2.
Il contatto di Steve ci dà l’indirizzo di casa di Lucy Riordan, a Rathmines, quello del lavoro al Torch Theatre, in centro, e la sua data di nascita: ha ventisei anni. – Sono appena le nove e mezzo, – dice Steve, guardando l’orologio. – Sarà in casa.
Io faccio il numero della mia segreteria telefonica; ho un nuovo messaggio e non vedo l’ora di ascoltarlo. – Sarà ancora a letto a smaltire i postumi di ieri notte, come qualsiasi persona sensata, a quest’ora di domenica –. Il parco mi rende nervosa. Fuori dal finestrino il cielo è morto, non c’è nemmeno un uccello, e gli alberi sembrano inclinarsi lentamente verso di noi. – Tu conduci l’interrogatorio.
Visto che non ho un motivo lecito per arrestare Crowley o dargli un pugno in faccia, o per dire al capo dove può ficcarsi i suoi «domestici», rischio di staccare la testa al primo che mi dà anche un minimo pretesto, e non voglio che sia il nostro testimone chiave.
Prima non ero cosí. Ho sempre avuto il mio carattere, ma lo tenevo sotto controllo, anche se dovevo inghiottire qualche grosso rospo. Anche da ragazzina, sapevo come tenerlo carico e pronto mentre inquadravo il bersaglio, prendevo la mira e aspettavo il momento giusto per mandare al diavolo il bastardo di turno. Da quando sono riuscita a entrare alla Omicidi, le cose stanno cambiando. Lentamente, non perdo mai troppo terreno tutto in una volta, ma non ne riguadagno mai nemmeno un po’, e si comincia a notare. Negli ultimi mesi, ho perso il conto delle volte in cui mi sono fermata mezzo secondo prima di esplodere e ritrovarmi a pulire il casino per il resto della mia vita. Non scherzavo, quando ho detto che stavo per spiegare a quel testimone che era troppo stupido per vivere. Stavo aprendo la bocca per farlo, quando è intervenuto Steve con una domanda tranquillizzante. Ma so che uno di questi giorni nessuno di noi due riuscirà a fermarmi in tempo. E so che gli altri della squadra si avventeranno su quel momento come squali su un pezzo di carne. Lo ingrandiranno di almeno dieci volte, diffondendo la voce in tutta la polizia, come fosse una foto di me nuda, e ogni giorno, per il resto della mia carriera, qualcuno me lo rinfaccerà come uno schiaffo.
La Omicidi non è come le altre squadre. Quando funziona bene ti toglie il fiato: precisa e feroce, agile e svelta, è il balzo di un grosso felino, o un fucile cosí perfetto che praticamente spara da solo. Quando ero ancora una recluta nell’Unità generale, fresca di servizio in divisa, una volta ad alcuni di noi vennero assegnati lavori di manovalanza per un caso di omicidio: battere a macchina, interrogatori casa per casa, e simili. Mi bastò un’occhiata alla squadra in azione, e non potei piú distogliere gli occhi. È la cosa piú vicina all’amore che mi sia mai capitata.
Quando sono riuscita a entrare in squadra le cose erano già cambiate. Il livello di stress adesso è piú alto e l’equilibrio interno è cosí delicato che bastano poche teste nuove per spostare tutto: trasformare il grosso felino in un animale indisciplinato e nervoso, far inceppare il fucile in modo che prima o poi ti scoppi in faccia. Io sono arrivata nel momento sbagliato e sono partita con il piede sbagliato.
Una parte del problema sta nel non avere il cazzo, che apparentemente è lo strumento piú importante per poter indagare su un omicidio. Ci sono già state donne nella squadra prima di me, forse una mezza dozzina; se sono andate via da sole o se le hanno indotte a farlo non lo so, ma quando sono arrivata io ero l’unica. Alcuni dei ragazzi sono convinti che questo sia l’ordine naturale; pensavano che fossi troppo sbruffona, comportandomi come se avessi il diritto di stare in mezzo a loro, e quindi fosse necessario darmi una lezione. Non erano tutti cosí, la maggior parte erano a posto, almeno all’inizio, ma non erano nemmeno pochissimi.
