19.

Michele si era ormai avvezzato alla vita sulla galera genovese, così diversa da quella che aveva conosciuto sulla Loredana. Non gli sembrava più strano portare l’anello alla caviglia, ed essere incatenato al banco ogni sera, e risvegliato più volte per notte dai controlli della ronda che verificava la tenuta dei ferri. Si era abituato anche a non scendere quasi mai dal vascello, se non per andare a caricare legna e acqua, sempre sotto la sorveglianza dei soldati.

Qualche volta capitò che fosse scelto per remare sulla scialuppa, quando bisognava portare a terra il comandante o un altro ufficiale; in quei casi si sceglievano sempre i galeotti più robusti e di miglior aspetto, e Michele nell’anno che era trascorso dopo la sua fuga da Venezia si era irrobustito; il volto cotto dal sole era diventato più maschio, braccia e gambe erano muscolose come quelle d’un lottatore, e gli era spuntato, con sua grande gioia, un accenno di baffi biondastri, sicché con addosso il berretto e la casacca rossa dei galeotti faceva la sua figura. Ma anche se queste gite erano una distrazione gradita, poteva farne tranquillamente a meno; aveva imparato da Cazzogrosso a far passare le giornate con filosofia, faticando quando c’era da faticare, distraendosi a guardare il mare o i voli dei gabbiani nelle interminabili ore d’ozio, godendo intensamente il biscotto distribuito due volte al giorno, e la zuppa di fave o ceci dei giorni di festa.

Solo i sogni venivano a disturbare la passività quasi animalesca in cui era sprofondato. Gli capitava di sognare suo padre, e di agitarsi e gridare nel sonno come se stesse lottando contro gli sbirri, tanto che più di una volta i vicini, seccati, lo svegliarono a pugni e calci. Gli capitava di sognare Bianca, e di goderla nel sonno, e di svegliarsi impiastricciato e inspiegabilmente felice, prima di rendersi conto con una fitta di delusione che non si trovava sul materasso insieme a lei , ma sul duro banco della galera. E poi, una volta, gli capitò di sognare distintamente che si congedava dall’Aquila, che lo scrivano verificava la sua partita sul libro, e cominciava a contargli un’enorme quantità di monete d’oro che misteriosamente si erano accumulate sul suo conto; dopodiché sbarcava dalla scaletta di poppa, con un sacco di zecchini in spalla, e tutti a bordo lo salutavano togliendosi il cappello, perfino il comandante… Quando si risvegliò da quel sogno, Michele stentò a tornare alla realtà; per tutto il giorno continuò a pensare che il sogno senza dubbio era profetico, e che i diecimila zecchini sepolti sull’isola lo aspettavano per mettere fine alla sua odissea. La speranza di riuscire a scappare dalla galera prima che scadessero i termini dell’ingaggio gli sembrava sempre più esile, ma d’altra parte l’anno stava passando in fretta. Quando sarò di nuovo libero, andrà tutto subito a posto, si disse.

Dopo qualche giorno di navigazione tranquilla, la galera entrò nel porto di Palermo, passando sotto i poderosi castelli che ne proteggevano l’ingresso. Messer Ettore, col braccio al collo e ancora molto pallido e sofferente, scese a terra con la scialuppa, e Michele fu uno dei sei galeotti scelti per remare. Ormeggiata la barca al molo, rimasero lì ad aspettare. L’attesa durò quasi tutta la giornata, che i galeotti e i due archibugieri imbarcati con loro trascorsero sbadigliando e sonnecchiando; a un certo punto ebbero fame, e decisero tutti insieme di mandare a prendere qualcosa da mangiare all’osteria, dato che tutti, bene o male, avevano qualche moneta nella borsa. Venne un gran calderone di pane ammollato nel brodo e insaporito di milza arrostita, e tutti quanti ne mangiarono a sazietà, allegri per quella variazione inaspettata della solita, monotona dieta. Solo uno dei galeotti rifiutò, e si accontentò di masticare un tozzo di pane che s’era portato sotto la camicia.

