10.
La mattina dopo, mi sveglio e penso di restare a letto. Non ho dormito granché. Dopo aver chiamato mia madre per raccontarle del sangue raggrumato e dei denti spezzati di Aislinn («Ah»), ho passato metà della notte ad alzarmi per controllare rumori sospetti – con questo tempo ce n’erano in abbondanza – e l’altra metà a letto tentando di decidere chi si merita di piú un pugno sul muso, Steve per aver tirato fuori la teoria della gang o io per avergli dato credito. Alle sei del mattino mi sento tutta rigida. Non ho mai marinato il lavoro, ma oggi non riesco a capire perché non dovrei. Due cose mi impediscono di telefonare: se non vado a lavorare, andrò a correre finché mi cedono le gambe, e passerò il resto del tempo a impazzire in casa; e se non vado a lavorare oggi, significa un giorno in piú da passare sopra questo caso di merda.
Mi vesto per andare a correre senza accendere la luce. Poi spengo le luci a sensori di movimento, esco nel patio e scavalco il muro di cinta. È ancora buio, quell’oscurità piatta prima dell’alba, quando anche le cose che popolano la notte, volpi, pipistrelli, ubriachi e pericoli, hanno finito le loro attività e dormono; persino il vento si è ridotto a un debole soffio. Mi muovo senza rumore nel vicolo e mi nascondo nell’ombra per guardare da dietro l’angolo verso la strada; non c’è nessuno né in alto, né in basso, per quanto la luce giallastra mi permette di vedere.
Normalmente, la mia corsa mattutina mi lascia con una sensazione di forza nei muscoli, pronta ad affrontare qualsiasi cosa. È ciò che mi consente di andare avanti per tutto il turno. Oggi la forza non c’è. Barcollo qua e là come una principiante, trascino le gambe come se ci avessi legato intorno dei sacchi di sabbia bagnata, mi cadono le braccia e non riesco a trovare un ritmo per il respiro. Spingo piú forte, finché mi fa male il petto e comincio a vedere rosso. Mi appoggio a un lampione, piegata in due, e aspetto che passi.
Torno verso casa a passo di jogging: qualcosa dentro di me mi dice che se rallento fino a camminare sono fregata, in un modo che non so ben specificare. Quando arrivo nella mia strada, le gambe hanno smesso di tremare. I primi strati di oscurità stanno scomparendo e le finestre si illuminano. Non c’è ancora nessuno.
Ho detto a Pulci che avrei fatto sistemare serrature e allarme, e al momento ne ero convinta. Ma ho cambiato idea. Il tizio che sorveglia casa mia è l’unica cosa con un minimo di potenziale che resta in questa settimana del cazzo. Se vede tecnici e fabbri al lavoro capirà di essere stato notato e si troverà un’altra persona da spiare o un altro hobby, o magari sparirà e aspetterà settimane o mesi prima di tornare. Ho bisogno di lui ora.
Faccio la doccia, mi butto nello stomaco un po’ di cereali ed esco per andare al lavoro. Fuori non vedo ancora nessuno.
Arrivo in centrale senza essere fermata da nessuna pattuglia… Anche gli stronzi ci mettono un po’ a prepararsi, al mattino. Fuori dal nostro edificio, nello strano chiarore fatto di luce dell’alba e luce di riflettori, McCann fuma una sigaretta con la schiena contro un muro.
– ’Giorno, – dico, senza fermarmi. Lui alza il mento ma non dice nulla, né io mi aspettavo che dicesse qualcosa.
Ha un aspetto di merda. McCann non è mai tirato a lucido, come Breslin; è uno di quegli uomini che sembrano sempre in lotta contro una naturale tendenza a lasciarsi andare: ombra di barba già a mezzogiorno, riccioli grigi che non stanno a posto. Di solito vince la battaglia, perché non molto tempo fa era ancora un bell’uomo, prima che cominciassero a cascargli le guance e la pancia, e perché i suoi vestiti sono sempre immacolati e stirati cosí bene che potresti pattinarci sopra. Stamattina, però, la battaglia la sta perdendo. L’ombra di barba è ben piú che un’ombra, la camicia è spiegazzata, ha qualcosa di marrone e appiccicoso su una manica della giacca e le borse sotto gli occhi sembrano due lividi.
Mentre io e Steve scolpivamo le nostre teorie del complotto, come due deficienti totali di quelli che girano negli angoli piú tristi di internet, Breslin diceva la verità: McCann è finito sul libro nero della moglie. Dorme sul divano e deve stirarsi i vestiti da solo. Mi verrebbe da ridere, se l’oggetto della risata piú grossa non fossi io.
Ho la mano sulla porta quando lui dice: – Conway.
Mi fermo, a dispetto di me stessa. Voglio sentire, solo per conferma, quello che so già che dirà. McCann sta per farmi capire, con una precisa allusione, che lui e Breslin prendono tangenti.
– Sí? – rispondo.
Lui ha la testa contro il muro e guarda i giardini invernali spogli, non me. Dice: – Come sta andando con Breslin?
– Bene.
– Lui dice cose lusinghiere su di te.
Sí, con il buco del culo. – Mi fa piacere, – dico.
– È un bravo detective, Breslin. Il migliore. È bravo anche come partner: ti protegge a qualsiasi costo. Finché non gli dài una fregatura.
– McCann, io sto solo facendo il mio lavoro. Non ho nessuna intenzione di fregare il tuo amico. È chiaro?
Questo gli fa storcere la bocca in un sorriso senza allegria. – Meglio cosí. Ha già troppe cose per la testa.