Mi misero alla prova, nelle prime settimane, nello stesso modo in cui un predatore sessuale esamina una vittima potenziale in un bar, buttando lí piccole battute logore del tipo: «Perché una donna è come un…», commenti sul ciclo, allusioni al fatto che dovevo essere brava in determinate prestazioni per essere riuscita a ottenere quel posto. Tutto per vedere se avrei ingoiato il rospo e riso con loro. Proprio come il predatore cerca la persona mite che sopporterà violenze e umiliazioni piuttosto che fare scenate; la persona che può essere spinta, un passo alla volta, a fare ciò che lui vuole.
Ma nel profondo, il problema non era il mio essere donna. Quello era solo il punto di partenza, il sistema che secondo loro avrebbe reso piú facile piegarmi. Nel profondo, era tutto piú semplice. Era come alle elementari, quando l’Irlanda era ancora bianca come un giglio e io ero l’unica bambina dalla pelle bruna, detta Faccia di Merda, il mio primo soprannome. Nel profondo, si trattava di ciò per cui gli esseri umani combattono fin dalla preistoria: il potere. Si trattava di decidere chi erano i cani alfa e chi sarebbe finito in fondo al mucchio.
Io me lo aspettavo. In ogni squadra c’è il bullismo verso i nuovi. Il mio primo giorno alla Persone scomparse, tentarono di mandarmi casa per casa a chiedere se avevano visto una certa Mia Topa. E la Omicidi aveva già la fama di un bullismo piú duro, con meno risate e piú cattiveria. Ma il fatto che me lo aspettassi non significa che l’avrei accettato. Se c’è una cosa che ho imparato, a scuola, è: mai lasciarsi spingere giú. Se arrivi in fondo al mucchio, puoi anche non risalire mai piú.
Avrei potuto seguire il sistema ufficiale, rivolgendomi ai superiori e dicendo che i miei compagni di squadra mi discriminavano, creando intorno a me un ambiente ostile. A parte l’ovvia considerazione che cosí avrei solo peggiorato le cose, mi sarei sparata su un dito piuttosto che andare a piagnucolare dal capo. Perciò quando una testa di cazzo di nome Roche mi diede una pacca sul culo, per poco non gli spezzai il polso. Ci mise diversi giorni prima di poter di nuovo sollevare una tazza di caffè senza dolore, e il messaggio arrivò forte e chiaro: non mi sarei rotolata a terra a pancia in su, scodinzolando in attesa di qualsiasi cosa volessero farmi i cani piú grossi.
Allora si misero spalla a spalla e cominciarono a spingermi fuori dal branco. In maniera sottile, all’inizio. In qualche modo, tutti vennero a sapere di un mio cugino in galera per spaccio di eroina. I risultati di un esame di impronte digitali non mi arrivarono, cosí non riuscii a vedere il nesso tra un caso a cui stavo lavorando e una serie di furti con scasso. Una volta alzai la voce con un testimone che aveva fornito un finto alibi a un sospettato; niente di peggio di quello che fanno tutti gli altri, di continuo, ma qualcuno evidentemente mi stava osservando, dietro il falso specchio, perché per mesi, ogni volta che interrogavo un testimone, tutta la squadra lo voleva sapere, ma cosí, solo per scherzare, solo per farsi una risata in compagnia: «Gliel’hai fatto capire a urli, Conway? Scommetto che se l’è fatta nei pantaloni dalla paura. Chiederà un risarcimento per la perdita dell’udito? Quel povero bastardo ci penserà due volte, prima di parlare di nuovo con la polizia, eh?»
