui sul materasso e sul cuscino era rimasta chiaramente impressa la forma di un altro corpo. «Non dovevi passare domani?»

«Ho un affare da sistemare prima di domani» disse l’uomo dai capelli rossi. «Si sa già quando attracca l’Aquila?»

«Secondo gli accordi, sabato prossimo» disse l’uomo nel letto. «Ma non vorrai andarci tu.»

Cesare scosse la testa.

«No, dagli tu questo, come al solito.» Cavò dalla camicia un foglio piegato e sigillato con la ceralacca, ma senza indirizzo. L’altro protese mollemente la mano e lo afferrò con due dita.

«Bene» disse. «E allora?»

«Allora, c’è uno dei nostri galeotti che vuole cercarsi un altro imbarco, e a me fa piacere che lo trovi. Sull’Aquila hanno sempre bisogno di gente, no?»

«Può darsi» disse l’altro, pigramente. Il parone rise.

«So benissimo che ti danno uno zecchino di provvigione per ogni rematore che gli trovi. Puoi fartelo dare anche stavolta, io non c’entro niente, e il mio zecchino l’ho già guadagnato.»

Il padrone di casa fece un cenno vago con la testa.

«Si tratta solo di nasconderlo fino a quel momento»

aggiunse l’uomo dai capelli rossi. L’altro fece una smorfia.

«Sono solo tre giorni» insistè Cesare.

«Be’, va bene» si arrese l’altro. «Chi è?»

Il parone glielo spiegò, senza entrare nei dettagli; del resto pareva che quei due fossero abituati a intendersi senza bisogno di troppe parole.

«Domani te lo mando» concluse il parone. Si abbracciarono, poi l’uomo spense la candela e si rimise giù. La domestica lo riaccompagnò alla porta sbadigliando, poi tornò a occupare il suo posto nel letto, mentre Cesare si allontanava a passo rapido nella strada addormentata.

Quando ebbe preso Michele sotto braccio, il parone lo informò che il suo nome era sulla lista dei banditi consegnata al sopracomito, e che il giorno dopo lui lo avrebbe aiutato a sparire.

«Non stasera, hai capito?» disse, calcando la voce. «

Adesso tu torni alla galera, io ci torno più tardi per conto mio, e tu stanotte e domattina fa’ in modo di farti notare. Lupo ci ha visti insieme e io non voglio grane. È un rischio, ma non c’è nient’altro da fare. Domani scendi a terra e sparisci. Dopo un po’ io vado dallo scrivano, fingo di voler controllare i libri e di accorgermi solo allora che il tuo nome è sulla lista dei banditi. Corro subito a denunciarti, ma tu sarai sparito e non ti trova più nessuno.»

Michele ascoltava stordito. Quel colpo lo aveva lasciato senza fiato. Finora aveva creduto che gli bastasse guardarsi alle spalle e attendere tranquillamente il ritorno della Loredana a Venezia; ora si rendeva conto che la sua situazione era molto più pericolosa. Col bando non si scherzava, e se fosse stato arrestato lì a Creta, o in qualche altro posto del Dominio da Mar, c’era il rischio che lo impiccassero prima ancora di ascoltare la sua storia.

«Ma dove vado?» chiese. Il parone gli spiegò come raggiungere la casa dove doveva nascondersi.

«Hai capito bene? La piazza con la chiesa nuova, dove c’è il cantiere. Il vicolo che sbocca dietro il campanile. La casa con le persiane azzurre. Bussa, verrà ad aprirti una donna.

Tu di’ che ti manda il signor Cesare. Ti farà entrare e ti nasconderanno in cantina. Starai là fino a sabato. Sabato notte attracca in una cala fuori città una galera di corsari genovesi.

Vengono a caricare vino e biscotto, ci sarà movimento quella notte, anche se ufficialmente nessuno ne saprà niente.»

«E lei come lo sa?» chiese Michele; poi si morse le labbra.

Per fortuna l’altro non se la prese a male.