Ed eccoci al punto. In venti secondi. – Sí? E quali?
McCann scuote la testa, con un breve scatto. – Lascia perdere. Non ti interessa.
Ieri mi sarei sbavata addosso. Ora provo solo un piccolo moto di rabbia, troppo sfiatato per durare. Quale che sia il gioco di Breslin, deve aver capito che il suo sistema non sta funzionando, perciò ha mandato McCann a tentare un altro approccio, come farebbe con un indiziato qualsiasi. Le cicche sparse ai piedi di McCann dicono che mi stava aspettando da chissà quanto, solo per recitare le sue battute da film di serie B. – Come vuoi, – dico. – Te lo restituirò tutto intero, il piú presto possibile, credimi.
Sto per voltarmi di nuovo quando lui dice, con la sigaretta tra i denti: – Aspetta.
– Cosa c’è?
McCann osserva la cenere spostarsi sui ciottoli. Poi dice: – È stato Roche a fregarti la dichiarazione.
– Di cosa parli?
– La rissa di sabato notte. Ti è scomparsa l’ultima pagina della dichiarazione di un testimone.
– Non ricordo di avertene parlato.
– No. Ma Roche ci stava ridendo sopra con i ragazzi, in sala detective, ieri –. McCann infila una mano nella tasca della giacca, ne estrae un foglio piegato e me lo allunga. Lo apro: è la pagina mancante. – Con le scuse di Roche, piú o meno.
Gli tendo il foglio. – Ormai ho già fatto firmare al testimone un’altra dichiarazione.
McCann non lo prende. – Lo so. Ma non è questo il punto –. Indica il foglio. – Strappalo, ficcalo in culo a Roche, facci quello che vuoi.
– Allora qual è il punto?
– Il punto è che non tutti nella squadra sono come Roche. Io e Bres non abbiamo nulla contro di te. Non sei uno spreco di spazio, come invece sono alcuni di loro; hai la stoffa della detective e noi saremmo felici di vederti fare carriera.
– Grande, – dico. Sembra proprio la verità, tono pratico con appena una sfumatura di calore, il vecchio cane burbero che rifiuta i sentimentalismi ma vuole il meglio per la giovane studentessa che si è guadagnata il suo rispetto. Se non avessi visto McCann fare questo numero in una dozzina di interrogatori, e se non avessi imparato la lezione, potrei anche caderci. – Ti ringrazio.
– Perciò, se Breslin ti dice di fare qualcosa, è per il tuo bene. Anche se a te non sembra; anche se pensi che si sbagli. Se hai un po’ di buon senso, ascoltalo. Mi capisci?
Ora ha gli occhi fissi su di me, arrossati dal vento e dalla stanchezza. La voce è condensata, concentrata. Questa è la parte importante, il motivo che lo ha tenuto qui al freddo ad aspettare di vedermi arrivare nella luce confusa, per portarmi dove vuole lui.
– Capisco benissimo, – dico. – Non mi è sfuggito nulla –. Appallottolo il foglio di carta e lo infilo nella tasca del soprabito. – Ci vediamo.
– Sí, – dice McCann. – Ci vediamo –. Si volta di nuovo verso i giardini, un profilo scuro e un po’ floscio contro la luce crescente. La puzza della sua sigaretta mi segue dentro l’edificio.
Io e McCann siamo arrivati in anticipo. La donna delle pulizie sta ancora passando l’aspirapolvere in corridoio. In sala detective, gli unici suoni sono quelli di una conversazione tra due uomini e lo strillo di un programma radiofonico. La centrale operativa C è deserta, a parte Steve, tutto scompigliato e chino sulla scrivania con una tazza di caffè tra le mani.
– Sei venuto presto, – dico.
– Non riuscivo a dormire.
– Nemmeno io. Qualche segno di Breslin?
– No.
– Meglio –. Non sono dell’umore giusto per sopportare Breslin. Sulla scrivania davanti a Steve c’è una pila di album: foto segnaletiche. Le indico con un cenno del capo: – E quelle, per cosa sono?
– Malavita, – risponde lui, sbadigliando. – Ragazzi di Lanigan, principalmente. Voglio mostrarle al barman del Ganly’s, e anche ai vicini di casa di Aislinn, per vedere se qualcuno di loro riconosce…
Lo interrompo. – La teoria della gang è morta –. Suona come un pugno in faccia.
Steve mi guarda senza capire. – Aspetta. Cosa?
– Chiusa. Finita. Non voglio piú sentirne parlare. Sono stata abbastanza chiara?
– Un momento –. Steve ha alzato le mani e poi se le è dimenticate in aria, mentre cerca di capire cosa succede. – Un momento. Allora Breslin a cosa giocava, ieri, quando si è liberato di Gaffney? Non dirmi che credi davvero che sia andato a scopare.
Getto la cartella sul pavimento e mi lascio cadere sulla sedia. Mi fa bene vedere Steve che riceve il colpo. – Forse è andato a fare la manicure, o forse non è andato da nessuna parte e voleva solo farci capire che non prende ordini da noi. Non mi interessa.
– E l’hai visto quando ha dato a Gaffney il denaro per il suo sandwich, giusto? Quel rotolo di biglietti da cinquanta. Cosa ci faceva?
– Non mi hai sentito? Non mi interessa. Se vuole portarsi in tasca tutto il suo fondo di risparmi per impedire che cada nelle mani degli Illuminati, è un problema suo, non nostro.
– Va bene, – dice Steve, in tono prudente. Mi guarda come se avessi preso la rabbia. – Va bene. Cosa è successo ieri sera?