A quel punto, anche i ragazzi piú simpatici sentivano l’odore del sangue, intorno a me, e si tenevano lontani per evitare problemi. Ogni volta che entravo in sala detective, calava un silenzio totale e istantaneo.
All’epoca, però, almeno c’era Costello. Era il piú vecchio della squadra, aveva il compito di spiegare il lavoro ai nuovi ed era un tipo solido: nessuno esagerava con me, quando c’era Costello in giro. Pochi mesi dopo, Costello andò in pensione.
A scuola, avevo il mio gruppo di amiche. Chi dava fastidio a me lo dava anche a loro, e nessuna di noi era il tipo da sopportare una molestia qualsiasi. Quando si sparse la voce che mio padre era in prigione per aver dirottato un aereo, e nessuno voleva sedersi accanto a me per paura che avessi una bomba nella cartella, scoprimmo chi erano le tre stronze che avevano messo in giro la voce e le pestammo a dovere; e la storia finí. Alla Omicidi, dopo il pensionamento di Costello e fino all’arrivo di Steve, non avevo nessuno.
Prima ancora che Costello se ne andasse, i ragazzi alzarono il tiro. Una volta lasciai la casella e-mail aperta sul computer, e tornando trovai che era stato cancellato tutto: posta in arrivo, posta inviata, rubrica dei contatti, tutto. Alcuni si rifiutavano di partecipare agli interrogatori con me, quando era il momento di dare una scossa a qualcuno: «Non puoi mettermi con lei, farà casino e poi la colpa sarà anche mia». Oppure c’era bisogno di tutti i poliziotti disponibili per una grande ricerca, tranne me, e qualcuno diceva, a voce abbastanza alta perché potessi sentire: «Non troverebbe le tracce di un elefante nella neve». Al party natalizio, dove stavo attenta a non bere mai piú di una pinta, qualcuno mi scattò una foto mentre avevo gli occhi semichiusi; la foto era in bacheca la mattina dopo, con la didascalia: «Polialcoliziotta» e a fine giornata tutti sapevano che avevo un problema con l’alcol. Alla fine della settimana, tutti sapevano che al party ero ubriaca fradicia, mi ero vomitata sulle scarpe e avevo fatto un pompino nei cessi a… (il nome variava). Non riuscii a scoprire quale, o quali, dei ragazzi c’erano dietro. E anche se resterò nella polizia fino alla pensione, ci sarà sempre qualcuno che prenderà per vere tutte quelle stronzate.
Di regola, non m’importa un cazzo di ciò che pensano di me. Ma se non posso fare il mio lavoro perché nessuno si fida di me al punto di volermi stare vicino, comincia a importarmi.
Tutto questo per dire come mai è Steve che deve chiamare il suo contatto per avere i dati di Lucy Riordan. Lungo la strada conosci persone utili, che ti servono quando una richiesta ufficiale sarebbe troppo lunga e complicata. Pochi mesi fa io avevo un buon rapporto con un ragazzo che lavorava alla Vodafone; finché un giorno l’ho chiamato per sapere l’intestatario di un numero e lui si è messo a balbettare e non mi ha risposto e non vedeva l’ora di riattaccare. Non ho perso tempo a chiedere spiegazioni: sapevo già abbastanza. Non i particolari, tipo chi gli fosse arrivato addosso e di cosa lo avessero minacciato, ma non era importante. Cosí quando abbiamo bisogno di informazioni, è Steve a chiamare le aziende telefoniche, ed è sempre lui a gestire gli interrogatori quando io sono troppo nervosa per fidarmi di me stessa. E continuo a ripetermi che quei bastardi non mi avranno mai.
Il messaggio in segreteria è di Breslin, ovviamente, che culo. «Ciao, Conway». Breslin ha una bella voce profonda, e un accento da mezzobusto televisivo. Come se mamma e papà gli avessero pagato le migliori scuole per evitargli di incontrare tipi come me e Steve. E lui lo sa. Credo che la sua fantasia sia fare la voce narrante nei trailer dei film. «Sono felice di lavorare con voi due. Dobbiamo metterci in contatto al piú presto; fammi uno squillo quando ricevi questo messaggio. Sto andando sulla scena del crimine, a dare un’occhiata rapida. Ci vediamo lí o ci sentiamo».