«Sono fatti miei, col permesso di vostra signoria illustrissima» motteggiò. «Il punto, comunque» proseguì, ridiventando serio «è che quella notte ti accompagneranno lì, e ti imbarcherai come rematore. È l’unico modo per andartene da Creta, i battelli che fanno scalo nei porti sono quasi tutti veneziani, e comunque ci sono troppi controlli. Una volta che sarai a bordo dell’Aquila, non farti mai più vedere in terra di San Marco, e buona fortuna.»

Non farmi mai più vedere! Eh no, pensò Michele in cuor suo. Io ci voglio tornare, e ci tornerò. È solo questione di far fortuna su questa nuova galera, e comprarmi la grazia.

Su una galera corsara dev’essere facilissimo far fortuna, ragionò: giacché nonostante tutto il tempo passato sulla Loredana, non aveva ancora capito che ai galeotti la fortuna passa sempre vicina senza fermarsi. E se no saranno i diecimila zecchini che mi faranno tornare, con quelli si fa cancellare anche la condanna al bando! Per un istante ebbe voglia di raccontare tutto al parone, e chiedergli aiuto per recuperare il tesoro; ma poi gli sembrò più prudente non dir nulla.

L’uomo dai capelli rossi non si era accorto di tutto quel tumulto di sentimenti, impegnato com’era ad aggiungere raccomandazioni.

«Guarda che sulle galere ponentine non è come da noialtri» diceva. «Lì la maggior parte dei rematori sono schiavi e forzati, anche i buonavoglia devono abituarsi a essere trattati allo stesso modo.»

«I buonache?»

«I buonavoglia. Loro li chiamano così i salariati al remo.

L’unica differenza dai forzati è che alla fine dell’ingaggio ti pagano il salario, ma per il resto la vita è la stessa, capito? E tu non fare sciocchezze, tieni la testa bassa, prenditi le tue bastonate se all’aguzzino ne scappa qualcuna, perché si fa presto a mettersi nei guai. Poi, quando sarai ben lontano da qui, magari in Italia, se ti capita l’occasione di scappare… be’, io non ti ho detto niente. Chiaro?»

«Chiaro» confermò Michele.

«Ti ricordi bene la strada che devi fare domani e il segnale per farti aprire?»

Michele assentì.

«Va bene. Ora torna in galera. Noi due non ci parleremo più. Buona fortuna, ragazzo.»

Quando venne la sera seguente, e con essa il permesso per la ciurma di scendere a terra, Lupo fingeva di badare a tutt’altro, ma non perdeva di vista Michele. Lo vide disfare il suo fagotto, tirare fuori diverse cose e riempirsi le tasche, ma non capì. Quando il ragazzo si calcò il berretto in festa, si avviò alla scaletta e scese sul molo, si affrettò a seguirlo. Non voleva che qualcuno li vedesse insieme, perciò si accontentò di andargli dietro da lontano, con le mani in tasca, aspettando la sua occasione. Le giornate si erano fatte molto più corte, e cominciava a imbrunire. Soddisfatto, l’assassino si accorse che si stavano addentrando nei vicoli più vecchi e deserti, e tastò il manico del coltello che teneva infilato alla cintura. Michele si muoveva ora svelto, ora più incerto, come se cercasse la strada, e Lupo lo seguiva in silenzio, defilandosi nell’ombra. Poi lo vide sostare davanti a una casa colle persiane azzurre, e guardarsi intorno indeciso. Ora, pensò Lupo, ed estrasse silenziosamente il coltello. Ma in quel preciso momento Michele bussò, e Lupo trattenne il fiato. Un istante dopo la porta si aprì e Michele scomparve all’interno. Non me ne va bene una, pensò Lupo, indispettito. Oh, be’, starò qui finché non uscirà.

Non ci perde niente ad aspettare. Così l’assassino si accoccolò nell’ombra e rimase in attesa; ma Michele non uscì più.

Il padrone di casa stava a letto, con le finestre oscurate e un moccolo di candela che ardeva sul tavolo.

«Vieni qui, fatti un po’ vedere» ordinò. Teneva in grembo una scodella d’uva passa, e masticava lentamente, un chicco dopo l’altro.