– Ieri sera, – rispondo, – ho fatto una chiacchierata con un tizio che conosce l’ambiente della malavita come le sue tasche, e mi ha detto che possiamo escludere quella pista. Aislinn non aveva nulla a che fare con nessuna gang. Fine della storia. C’è una minima e vaga possibilità che non sia cosí, e se lui trova qualcosa in tal senso ce lo farà sapere, ma è inutile trattenere il fiato nell’attesa. E dobbiamo essere solo grati di averlo scoperto prima di fare la figura dei cretini davanti a tutta la squadra.
Steve ha un’aria come se il suo criceto fosse finito sotto un camion. – Conosci bene questo tizio?
– Piuttosto bene. E da molto tempo.
– Sei certa di poterti fidare di lui?
La sua faccia; come se una cosa del genere non potesse succedere, non alla sua idea preferita. – Se non mi fidassi di lui, cazzo, gli avrei chiesto la sua cazzo di opinione?
– No. Sto solo…
– No. E ti sembro una cerebrolesa?
– No…
– No. Perciò, se dico che possiamo credergli, probabilmente significa che possiamo credergli.
– Va bene, – dice Steve. Ora ha un’espressione neutra; si è ritratto in sé stesso, come fa quando è incazzato. – Crediamogli.
Lo lascio a smaltire la delusione e mi metto a lavorare, o almeno ci provo. Non ci riesco; devo leggere ogni frase tre volte, prima di capirla. Di solito sono in grado di concentrarmi malgrado tutto, avere una scrivania in sala detective ti insegna a farlo, specialmente la sala detective dove lavoro io; ma ciò che ha detto Steve mi rode.
Pulci sa molte cose su di me e sulla mia carriera, per uno che vive sotto copertura profonda da anni. Pensavo che fosse una bella cosa, che si fosse preso il disturbo di informarsi su di me. E infatti può essere proprio cosí; o forse no.
All’improvviso mi ritrovo a guardare sotto un’altra luce ogni passo della nostra calda conversazione, in cerca di crepe attraverso le quali intravedere il suo obiettivo segreto. Vuole che faccia marcia indietro per evitare che metta in pericolo un’operazione antidroga, o magari perché non vuole i miei germi su quello che sta facendo; o perché è passato dall’altra parte della barricata e vuol proteggere il suo nuovo capo. Analizzo anche me stessa, chiedendomi se davvero avevo bisogno di parlare con lui per scopi di lavoro o se stavo solo cercando una scusa per farmi un sandwich e quattro chiacchiere con una persona che non mi considera un’intoccabile. Non credo nei giudizi con il senno di poi e non credo nelle analisi introspettive e mi scoccia parecchio ritrovarmi a fare entrambe le cose. Vorrei aver maltrattato Steve piú a lungo, già che c’ero. Spero che si senta una merda.
Do una scorsa ai miei messaggi, quelli che sono riusciti ad arrivare fino alla mia scrivania o alla mia segreteria telefonica. Se qualcuno ha cancellato quelli davvero interessanti, ha fatto un ottimo lavoro. C’è il referto corretto dell’autopsia di Cooper; un paio di segnalazioni che dovremo controllare: qualcuno ha visto una donna somigliante a Aislinn, qualche settimana fa, litigare in un night club con un tizio che sembrava un giocatore di rugby; sabato pomeriggio qualcun altro ha visto in Viking Gardens tre adolescenti maschi con atteggiamento sospetto, qualsiasi cosa voglia dire. Il rapporto della Scientifica: le macchie sul materasso di Aislinn non sono di sperma, il che significa che probabilmente sono di sudore. I tecnici stanno cercando di rilevare il Dna, ma non promettono nulla: Aislinn teneva una temperatura elevata in casa, i materassi non sono sterili e il calore e i batteri possono aver degradato il Dna fino a renderlo inservibile. Fatico a credere che faccia una grande differenza, in un modo o nell’altro.
Una grossa pila di carte contiene tutte le e-mail di Aislinn, da confrontare con quelle presenti sul suo account, nel caso qualcosa sia stato cancellato. Questo ci terrà occupati fino a farci esplodere il cervello. Stronzate di questo tipo sono il motivo per cui Dio ha creato le reclute, ma se c’è una minima possibilità di trovare qualcosa di utile per questo caso, il posto dove cercare sono i dati digitali di Aislinn. Perciò divido in due la pila di carte e ne spingo la metà verso Steve. Lui dice: – Grazie, – senza guardare e la spinge di lato. Penso di dargli un calcio sotto il tavolo, ma lascio perdere. Spargo sulla scrivania gli stampati delle e-mail di Aislinn e quelli del contenuto delle sue caselle di posta e inizio il controllo incrociato, lavorando all’indietro. Domenica, ore 3.18, ricevuta di pagamento da un sito di cosmetici. Ore 3.02, spam da una inesistente ragazza russa in cerca di compagnia; entrambe le mail sono ancora nella casella di posta in arrivo. Vorrei posare la testa sulle carte e dormire.
Le reclute arrivano una alla volta, scattano fuori dall’annebbiamento mattutino non appena vedono me e Steve e si mettono a svolgere i compiti che gli sono stati affidati nella riunione di ieri. Do a Gaffney il referto di Cooper da battere al computer. Ce l’ho ancora con lui per non essere tornato da Stoneybatter con una identificazione vocale. Breslin entra canticchiando, saluta tutti con un allegro: – Ehi, camperinos! – e dice a me e Steve: – Due ex di Rory fatte, due ancora da fare. Chi è l’uomo per questo compito?