Clic.
Steve fa il gesto della pistola con le dita e mi strizza l’occhio. – Sí, tesoro, entra in contatto con lui.
Io rido senza volerlo. – Sai la sensazione che ho? È come se ti infilasse la lingua nell’orecchio direttamente dal telefono.
– Ed è convintissimo di aver dato un senso alla tua giornata. Perché prima di chiamarti si è spruzzato l’eau de cologne su quella lingua magica, solo per te.
Ridacchiamo. Breslin stimola il nostro lato adolescenziale; si prende cosí sul serio che non potrai mai essere alla sua altezza, perciò non ci proviamo nemmeno.
– Ora mi sento speciale, – dice ancora Steve, mano sul cuore. – Tu no?
– Io sento che avrei dovuto portarmi le gocce per le orecchie, – dico. – Cosa possiamo fare per tenerlo lontano ancora un po’?
– Centrale operativa? – Non è affatto una cattiva idea: qualcuno deve trovarci una sala operativa in cui lavorare al caso, e Breslin riuscirà a farsene dare una di quelle buone, con una lavagna bianca e varie linee telefoniche, mentre a me e Steve darebbero quel buco con due scrivanie che prima era uno spogliatoio e ne ha ancora l’odore. – Ma niente lo terrà lontano a lungo. In tutta sincerità, gli interrogatori dei testimoni sono il motivo per cui il capo lo ha voluto, quindi vorrà essere presente.
– Lascia perdere la sincerità. Non sono dell’umore adatto per essere sincera con Breslin –. In realtà, il mio umore è migliorato. Avevo bisogno di farmi due risate. – La centrale operativa è una buona idea, intanto andiamo avanti con quella.
– Non staccargli la testa a morsi, – mi avverte Steve.
– Non lo farò, ma perché non dovrei, se ne avessi voglia? – Breslin non è affatto uno dei peggiori, anzi. Piú che altro ci ignora. Ma questo non significa che debba piacermi. – Perché dobbiamo comunque lavorare con lui? E perché sarà tutto piú difficile se lo facciamo incazzare fin dall’inizio?
– Pensaci tu a lisciarlo. Infilagli la lingua nell’orecchio.
Chiamo di nuovo la segreteria telefonica di Breslin. Se devo avere a che fare con lui, i messaggi sono il modo ideale. – Breslin, sono Conway. Sono felice di questa opportunità di lavorare insieme –. Guardo Steve, inarcando un sopracciglio. «Visto? So essere carina». – Stiamo andando a prelevare un tizio che aveva un invito a cena in casa della vittima e lo porteremo alla base per interrogarlo. Possiamo vederci lí? Ci sarebbe molto utile il tuo punto di vista, su questo –. Steve mima un pompino, io gli mostro il dito. – Mentre andiamo da lui, ci fermiamo un attimo a parlare con la migliore amica della vittima, nel caso ci sia qualcosa che dobbiamo sapere. Nel frattempo potresti trovare una stanza da usare come centrale operativa, visto che comunque arriverai prima di noi? Grazie mille, ci vediamo lí.
Riattacco. – Visto? – dico a Steve.
– Sei stata splendida. Mancava solo un bacetto alla fine.
– Come sei simpatico –. Voglio mettermi all’opera. Gli alberi spogli sembrano piú bassi, piú vicini, come se mentre mi concentravo su Breslin ne avessero approfittato per chiudersi di piú su di noi. – Scopriamo quali cazzo di reclute ci hanno assegnato.