«Va bene» disse poi. «Ora ti portiamo in soffitta, bisogna restare lì fino a sabato. Qui non verrà a cercarti nessuno, ma bada di non fare rumore. Anastasia ti porterà da mangiare.»

Il colloquio era finito. Con uno sbadiglio, l’uomo si rilassò all’indietro sui cuscini, poi fece un cenno col capo alla domestica. La donna prese la bugia dal tavolo e precedette Michele fino alla scala.

«Va’ su tu» gli disse. «C’è una botola.»

Michele aprì la botola e salendo gli ultimi gradini si ritrovò in una soffitta angusta. La donna, salita dopo di lui con la candela, gli mostrò un pagliericcio in un angolo, una brocca e una catinella; evidentemente non era lui il primo a utilizzare quello scomodo alloggio.

«Quando sono scesa chiudi la botola. Poi sta’ lì bravo e non muoverti. Quando salgo a portarti la cena busso e tu mi apri. Capito?»

Michele, perplesso, fece cenno di sì e la donna ridiscese le scale, portandosi via la candela. Chiudendo la botola Michele ebbe l’impressione di ritrovarsi nell’oscurità, ma la luce filtrava dalle connessure del tetto e pian piano si accorse che ci vedeva abbastanza da trovare il pagliericcio: altro non c’era, a parte un mucchio di vecchi stracci in un’angolo, dove sicuramente si annidavano i topi.

Michele sospirò, e dopo essersi guardato un po’ intorno si rassegnò a sdraiarsi sul pagliericcio e aspettare.

In quei tre giorni ebbe tempo di annoiarsi ben bene; ma alla fine venne la notte del sabato. La serva venne a bussare piano alla botola; Michele si era già vestito e scese.

Dabbasso trovò un uomo sconosciuto che lo attendeva.

Anche costui lo squadrò come aveva fatto il padrone di casa, e parve soddisfatto.

«Andiamo!»

Era una notte di nuvole, e ci si vedeva poco.

Inciampando nel selciato sconnesso, e calpestando più volte cose molli che preferiva non sapere cosa fossero, arrivò con la sua guida alle mura. Michele si era chiesto come avrebbero fatto a uscire dalla città a quell’ora e senza documenti, ma evidentemente l’altro sapeva il fatto suo, perché anziché dirigersi alla porta andò dritto a una porticina che introduceva ai bastioni, e fischiò, restando nascosto nell’ombra. Quasi subito la porticina si aprì e una testa munita di elmetto apparve nel vano. La guida si avvicinò e parlottò brevemente, poi fece segno a Michele di avvicinarsi. Preceduti dal soldato, s’inoltrarono nei cunicoli della fortificazione, e finalmente raggiunsero un’altra porticina, sbarrata da una poderosa grata di ferro. Era una delle cosiddette sortite, le aperture che gli ingegneri militari praticavano nei fianchi dei bastioni, per consentire alla guarnigione di uscire ad attaccare il nemico in caso d’assedio. Il soldato trafficò a lungo con chiavistelli e lucchetti, poi sollevò l’inferriata quel tanto che bastava perché i due potessero strisciare di fuori. Un istante dopo erano in campagna, e l’uomo tirò fuori una torcia e l’accese.

«Dài, che ce n’è di strada da fare» ordinò; e s’incamminarono di buon passo.

Tre ore dopo giunsero a una cala fra le rocce, e imboccando il sentiero che scendeva alla spiaggia Michele vide una galera ancorata nel piccolo specchio d’acqua. Benché fosse piena notte, una folla di gente lavorava sulla battigia caricando legna e barili d’acqua sulla scialuppa che li trasportava alla galera. La guida andò dritto da un ufficiale che sorvegliava i lavori e gli parlò sottovoce, gli consegnò delle carte e alla fine chiamò Michele con un cenno.

Michele era ormai abituato a essere squadrato da capo a piedi ma lo colpì lo stesso il tono secco con cui l’uomo gli disse: «Spogliati.»

Michele obbedì, togliendosi la camicia, ma l’altro insistè: «Tutto. Fa’ vedere le gambe.»

Michele si tolse anche le brache e rimase in mutande.

L’uomo gli girò intorno.