– Sei tu, – risponde Steve in automatico, voltando una pagina. – Hai ottenuto qualcosa di buono?
– Nessuna sorpresa. Rory è un bastardello prevedibile. Vediamo se le altre due avranno qualcosa di interessante da dirmi –. Breslin si china verso la nostra scrivania e cerca di leggere, alla rovescia, quello che sto facendo. – Che cos’è tutto questo?
– Sono le e-mail di Aislinn, – rispondo.
– Ah. E?
– E se vuoi uno sconto del settanta per cento su un favoloso vestito da dea, posso consigliarti a chi rivolgerti.
– Un gran divertimento, mi sembra –. Mi fa il suo sorriso da star del cinema, prende la pila della posta inviata di Aislinn e sfoglia rapidamente le pagine. – Gesú, capisco cosa intendi. C’è da invecchiare, prima di finire. Volete che ci pensi io?
– No, tranquillo –. Non mi prendo il disturbo di insospettirmi. Breslin sembra fatto apposta per sollevare i miei sospetti, ma ho finito di stare al suo gioco. – Io ho cominciato, io finisco.
– Conway –. Il sorriso di Breslin si fa un po’ triste. – Sto solo cercando di mostrarti che so chi è il capo, in questa indagine. Se hai bisogno di qualcuno che faccia un po’ di lavoro noioso, mi sto offrendo per farlo.
– Grazie, – dico. – Va bene cosí.
Dopo un paio di secondi, Breslin fa spallucce. – Come vuoi –. Da’ un’altra scorsa alle e-mail, con piú calma, poi le molla sulla mia scrivania. Volta dalla sua parte anche la pila di carte davanti a Steve e dà una buona occhiata. Si tratta delle altre e-mail di Aislinn, anche se Steve le stava ignorando, finché non è entrato Breslin.
– Ah, no, – dice Steve. – Ormai ho quasi finito. E se non sono morto di noia fino a ora…
Breslin scrolla di nuovo le spalle e rimette giú le carte. – Ricordati, – dice, rivolto a me, – che mi sono offerto.
– Me lo ricorderò. Goditi le ex.
– Mah, non coltivo grandi speranze. Avreste dovuto vedere le prime due –. Si siede alla sua scrivania, fa un paio di telefonate untuose per ottenere gli appuntamenti e si alza di nuovo. – E non ho bisogno di aiuto nemmeno oggi, – dice uscendo, con una strizzatina d’occhio a me e Steve. Noi rispondiamo con sorrisi automatici.
– Perché è venuto in ufficio? – commenta Steve, appena è uscito. – Avrebbe potuto fare quelle telefonate in qualsiasi posto.
Ha ancora un tono piatto, ma almeno mi parla, il che dovrebbe farmi sentire tutta felice. – Non riesce a stare lontano dal tuo bel visino, – dico.
– Sul serio. Voleva solo controllare quello che stiamo facendo. E provare un’altra volta a prendersi l’esame dei dati digitali. Cosa teme che troviamo?
– Non mi interessa –. E quando Steve apre di nuovo la bocca, lo ripeto: – Non mi interessa.
Lui alza gli occhi al soffitto, spinge via le e-mail e torna a fare quello che stava facendo prima. Provo a riprendere da dove avevo lasciato, ma ho perso la concentrazione; tutta la spam mi si confonde davanti agli occhi, diventando un’unica, infinita, offerta di viagra. Le mie gambe non stanno ferme, vorrei solo alzarmi e muovermi.
L’unica cosa che ancora cerca debolmente di farsi sentire, nella mia testa, è la storia di Lucy sull’uomo segreto di Aislinn. È da lí che è partita tutta la stronzata delle gang, ma ora che l’abbiamo esclusa, la storia è ancora lí e chiede una spiegazione. Penso, e avrei dovuto pensarlo due giorni fa, che Lucy può aver avuto altre ragioni per mostrarsi reticente. Forse quell’uomo è un suo collega di lavoro, sposato. Dopotutto, Aislinn ha conosciuto Rory attraverso Lucy. Se ha incontrato un altro uomo, è piú che possibile che sia successo nello stesso modo. E Lucy non vuole drammi sul posto di lavoro, se l’uomo scopre che è stata lei a creare l’occasione. O forse, come avevo pensato all’inizio, quest’uomo non esiste. Sono tentata di andare a prendere Lucy a casa, portarla qui e torchiarla come si deve, finché non mi dirà se la storia dell’amante segreto è una sua vendetta contro un ex di Aislinn o un modo per spingerci a non scartare nessuna possibilità. Dopodiché potrò finalmente chiudere questa pista del cazzo e non pensarci piú.
In quel momento Steve alza la testa di scatto. – Antoinette, – dice. Ha dimenticato che ce l’ha con me.
– Cosa?
Spinge un foglio verso di me. Ha le sopracciglia alzate fino a metà della fronte.
Si tratta di una delle fotocopie che ha fatto ieri: la dichiarazione giurata di un cliente di Desmond Murray, che fornisce il proprio alibi. La firma del poliziotto che ha preso la dichiarazione è uno scarabocchio, ma il nome scritto sotto a macchina è chiarissimo: detective Joseph McCann.
Incrocio lo sguardo di Steve. Lui dice, pianissimo: – Che diavolo…?
L’Irlanda è piccola, i detective non sono moltissimi, sarebbe piú strano se almeno uno dei detective del caso Murray ora non lavorasse alla Omicidi. Questo spiega perché Gary ha insistito tanto che tenessi la bocca chiusa: se mi metto ad agitare le acque, i guai scoppieranno molto vicino a casa. A parte questo, non so dire, tra la luce incerta che entra dalle finestre e quello che è successo negli ultimi mesi, se si tratti di un’altra manciata di nulla o se i miei campanelli di allarme debbano scattare a tutto volume.