Steve fa il numero e Bernadette, dell’amministrazione, gli dà i numeri delle nostre reclute. Sono sei, O’Kelly è stato di manica larga. Un paio sono bravi ragazzi, utili. Almeno uno non lo è. Se ne vogliamo di piú, dobbiamo fare domanda in triplice copia, spiegare il motivo per cui non possiamo fare da soli il lavoro sporco e in generale drizzarci sulle zampe e guaire come barboncini.
Piú tardi avremo la prima riunione sul caso: io, Steve, Breslin e le reclute, nella sala operativa. Tutti che prendono appunti mentre io riassumo il caso, poi si assegnano i compiti. Ci sono cose da fare subito, però, senza aspettare. Steve manda due reclute a fare un porta a porta preliminare in Viking Gardens, per scoprire ciò che sanno di Aislinn Murray nel quartiere e cosa hanno visto o sentito ieri notte. Altri due li spediamo a prelevare tutte le riprese di telecamere a circuito chiuso che riescono a trovare, prima che vengano cancellate da nuove registrazioni. Agli ultimi due dico di trovare l’indirizzo di Rory Fallon, scoprire se è in casa, in caso affermativo sorvegliare la casa e seguirlo se va da qualche parte, cercando di non farsi notare. Potrebbero anche prenderlo e portarlo in centrale, ma il mio piano non prevede che Breslin veda Fallon in corridoio e decida di fare un favore a me e a Steve ottenendo una confessione prima ancora del nostro ritorno. Breslin mi richiama; io lascio rispondere la segreteria.
L’aspetto sbattuto di Steve dopo il turno di notte mi dà un’idea di quale può essere il mio; cosí, prima di partire verso la casa di Lucy Riordan ci diamo una rapida sistemata: lisciamo le pieghe delle giacche e spazzoliamo via le briciole degli snack che abbiamo mangiato, Steve si pettina, io sciolgo ciò che resta del mio chignon e lo rifaccio liscio e ben tirato. Quando lavoro non mi trucco, ma la parte di me che vedo nel retrovisore mi sembra decente. In una giornata buona non sono niente male, e anche in una giornata cattiva mi si nota. Ho preso da mio padre, o almeno lo immagino: da mia madre ho ereditato l’altezza, ma non i capelli neri e lucenti, gli zigomi alti e la pelle che non avrà mai bisogno di un’abbronzatura artificiale. Indosso buoni tailleur, capi tagliati bene e che vanno d’accordo con il mio fisico longilineo e forte, e se qualcuno pensa che dovrei andare in giro coperta da un sacco per evitare che gli uomini facciano cattivi pensieri, può andare cordialmente affanculo. Gli aspetti di me che secondo alcuni dovrei tentare di nascondere – il fatto che sono alta, sono donna e sono di razza mista – sono proprio quelli che metto in risalto. Se questo causa disagio agli altri, be’, significa che me ne posso servire.
– Che dici, basta? – chiede Steve, indicando sé stesso.
Ha un’aria come se la mamma lo avesse tirato a lucido per la messa, ma è una cosa che fa di proposito. Usi quello che hai, e lui ha la faccia di uno che se lo porti a casa i tuoi genitori sono tutti contenti.
– Deve bastare, – rispondo, risistemando lo specchietto retrovisore. – Andiamo.
Schiaccio a fondo e lascio credere alla Kadett di essere una vera auto, mentre ci porta fuori di qui. Ho una brutta sensazione, come se gli alberi si fossero appena chiusi di scatto sopra il punto dove eravamo parcheggiati.
Lucy Riordan abita in una di quelle case alte e a schiera divise in appartamenti. Spesso sono tuguri, ma la sua è carina. Il giardino davanti è stato ripulito dalle erbacce, gli infissi sono stati ridipinti da meno di dieci anni, e ci sono sei campanelli sul portone invece di dodici, il che significa che il padrone di casa non stipa gli inquilini in stanze da tre metri quadrati con il bagno in comune.
Lucy risponde al citofono solo dopo il secondo squillo, con la voce impastata di sonno. – Sí?