«Va bene!» disse alla fine. «Così hai già remato, eh?»

«Tre mesi» precisò Michele.

L’ufficiale gli spiegò brevemente le condizioni, l’anticipo, la durata dell’ingaggio; poi fece segno a un galeotto e gli ordinò di accompagnarlo a bordo.

«Fagli mettere il ferro intanto, poi per trovargli il posto aspettami.»

A queste parole Michele rimase interdetto. Stava per chiedere cosa volevano dire, poi si accorse che il galeotto che l’accompagnava aveva un anello di ferro alla caviglia sinistra. Si guardò intorno e vide che gran parte degli uomini al lavoro sulla spiaggia erano ferrati allo stesso modo.

«Cos’è questa storia del ferro?» chiese. Avrebbe voluto dare alla domanda un tono energico, addirittura risentito, ma la voce gli uscì tremante. L’altro lo guardò come si guarda un idiota.

«Perché? Non lo sai che i galeotti si ferrano?»

«Sulle galere veneziane non si usa» ribatté Michele. Come tutti i veneziani, era abituato a pensare che le consuetudini della marineria veneziana fossero accettate da tutti come le migliori del mondo, e rimase sbalordito quando l’altro si mise a sghignazzare.

«Buone quelle! Ma dove vivi? Te lo facciamo vedere noi cos’è una vera galera, va’!»

Michele tacque, umiliato e anche un po’ spaventato.

Intanto erano arrivati alla prua della galera, che si alzava sull’acqua molto più di quanto non facesse la prua della Loredana. In generale Michele ebbe l’impressione che rispetto alle galere veneziane, col loro bordo a pelo d’acqua, questa qui fosse decisamente più imponente. Ma ciò che lo colpì più di tutto fu vedere che mentre sulla spiaggia si lavorava, a bordo erano rimasti moltissimi galeotti, incatenati ai banchi.

«E quelli?» chiese.

«Quelli sono i forzati» rispose l’altro. «Noi buonavoglia, e gli schiavi, siamo incatenati solo di notte, se non c’è da lavorare a terra. Ma i forzati non li liberano mai, hanno troppa paura che scappino. Ecco, aspetta qui.»

Poco dopo l’uomo era di ritorno accompagnato da un altro galeotto e da un marinaio. Quest’ultimo si inginocchiò ai piedi di Michele e con pochi gesti sicuri gli fissò l’anello di ferro alla gamba sinistra, chiudendolo con un lucchetto. Poi si fece avanti l’altro galeotto, che era il barbiere della galera. Gli insaponò la testa e lo rase completamente, o almeno così parve a Michele; ma poi, tastandosi il capo, si rese conto che gli era stato lasciato un ciuffo nel mezzo.

«È per distinguerti dai forzati. Loro sono rasati a zero.

Ma se vuoi un consiglio, fatti crescere i baffi. Noi buonavoglia possiamo portarli, i forzati e gli schiavi no. Quando hai su il berretto, solo i baffi fanno vedere che sei libero.»

Michele, a dire il vero, cominciava a non sentirsi più libero per niente, con quella rasatura forzata e il ferro alla caviglia. Per vincere il panico, ricordò a se stesso che imbarcarsi su quella galera era l’unico modo per sfuggire alla sentenza che gli pesava sulla testa, e che doveva avere moltissima pazienza. Dopo la rasatura lo condussero dallo scrivano, che segnò accuratamente sul suo libro non soltanto il nome, ma i connotati, dopo averlo esaminato da capo a piedi alla ricerca di cicatrici o altri segni particolari.

«Ti accredito quaranta lire» gli disse. Michele, che ormai sapeva come funzionavano queste cose, assentì stancamente.

«E’ buona usanza» proseguì lo scrivano «che ogni nuovo arruolato lasci qualcosa alla cassetta di santa Barbara», e additò una cassettina attaccata, sotto il crocifisso, alla parete della cabina di poppa. «Poi quando si disarma la cassetta si vuota, e si fa elemosina alla chiesa di Santa Barbara, che ci ha protetto nel viaggio.»

«Va bene» disse Michele, perplesso.