«Ehi, compare, guarda che se non hai soldi provvedono gli amici, hai capito? Oggi è festa!» dichiarò un altro galeotto un napoletano che di solito parlava poco, con palpebre pesanti che lo facevano parere mezzo addormentato, benché al di sotto guizzassero due pupille attentissime e sospettose. L’altro alzò il capo e fece segno di no.

«Non posso mangiarla questa roba.»

«Ah no? E che, voi turchi non la potete mangiare la milza?» chiese il napoletano, in tono di sfida.

«Non sono turco, sono ebreo» disse l’altro, con dignità.

Uno dei soldati si mise a ridere, con la bocca piena.

«E da quando sei ridiventato ebreo? Non avevi detto che volevi farti cristiano?»

L’ebreo si strinse nelle spalle.

«Ebbene? Ho cambiato idea.»

«Un’altra volta!» lo sfottè l’uomo. «Ma la sapete la storia di questo disgraziato?» proseguì, rivolgendosi agli altri.

Tutti si fecero attenti, mentre l’ebreo con una smorfia tornava a dedicarsi alla sua pagnotta. Venne fuori che era un turco davvero, catturato a Lepanto diciott’anni prima. In galera si era trovato a remare insieme a certi ebrei, e quelli lo avevano convinto ad abbandonare la sua religione e seguire la loro. Poi, però, ci aveva ripensato, e aveva cominciato a parlare di farsi cristiano. Forse sperava che in questo modo sarebbe stato liberato, o almeno che il suo trattamento sarebbe migliorato; quando gli avevano spiegato che in ogni caso, battezzato o no, sarebbe rimasto schiavo come prima, aveva cambiato idea un’altra volta.

«Sta’ attento che non lo venga a sapere l’Inquisizione!»

sghignazzò qualcuno. Il napoletano fissò l’ebreo di sotto le palpebre pesanti, poi sputò.

«Io queste cose di non mangiare questo e non mangiare quello non le capisco proprio!» dichiarò con strafottenza.

«E quindi neanche il vino bevi?»

«Sì, perché no? Noi ebrei lo beviamo» ribatté l’altro, offeso.

«E bravo il nostro amico! Allora senti, compare» proseguì il napoletano, rivolgendosi a uno degli archibugieri, «che ne dici di far venire pure un poco di vino, che abbiamo sete?»

«Ma non abbiamo già speso abbastanza?» obiettò Michele, che fino a quel momento era stato zitto. Il napoletano lo guardò con una smorfia di disprezzo.

«E che, siamo dei pezzenti?» disse, minaccioso.

Tutti tacquero per un istante; poi un altro galeotto si alzò.

Era un napoletano anche lui, arrivato a bordo da poco; Michele sapeva che lo chiamavano ‘o Mussuto, anche se non sapeva che quel soprannome, affibbiatogli quando friggeva pesce per strada, significava “il baccalà”.

«Avete sentito cosa ha detto don Tommasino? Abbiamo sete o no? Su, cacciate i soldi!»

Tutti quanti, compresi gli archibugieri, tirarono fuori il denaro. ‘O Mussuto lo contò, poi fece un inchino al compaesano.

«Don Tommasino, ai vostri ordini.»

«E bravo» disse l’altro, schioccando la lingua. «Così mi conosci?»

«E chi non vi conosce a vostra signoria?» replicò ‘o Mussuto, untuoso.

Michele seguiva questo scambio senza capirci nulla, e con un’unica ferma intenzione: quella, se possibile, di non avere più a che fare né con l’uno né con l’altro dei due napoletani. Se ne rimase zitto, bevve il suo vino quando il soldato mandato a prenderlo ritornò e ne versò a tutti, cominciando ovviamente da don Tommasino: il quale peraltro, come Michele aveva notato, era stato l’unico a non tirar fuori un soldo. Che fosse per la pancia piena, per il caldo o per il vino, o per qualche altro motivo, sul piccolo gruppo era calato il silenzio. Rimasero così, a digerire e sonnecchiare sulla scialuppa appena cullata dalla risacca, finché, verso il tramonto, non comparvero sul molo messer Ettore e Pasquale. Si vide subito che non erano per niente contenti.