Dico: – Bisogna controllare il resto delle fotocopie che hai fatto dal fascicolo. Dammi la metà dei fogli.
Leggiamo in fretta, con un occhio alla porta. Quella firma scarabocchiata è dappertutto. Se ieri non avessimo avuto tanta fretta, non avremmo potuto mancare di notarla: McCann, McCann, McCann. Non è stato tirato dentro per dare una mano solo durante lo sforzo iniziale, come Gary. McCann era proprio al centro del caso.
Rivedo Aislinn china sulla mia scrivania, tutta occhi grandi e dita intrecciate, che mi racconta del detective che le aveva accarezzato la testa, dicendo: «Tu hai dei bellissimi ricordi di lui, e non vogliamo cambiare la situazione, no? A volte è meglio lasciare le cose come stanno». Poteva trattarsi di McCann.
Steve solleva un fascio di carte che rappresenta circa un terzo di quelle che si era preso da esaminare. Dice piano: – Tutti questi.
– Sí, – dico, sollevando un fascio piú o meno uguale. – E questi.
Steve mi prende di mano i fogli, li rimette nel fascicolo e chiude il tutto nel cassetto della scrivania, con aria tranquilla. Non so se accusarlo di essere paranoico o dirgli di fare in fretta.
– La grande domanda, ora, è questa, – dice. – McCann e Breslin hanno capito subito che il papà di Aislinn era la persona scomparsa di cui si era occupato McCann?
Intreccio le mani dietro il collo per tenerle ferme. Nessuna recluta guarda dalla nostra parte. – Non lo so. Ho osservato Breslin, quando gli ho detto che in quella scatola c’era il fascicolo della scomparsa del padre di Aislinn. Giuro che mi è sembrato sollevato. Se c’è qualcosa che non vuole che scopriamo, non si tratta di quello.
– Gli hai detto che avevamo guardato il fascicolo senza trovare nulla di utile. Forse era sollevato perché non avevamo notato il nome di McCann.
– Ma perché? In che modo avrebbero fatto il collegamento?
– Breslin parla a McCann del nostro caso, menziona il nome della vittima…
– Come ho già detto, devono esserci decine di Aislinn Murray, là fuori. Davvero credi che McCann ricordasse un nome tanto comune? Dopo diciassette anni? Non era lei la persona scomparsa, o il referente di famiglia. Era solo una bambina sullo sfondo.
– McCann ha lavorato duro a quel caso, – dice Steve. – Forse gli è rimasto in mente.
– E anche se fosse? Nella scomparsa di Desmond non c’è nulla di losco. Non c’è neppure spazio per questo. Cosa gliene importa se la colleghiamo al nostro caso?
Steve scuote la testa. – Nulla di losco, a parte il fatto che non hanno detto nulla alla famiglia. Diciamo che Breslin e McCann sanno che McCann ha combinato qualche casino, riguardo a quel caso. Forse pensano che questo abbia giocato un ruolo nella morte di Aislinn. O forse semplicemente non vogliono che il casino venga fuori. Perciò tentano di farci inghiottire a forza Rory Fallon, sperando che vada giú in fretta.
Forse è la stanchezza, il riscaldamento e il poco caffè che ho preso, ma ho il cervello avvolto da uno strato di nebbia; non riesco a capire se la storia sembra buona di per sé o per il modo in cui la presenta Steve. Lui continua: – Probabilmente avrebbe anche funzionato. Se tu non fossi stata di turno, il giorno in cui Aislinn si è presentata alla Persone scomparse, non avresti avuto quel ricordo. Forse non avremmo mai nemmeno saputo che suo padre era scomparso e che lei aveva tentato di ritrovarlo.
Mi piacerebbe tanto crederci. Se Breslin sta solo cercando di confondere le acque sul caso e non ce l’ha con noi, cioè con me, personalmente; se non ci sono di mezzo gang o poliziotti corrotti, ma solo qualche pasticcio combinato da McCann diciassette anni fa, che lui non vuole si venga a sapere, allora li abbiamo in mano tutti e due. E c’è un’ottima possibilità di trovare un accordo che accontenti tutti. Per un attimo me lo sento dentro, nel corpo: il peso della stanza si solleva dalle mie spalle, una scarica di forza ossigena ogni cellula. «Vediamo se ora proverete ancora a prendermi per il culo, stronzi figli di puttana». Ho finalmente in mano le carte vincenti, e le ficcherò cosí a fondo nel culo di Roche che sputerà assi per mesi. Ed ecco che la squadra Omicidi si trasforma alla fine nel posto in cui sognavo di venire a lavorare tutti i giorni.
Solo che non ci credo, per quanto ci provi. La stanza torna a pesarmi addosso, l’aria spessa e surriscaldata, Reilly che batte sui tasti come se volesse sottomettere la tastiera. E la forza esce da me, per finire appallottolata e buttata via da qualche parte.
– Sí, – dico. – Sarebbe bello. Ma per quale motivo a Breslin e McCann dovrebbe importare qualcosa? Forse non è stato bello che i detective abbiano tenuto all’oscuro Evelyn Murray, ma hanno rispettato il regolamento. Mettiamo che adesso si venga a sapere, cosa può succedere? «Ehi, ecco una copia della nostra politica su come rispettare la sensibilità delle vittime, leggila quando hai tempo». Non rischiano certo di tornare a lavorare in divisa, soprattutto non dopo tutto questo tempo.