«Quanto vuoi lasciare?»

«Mi dica vostra signoria» si rassegnò Michele.

«In genere si lascia almeno un cavallotto» disse lo scrivano. Michele, che non era abituato ad altre monete che a quelle veneziane, scrollò il capo in segno di assenso. Che in galera non si diventa ricchi, alla fine lo aveva capito Nel frattempo la ciurma aveva finito di caricare, e la galera si preparava a prendere il largo. Il comito venne a occuparsi di Michele e gli trovò un posto in un banco di poppa; era un giovanotto alto e robusto, con una corta barbetta bionda, che si chiamava Pasquale da Spotorno. Insieme a lui c’era un marinaio calvo, con l’occhio da pesce morto e le labbra sporgenti; era l’aguzzino, incaricato della custodia dei galeotti. Costui si preoccupò personalmente di fissare l’anello di Michele alla catena attaccata al banco, poi lo guardò in faccia con attenzione.

«Sentimi bene» disse. «Io sono il Calabrese, e non mi dimentico mai niente. Se mi dai dei fastidi te ne accorgerai.

Se righi dritto, andremo d’accordo. Chiaro?»

Michele annuì, stringendosi nelle spalle, e per tutta risposta l’altro gli sferrò un ceffone.

«Si dice sissignore!»

Intorno a lui qualcuno sghignazzò.

«Sissignore» balbettò Michele, rosso per l’umiliazione.

«Ascolta bene le regole: qua non si bestemmia, capito?»

proseguì l’aguzzino. «Le prime tre volte, te la cavi con la bastonatura; la quarta volta ti inchiodiamo per la lingua all’albero maestro.»

Pasquale confermò, con aria seria.

«Se invece senti qualcuno che bestemmia e lo denunci subito, ti spetta per un mese la razione da marinaio»

concluse il Calabrese. «È tutto chiaro?»

«Sissignore» assentì Michele.

Appena i due si allontanarono, i galeotti dei banchi vicini si rivolsero a Michele con irridente curiosità.

«Da dove vieni, bello?»

Quando spiegò che veniva da Venezia, suscitò altri sghignazzi. «Di’ un po’, quand’è che hai scopato l’ultima volta?»

chiese uno, brutalmente.

«Ma non vedi che è un pulcino bagnato? Quello lì non ha mai scopato in vita sua» rise un altro.

«Magari invece è sposato, e ha lasciato a Venezia una mogliettina. Eh? Non è vero che hai una mogliettina che ti aspetta?»

Michele non disse niente, ma agli altri l’idea era piaciuta.

«Dicci un po’, bello, com’è la mogliettina: a letto ci sa fare?» insistè uno da dietro, battendogli sulla spalla.

«Che t’importa?» ribatté Michele a muso duro, rigirandosi di scatto.

«Oh, a me niente!» disse l’altro, beffardo. «È per sapere come si trova quello che se la sta scopando a quest’ora.»

Michele voleva saltargli addosso, nonostante la catena, ma il galeotto seduto accanto a lui lo trattenne; era un negro magro e dinoccolato, che non si era unito, finora, al dileggio generale.

«Basta!» disse forte. Magari non sarebbe bastato, ma il Calabrese, che si aggirava sulla corsia, si stava avvicinando, e tutti quanti preferirono lasciar perdere. Michele si prese le ginocchia fra le braccia, chinò la testa e chiuse gli occhi, tentando di calmare il tumulto delle emozioni che gli si agitavano in petto. Dove sono finito?, si chiese. Ma il pensiero più forte era quello di Bianca, che i commenti sguaiati dei galeotti gli avevano riportato prepotentemente davanti. Si era già accorto da un pezzo che le notti in cui pensava a lei erano più dure da passare di quelle in cui riusciva a non pensarci: e stavolta la voglia di lei e l’angoscia di averla perduta erano così forti che era impossibile ignorarle. Ritrovò un po’ di calma solo dicendosi che ce l’avrebbe fatta a tornare. Sì, per Dio, pensò, ce la farò. Tornerò da Bianca, dormirò di nuovo abbracciato a lei, nell’odore della sua pelle.

 

***