«Non è possibile essere così sfortunati! Di’, Pasquale, ma che ci sia qualcuno che porta male su questa galera?

Pensaci bene, che se c’è lo lasciamo a terra, perché non si può andare avanti così!» protestava il comandante; e Pasquale si stringeva nelle spalle. Il tentativo di smerciare il carico sequestrato sulla tartana era stato un fallimento: solo due giorni prima era arrivata a Palermo una nave ragusea carica di uva passa, e non c’era più domanda sul mercato. Mentre la scialuppa li riportava a bordo, i galeotti fecero in tempo a sentire il comandante che diceva:

«Sai che c’è, Pasquale? Che vadano al diavolo! Noi domani ripartiamo e ce ne andiamo a venderlo a Napoli, il carico. Voglio vedere se lì non ci va bene.»

Il comito assentì.

«È una buona idea, illustrissimo. Se dura questo scirocco, in tre o quattro giorni siamo lì.»

Sentendo che si andava a Napoli, Michele alzò gli occhi a guardare le reazioni dei due napoletani. ‘O Mussuto pareva allegro, e ridacchiava. Ma don Tommasino continuava a remare tenendo gli occhi fissi davanti a sé, inespressivi come quelli d’un rettile sotto le palpebre calate.

Il viaggio verso Napoli, come aveva previsto Pasquale, fu veloce e senza nessun evento d’importanza, salvo uno, che commosse soltanto Michele e Cazzogrosso: una notte, dopo aver tremato di febbre per qualche ora, morì il vecchio Mahmud bey. Se ne accorsero all’alba, al momento di ripartire; era già rigido, tanto che l’aguzzino subito chiamato faticò a districarlo dal banco, dopo averlo sferrato. Lo cucirono in un sacco di tela, e lo buttarono in mare senza cerimonie, mentre lo scrivano tirava un rigo sul suo nome nell’elenco degli schiavi. Michele si fece il segno di croce, e Cazzogrosso, mentre il cadavere scivolava fuori bordo e s’inabissava sott’acqua, recitò una formula in una lingua sconosciuta, passandosi più volte le mani sulla faccia. Il vecchio era fuori di testa, non aveva mai detto una parola comprensibile da quando Michele era arrivato sull’Aquila, e anche adesso non c’era altro da dire; eppure entrambi si sentivano il cuore gonfio, e non avevano voglia di parlare.

Erano in navigazione da poco, quando il Calabrese arrivò conducendo il galeotto destinato a sostituire il vecchio. Con sorpresa, e anche con preoccupazione, Michele vide che il nuovo venuto era ‘o Mussuto. L’altro pure lo riconobbe e si degnò di fargli un cenno del capo; ignorò Cazzogrosso e si installò comodamente al suo posto. Aveva due fagotti, mentre a tutti i buonavoglia ne era concesso solo uno e spinse via senza cerimonie il fagotto di Michele per far posto al suo. La cosa più strana di tutte era che fosse stato messo come terzicchio, nel posto dove si faceva meno fatica e dove era bastato fino ad allora il vecchio e malandato Mahmud bey, mentre con le spalle che si ritrovava avrebbe potuto benissimo far da postizzo o anche da vogavanti, com’era chiamato il pianiero sulle galere genovesi. Ci sono anche qui le ingiustizie, si disse Michele, che era ancora abbastanza ingenuo da stupirsi.

All’arrivo a Napoli, l’Aquila ormeggiò davanti ai torrioni di Castelnuovo, e il comandante scese a terra con Pasquale; ‘o Mussuto e don Tommasino vennero di nuovo scelti per remare sulla scialuppa, ma non Michele, il quale ne approfittò per commentare col vicino, ora che finalmente l’altro non era lì ad ascoltarli.

«Di’, che tipi, eh? Mettono i brividi» confessò.

Cazzogrosso lo guardò seriamente e non disse niente; solo si portò silenziosamente un dito davanti alle labbra.

«Ma che c’è?» disse Michele, senza capire.

«Sta’ zitto! Quella è gente con cui è meglio non aver niente a che fare» sussurrò l’altro.