– Dipende dal motivo per cui hanno tenuto all’oscuro Evelyn. Anche se il tuo amico Gary non è d’accordo, questa storia è strana, Antoinette. Quando eri alla Persone scomparse, hai mai fatto questo a una famiglia? Trovare una risposta e non dare loro neppure un minimo accenno? Mai?
La testa di Steve vicina alla mia e l’urgenza nella sua voce sono ridicole; mi fanno sentire come una bambina che gioca alla polizia, con distintivi di cartone e un mucchio di parole tecniche imparate alla tivú. Mi allontano da lui. – E allora? McCann non era neppure il detective incaricato del caso. Se anche ci fosse qualcosa di poco chiaro dietro quel comportamento, la responsabilità non è sua.
Steve dice: – Da quanto tempo è sposato McCann?
– Bernadette ha fatto circolare un biglietto di auguri per un anniversario, l’anno scorso. Le nozze d’argento, mi sembra. Perché?
– Quindi era già sposato quando lavorava a quel caso. Gary ha detto che i detective erano tutti infatuati di Evelyn. E se per McCann fosse stata piú di un’infatuazione? Se tirava in lungo il caso solo per avere un pretesto per continuare a vedere quella donna?
Il calore e il ticchettio di tasti continuano ad avvolgermi la mente in uno strato isolante. Immagino di prendere la tastiera di Reilly e di spezzarla in due su un ginocchio. – Ma il caso non è stato tirato in lungo. L’hanno chiuso non appena hanno trovato Desmond.
– Certo, almeno ufficialmente, e noi abbiamo anche detto che era strano che non l’avessero chiuso prima, ricordi? Ma forse McCann ha detto a Evelyn che avrebbe continuato a indagare nel suo tempo libero, per poter restare in contatto con lei. Forse tra loro c’era davvero qualcosa, e forse no; ma in un modo o nell’altro, McCann non vuole che si sappia. Il suo matrimonio non è in gran forma, se non sbaglio. E ha diversi figli. Se la moglie dovesse scoprire che usava il lavoro come scusa per fare il filo a Evelyn Murray, potrebbe servirsene per…
Prima ancora di rendermene conto, dico: – Basta. Finiscila.
Mi viene fuori ad alta voce. Un paio di reclute alzano la testa. Gli lancio un’occhiata che li convince a riabbassarla immediatamente.
Steve mi sta fissando: – Cosa vuoi dire?
Ci vuole tutta la mia energia per tenere bassa la voce: – Tutta questa roba è immaginaria. Davvero non l’hai ancora capito? Praticamente ogni singola cosa che hai detto da quando abbiamo preso questo caso l’hai tirata fuori direttamente dal tuo buco del culo. Gang, relazioni segrete e tutto il resto, Cristo santo.
– Ho elaborato delle teorie, – ribatte Steve. Mi sta ancora fissando. – È il nostro lavoro.
– Teorie, sí. Favolette del cazzo, no.
– Non si tratta di…
– Invece sí, Moran. È quello che sono. Certo, tutto è possibile, ma non c’è uno straccio di prova a supporto di quello che dici. Continui a ripetermi che Aislinn era fantasiosa e inventava storie che le permettessero di sopportare la sua vita di merda, e tu stai facendo la stessa cosa, cazzo.
Steve si morde un labbro e scuote la testa. Mi chino verso di lui, con il bordo della scrivania che mi preme contro le costole, e gli getto le parole in faccia. – Rory Fallon ha ucciso Aislinn Murray perché hanno avuto una stupida lite e lui ha perso il controllo. Breslin e McCann cercano di incasinarmi il caso perché vogliono che me ne vada. Desmond Murray non c’entra nulla. Non c’è un thriller nascosto, in questo caso, Moran. Niente che possa trasformarti in Sherlock Holmes che insegue un maestro del crimine. Sei una scimmia addestrata che lavora a un classico caso di lite tra innamorati finita male, mentre la tua squadra di merda ti fa sentire di merda perché è composta da gente di merda. Fine.
Steve è impallidito sotto le lentiggini e respira forte dal naso. Per un attimo penso che stia per alzarsi e andarsene, poi mi rendo conto che non prova umiliazione, ma rabbia. Steve è furioso.
Fa per dire qualcosa, ma gli punto un dito in faccia. – Sta’ zitto. Avrei dovuto capirlo dall’inizio. In realtà l’avevo capito, solo che come un’idiota mi sono lasciata trasportare da te e dalla tua bella storia. Se ci fosse stata anche solo una briciola di qualcosa di buono in questo caso, non l’avrebbero mai affidato a n…
Steve si fa indietro sulla sedia, di scatto. – Oh, Gesú, non cominciare. «Tutti vogliono solo fregarmi, il mondo è contro di me…»
– Non osare…
– È come lavorare con un’adolescente in crisi. Nessuno ti capisce, vero? Allora vuoi sbattere la porta, chiuderti in camera tua e tenere il broncio?
Non capisco come abbia fatto a vivere cosí a lungo; forse si inietta la candeggina nelle orecchie tutte le sere, per togliersi dalla testa la giornata appena trascorsa e mantenere la sua innocenza. – Piccolo bastardo viziato, – dico, e vedo che spalanca gli occhi. – Con tutta la tua immaginazione, non riesci a immaginare che qualcun altro possa avere una situazione meno facile della tua?
– Lo so che per te non è facile. Lavoro con te, ricordi? Lo vedo tutti i giorni. Ci sono persone che ti fanno brutti scherzi. Ma non significa che tutto ciò che succede sia sempre e solo una scusa per gettarti in pasto ai lupi. Non sei cosí importante, cazzo.
Stiamo entrambi facendo uno sforzo per mantenere un tono calmo. Da qualche metro di distanza, cioè dalle scrivanie delle reclute, la nostra può sembrare una normale discussione di lavoro. Ma questo la rende solo piú violenta.
– Capisco che a te piacerebbe sentirmi parlare in modo diverso, Moran. Lo capisco. La tua vita sarebbe molto piú facile se…
– A me piacerebbe solo una cosa: smettere di camminare sulle uova; mi piacerebbe smettere di fare le capriole per metterti di buon umore, cosí eviti di staccare la testa a morsi a chiunque ci si avvicina.
Le sue stupide battute quando sono incazzata, finché cedo e gli faccio il sorriso che sperava. Credevo fosse solo perché gli piaceva avere un rapporto cordiale, o addirittura pensavo di piacergli io, e per questo volesse farmi sentire bene. Le sue parole mi colpiscono come acqua di fogna in faccia: mi pilotava verso il buonumore cosí non avrei distrutto le sue possibilità di fare amicizia con i ragazzi. E io ci sono caduta, una volta dopo l’altra, ho riso con lui e il mondo mi è sembrato migliore. Steve faceva il suo balletto e io battevo le mani tutta contenta.
– Ora stiamo finalmente arrivando al punto, – dico. – Ti piacerebbe credere che ciò che fai è per salvarmi da me stessa, ma si tratta solo del fatto che vuoi restare nelle grazie di tutti.
Lui getta indietro la testa, esasperato. – Si tratta solo di non rendere ogni cosa dieci volte piú difficile. Per me o per te. È cosí terribile? Mi rende una persona orribile?
– Non farlo per me. Tu desideri un bell’abbraccio di gruppo e un lieto fine, e forse li avrai, ma sappiamo tutti e due che per me non succederà.
– No, – dice Steve. – Non succederà –. La rabbia gli comprime le parole in schegge dure, che sbattono sulla scrivania tra di noi. – Perché tu sei sempre cosí decisa a esplodere che lo faresti anche se l’intera polizia ti amasse follemente. Saresti disposta a darti fuoco da sola, pur di poter dire a te stessa che lo sapevi dall’inizio. Congratulazioni.
Tenta di spingere la sedia verso la sua metà della scrivania, dove potrà mugugnare in pace su che razza di stronza sono, ma non glielo lascio fare. Gli afferro un polso, sotto il bordo della scrivania. – Stammi a sentire, – dico, in un sussurro, stringendogli il polso abbastanza da fargli male e sforzandomi per non stringere ancora di piú. Reilly ha smesso di pestare sui tasti e il silenzio mi entra nelle orecchie e nel naso, rendendomi difficile respirare. – Stronzetto leccaculo, stammi a sentire.
Steve non sussulta, non si tira indietro. Mi fissa, occhi negli occhi. Solo la linea sottile della sua bocca rivela che gli sto facendo male.
Dico: – Non hai idea di quanto io volessi che questo caso fosse una storia di gang. Non puoi nemmeno immaginarlo. Perché se lo fosse, spiegherebbe tutto. Breslin che ci spinge addosso Rory, il capo che ci rompe i coglioni, McCann che prova a farsi consegnare i fascicoli di quel vecchio caso, Gary che non vuol farsi beccare in mia compagnia. Starebbero tutti tentando di proteggere un’indagine piú grande, o un poliziotto corrotto, o magari il fatto che tutti loro sono sul libro paga di qualche boss. Ma il mio amico che lavora sotto copertura dice che non c’è nemmeno l’odore di un collegamento con una gang. Nulla di nulla.
Tenere la voce bassa mi fa male alla gola, come se mi fosse andato qualcosa di traverso. – Sai cosa vuol dire questo? Vuol dire che Breslin e McCann hanno fatto quello che hanno fatto in modo specifico e deliberato per fregare me. Non c’è un altro motivo. Tutte quelle stronzate, il rotolo di banconote da cinquanta, gli appuntamenti segreti, vuoi proprio sapere di che si tratta? Breslin e McCann non sono piú corrotti di quanto lo siamo noi. Volevano che io dessi loro la caccia, per poi trascinarmi davanti al capo: «Guarda, capo, lei ha controllato i nostri dati finanziari, ha messo cimici nei nostri telefoni, è una pazza, un pericolo per la squadra…» E il lavoro è concluso: io vengo sbattuta fuori –. Dirlo mi fa annodare lo stomaco. Me l’ero proprio bevuta. – E se siamo a questo punto, se persone come Breslin e McCann, a cui io non ho mai fatto niente, sono disposti a tanto pur di mandarmi via, sono fottuta, Moran. Fottuta. Non c’è la possibilità di fare marcia indietro. Tutto questo può finire solo in un modo.
Steve dice, piano e in modo chiarissimo: – Lasciami andare.
Dopo un momento, gli lascio il polso. Lo stringevo cosí forte che le dita mi restano bloccate in posizione. Gli sono rimasti segni bianchi sulla pelle.
Steve tira giú la manica, poi si mette il soprabito, prende i suoi album di foto segnaletiche ed esce.
Un paio di reclute alzano la testa, seguendolo con lo sguardo, poi guardano me, con vaga curiosità. Io li fisso senza nessuna espressione e ascolto il sangue che mi pulsa nelle orecchie. Da quanto posso capire, non ho piú un partner. Mi sembra che tutto, nella stanza, saltelli e mi faccia le boccacce, con un coro di «ah, ah, ah», perché avrei dovuto saperlo fin dall’inizio.