Il giorno dopo un mercante venne a bordo della galera a esaminare le casse prese sulla tartana, e si mise d’accordo sul prezzo con messer Ettore, per cui la sera stessa i galeotti vennero messi al lavoro per scaricarle. La fatica continuò tutto il giorno seguente; bisognava trasportare il carico fino a un magazzino piuttosto lontano, e Michele, come gli altri, si trovò ad attraversare più volte avanti e indietro il quartiere del porto di Napoli, brulicante di botteghe e di facchini, di monelli, di disoccupati e di donne di strada, di gente che mangiava, dormiva e pisciava all’aperto. La sera, quando tornarono in galera, il tempo s’era guastato; si preparava un acquazzone, e bisognò alzare la tenda.

Finito anche quel lavoro, i galeotti aspettavano il rancio serale, quando dal molo si sentì chiamare il capitano, da una voce con un forte accento spagnolo e in un tono che non ammetteva repliche. Era un commissario, un uomo anziano con i capelli e i baffi bianchi, tutto vestito di nero, accompagnato da una squadra di alabardieri. Messer Ettore si affacciò al castello di poppa e fra i due iniziò uno strano dialogo.

Il commissario era stato mandato dal viceré a ispezionare la galera. Una denuncia anonima sosteneva che a bordo c’erano dei galeotti ingannati, assunti per altri servizi e poi messi al remo contro la loro volontà, e altri il cui termine d’ingaggio era scaduto, ma che non erano stati liberati.

Il comandante replicò in tono acceso che non c’era una parola di vero, e che chi aveva presentato la denuncia mentiva. Il commissario, diventando rosso, rispose che si sarebbe visto chi mentiva. Il comandante chiese se per caso si riferiva a lui. Il commissario rispose che non si sarebbe mai permesso, ma che aveva ordine di verificare personalmente la faccenda. Messer Ettore ribatté che poteva accomodarsi. Il commissario chiese di levare la tenda, e il comandante accennò a Pasquale che eseguisse. I galeotti, che avevano seguito in un silenzio d’incanto e con estrema attenzione quello scambio di battute, fissarono avidamente gli sguardi sul commissario. Costui si fece avanti e proclamò a gran voce: «Chi sta qui contro la sua voglia, lo dica.»

A questo punto dalla poppa risuonò la voce beffarda del comandante:

«O povero messer Ambrogio Negroni, oggi resti senza galera. Signore, fatemi mettere in terra, perché io, che sono capitano di questa galera, e comando a tutti questi uomini legati e sciolti, sono molti anni che ci sto di mala voglia, e se potessi star in terra, ci starei. Pensate un po’ che faranno questi che non hanno nulla salvo pane ed acqua, e per companatico bastonate.»

Fra i marinai e la ciurma molti sghignazzarono. Il commissario alzò le spalle, salì a bordo e cominciò a percorrere la corsia, ripetendo la stessa domanda. Nessuno gli rispondeva; in grande maggioranza i galeotti erano schiavi o forzati, e fra i pochi buonavoglia nessuno si fidava del viceré di Napoli. Mentre il commissario si avvicinava al banco di Michele, ‘o Mussuto si animò, frugò nella borsa e ne cavò una moneta.

«Di’, vuoi guadagnarti un reale?» chiese a Michele, mostrandogli la moneta d’argento.

«E come?» ribatté Michele, sorpreso.

«Quando arriva il commissario, tu gli fai segno di avvicinarsi, e poi gli dici in un orecchio che qui a bordo c’è Tommasino Buttafuoco.»

«E poi?» indagò Michele, sospettoso.

«E poi niente, ti sei guadagnato un reale» disse l’altro.

Michele guardò Cazzogrosso, che gli fece impercettibilmente segno di no.

«E perché non glielo dici tu?» ribatté. L’altro lo guardò con strafottenza, e sputò.