Chino la testa e mi metto a sfogliare carte senza vederle. Parole a caso, tipo «inconsistente», «campione», «tra», emergono e tornano a scomparire prima che capisca a cosa si riferiscono. La sala puzza di detersivo liquido, fumo di sigarette stantio che sale dal cappotto di qualcuno e mela marcia; qualcuno deve averne mangiato la metà, ieri, e lasciato il resto da qualche parte.
Non lo capisco tutto in una volta, ma lentamente, come il gocciolio di una flebo in vena.
Steve si è prodigato fin dall’inizio perché seguissimo la pista inesistente della criminalità organizzata, che poteva costarmi il caso e rendermi lo zimbello della squadra. Steve ama piacere e desidera tanto essere ben accolto nella squadra, e potrebbe avere entrambe le cose in un batter d’occhio, se solo io mi togliessi di mezzo. Steve, mentre andavamo sulla scena del delitto, mi ha chiesto se avrei approfittato dell’offerta del mio amico di lavorare per una ditta di sorveglianza.
Steve è andato da solo nella cucina di Aislinn Murray, da dove ha potuto inviare un messaggio al Bieco Crowley.
Ci sono delle storie, su Steve. Cose di poco conto, che risalgono a diversi anni fa, ma io me le ricordo. Quando eravamo ancora all’accademia, avevo sentito dire che Steve aveva scritto la metà dei compiti per il figlio di un ispettore e che faceva il leccaculo per assicurarsi una buona posizione di secondo piano. Avevo liquidato tutto, pensando che fosse solo astio: i ragazzi di campagna non accettavano di essere superati da un dublinese che era poco piú di un coatto. Non conoscevo Steve abbastanza perché me ne fregasse qualcosa. Ma poi, durante il nostro primo caso insieme, ho sentito dell’altro. Si diceva che Steve avesse fregato il detective incaricato di un caso per mettersi in luce e guadagnarsi favori, e uscire dalla melma delle reclute per entrare in una squadra. Il tizio che me l’ha detto aveva dei motivi suoi; io ho deciso di ignorarlo e di fidarmi di Steve. E ho avuto ragione, quella volta.
Quella volta, Steve aveva tutto da guadagnare, restando dalla mia parte. Stava cercando il modo di entrare alla Omicidi, e cominciava a temere che non l’avrebbe mai trovato. Dopo un solo giorno di lavoro insieme, quel modo gliel’ho offerto io.
Stavamo bene insieme, pensavo. Mi piaceva, per esempio, che quando uno dei due confutava un’idea dell’altro, veniva sempre fuori qualcosa di nuovo, e mai un binario morto. Mi piaceva come stavamo imparando a controbilanciarci: sapevamo istintivamente quale ruolo avrebbe assunto l’altro in un interrogatorio, io sapevo quando tirarmi indietro e lasciar fare a lui, quando entrare in gioco e cambiare musica. Mi piaceva come mi faceva notare quando avevo fatto una stronzata, non perché il suo ego non lo sopportasse, ma perché quella stronzata era di ostacolo all’indagine. Mi piaceva ridere con lui. Un paio di volte, anzi di piú, mi sono sorpresa a pensare al nostro futuro insieme, come una ragazzina sentimentale: un giorno avremmo avuto in mano i casi importanti, e avremmo elaborato piani geniali per catturare gli psicotici piú astuti; i nostri interrogatori sarebbero rimasti nella storia della squadra. La dura e feroce Conway si faceva venire gli occhi umidi. Come avrebbero riso, i ragazzi.
Che pollastra. Quando ho incontrato Steve, la Omicidi mi aveva già dato una bella ripassata; è bastato un po’ di sollievo, un minimo di lealtà, e mi sono fatta in quattro, tutta felice, per far entrare Steve nella squadra. Ovviamente, lavorare insieme mi piaceva; lui aveva tutti i motivi per rendersi competente ai miei occhi. Sapevo che Steve era un campione nell’adattarsi a essere quello che tu preferivi vedere, glielo vedevo fare ogni giorno; ma in qualche modo ero riuscita a convincermi che tra noi fosse diverso. Mi do la nausea.
Ora invece non ha nulla da guadagnare a stare con me, e molto da perdere. Intanto le tastiere ticchettano, il vento scuote la finestra, ogni poro della pelle mi dà il formicolio. Quando mi passo le mani sulla testa, i capelli non mi sembrano miei.
Non riesco a pensare. Non capisco se si tratta di paranoia totale o dell’ovvio che finalmente mi è andato a sbattere in faccia. Dopo due anni passati a guardarmi le spalle, attenta a ogni passo e a ogni parola, sempre in assetto da combattimento, i miei istinti sono andati in tilt. Per un attimo penso sul serio di chiamare qualcuno per chiedergli un parere spassionato; ma anche se volessi farlo, e non voglio, l’opzione non esiste. Sophie, Gary, Pulci: tutti i nomi a cui penso mi sembrano scivolosi e doppi, immagini che scorrono via prima che riesca a metterle a fuoco.
Reilly dice qualcosa, e lui e Stanton scoppiano in una grassa risata, che in pochi secondi si trasforma in un vero e proprio attacco di risa. Non posso piú stare in questa stanza. Provo a chiamare il cellulare di Lucy, ma è spento. Frugo tra le carte finché trovo il foglio con i dati per contattare due degli ex di Aislinn – nessuno ha ancora seguito la sua avventura con lo studente spagnolo quando aveva diciassette anni – e me lo metto in tasca. Poi mi infilo il cappotto e vado via.