«Peggio per te» disse minaccioso. Il commissario era già arrivato alla loro altezza, e ripetè ancora una volta il suo appello: se c’era lì qualcuno trattenuto contro la sua volontà, che lo dicesse. Nessuno aprì bocca, e il commissario, rigido e rosso in viso, andò oltre. Quando ebbe completato l’ispezione, tornò alla scaletta di poppa, scese sul molo e si voltò verso messer Ettore, che aveva assistito alla scena sogghignando.

«Buonanotte, signore» disse con un mezzo inchino, scappellandosi. Il comandante rispose con un inchino ancora più profondo, e il commissario se ne andò, seguito dagli alabardieri.

Il giorno dopo si sparse la voce fra i galeotti che ai buonavoglia sarebbe stato concesso, eccezionalmente, di scendere a terra. Messer Ettore, allegro per aver venduto con profitto il carico della tartana e forse ancor più per la vittoria riportata sul commissario, voleva ricompensarli per la loro lealtà, o almeno questa era la voce che correva, e Michele ci credette.

«Divertiti» gli disse malinconicamente Cazzogrosso. «E

se scopi, ricordati bene tutto, così poi mi racconti.»

Michele era dispiaciuto per il negro, ma non gli passò nepure per la mente che anche agli schiavi, forse, si sarebbe potuto concedere di scendere una volta a terra senza un carico sulle spalle; i baffi che portava e la faccia rasata di Cazzogrosso volevano pur dire una differenza! Tirò fuori dalla sacca una camicia pulita, tuffò le punte delle dita nel barilotto dell’acqua per sciacquarsi la faccia, e si stava cambiando quando all’improvviso si sentì vociare sul molo, e poi un grido chiarissimo:

«Aquila! Aquila! Soccorso!»

Tutti i marinai e i buonavoglia sferrati che si trovavano ancora a bordo si precipitarono alla fiancata. A gridare era don Tommasino, che era sceso dalla galera fra i primi e stava tranquillamente percorrendo il molo, pure lui vestito di abiti puliti e con le scarpe ai piedi, quando gli sbirri lo avevano fermato. Don Tommasino si era messo a urlare, benché due uomini lo tenessero per le braccia e un altro si affaccendasse a imbavagliarlo. Sulla galera si levò un ruggito di rabbia, e senza che nessuno degli ufficiali lo avesse ordinato la gente si accalcò alla scaletta e si riversò sul molo. Quasi nessuno aveva idea di chi fosse l’arrestato, ma il fatto che gli sbirri se la stessero prendendo con uno dell’Aquila era bastato a far perdere la testa a tutti.

Parecchi soldati avevano la spada in pugno, e tutti i marinai il coltello. Fu un istante: il gruppetto di sbirri che cercava di trascinar via il prigioniero fu investito dalla folla, e un attimo dopo uno di loro giaceva calpestato e coperto di sangue sul molo, mentre gli altri correvano per salvare la pelle. Qualcuno li inseguì fino all’imboccatura del molo, poi, prudentemente, preferì tornare indietro. Michele aveva appena fatto in tempo ad affacciarsi alla scaletta quando vide i primi che si affrettavano già a risalire sulla galera.

«Be’? Che è successo?» chiese Cazzogrosso.

«Che ne so! Gli sbirri avevano pigliato uno, ma i nostri gliel hanno fatta vedere!» rispose Michele, eccitato e felice.

, sedette al suo posto, allargando le gambe: il terzicchio non c’era, per cui rimaneva un sacco di spazio.

Tumultuosamente i galeotti che avevano partecipato alla rissa tornarono a prendere posto ai loro banchi, mentre gli ufficiali, storditi dalla rapidità con cui tutto era accaduto, urlavano ordini inutili. La voce di quello che era successo dovette spargersi rapidamente per i vicoli di Napoli, perché i soldati e i marinai dell’Aquila che erano scesi a terra già in precedenza ritornarono tutti in fretta, alla spicciolata e piuttosto spaventati, nelle ore seguenti; fra gli ultimi, quando scendeva già la notte, rientrò ‘o Mussuto, coll’aria stravolta, e riprese il suo posto senza dire una parola.

«Non sono mai stato così contento di essere incatenato a questo banco» rise Cazzogrosso. «Voialtri ragazzi passerete un bel guaio» profetizzò.

 

***