Steve dice: – Lucy Riordan?
– Chi è?
– Detective Stephen Moran. Può dedicarci due minuti?
Dopo un lungo secondo, Lucy dice, con la voce sveglissima: – Scendo tra un attimo.
Apre il portone abbastanza in fretta. È bassa e in forma, con quella forma atletica che ti fai nella vita, non in palestra, e che ti appartiene, non la perdi non appena smetti di allenarti. Capelli corti color platino con una lunga frangia che le ricade sul viso, pallido, con lineamenti precisi e puliti, a parte un po’ del mascara di ieri notte. Felpa con cappuccio nera, pantaloni militari neri con macchie di vernice, piedi scalzi, un bel po’ di orecchini d’argento e quello che sembra un discreto doposbronza. Non ha niente in comune con Aislinn Murray, né con l’immagine che mi ero fatta di lei.
Noi abbiamo già i tesserini in mano. – Io sono il detective Stephen Moran, – dice Steve, – e lei è la mia partner, detective Antoinette Conway –. E si ferma. Bisogna sempre lasciare un momento vuoto.
Lucy non guarda nemmeno i tesserini. Dice subito: – Si tratta di Aislinn?
Questo è il motivo per cui lasci il vuoto: è incredibile quello che le persone ci versano dentro.
Steve dice: – Possiamo entrare per qualche minuto?
Allora lei guarda i nostri documenti, ci mette un po’ a prendere una decisione, poi dice: – Sí, va bene. Entrate –. Si volta e sale le scale.
Il suo appartamento è al primo piano e avevo ragione, è decente: un piccolo soggiorno con un cucinotto da un lato e due porte sugli altri due lati, bagno e camera da letto. Stanotte Lucy ha avuto gente, ci sono lattine vuote sopra e sotto il tavolino, l’aria è piena di fumo; ma anche prima del party casa sua non somigliava in nulla a quella di Aislinn. Le tende sono fatte di vecchie cartoline cucite insieme con lo spago, i mobili sono un tavolino ammaccato e un paio di divani sfondati con sopra delle coperte messicane tessute a mano. Ci sono quattro telefoni degli anni Settanta e una volpe impagliata sopra una matassa di cavo accanto alla tivú. Nessuno ha ordinato questo arredamento con un’app.
Io e Steve ci sediamo sul sofà con lo schienale verso la finestra, lasciando Lucy dove la luce livida del giorno le illumina in pieno il viso. Prendo il taccuino ma mi siedo inclinata in avanti, per far capire a Steve che non lascerò fare tutto il lavoro a lui. O’Kelly può dire quello che vuole, ma Steve è in gamba con i testimoni; è meno vistoso di Breslin, ma può far credere a chiunque di essere dalla sua parte, e anch’io non me la cavavo male, fino a poco tempo fa. Lucy non sembra il tipo capace di farmi incazzare. Questa ragazza non è un’idiota.
– C’è qualcun altro in casa? – chiede Steve. Dopo questa conversazione, Lucy avrà bisogno di avere qualcuno accanto.
Lei si siede sull’altro divano e tenta di guardarci in faccia entrambi allo stesso tempo. – No, ci sono solo io. Perché?
La faccia del testimone classico è un misto di voglia di essere utile, voglia di sapere la storia e di: «Mio Dio, spero di non essere nei guai». La variazione standard, nei quartieri dove noi non siamo ben visti, è un’espressione cupa da adolescente, anche sulla faccia di persone troppo anziane per quelle stronzate. Lucy non assume né l’una né l’altra. Siede con la schiena dritta, i piedi piantati a terra e gli occhi ben aperti, come se fosse pronta a scattare in azione. È spaventata e diffidente, e il motivo per cui diffida occupa tutta la sua concentrazione. Sul tavolino c’è un portacenere di vetro verde, che avrebbe dovuto vuotare prima di lasciar entrare dei poliziotti. Io e Steve fingiamo di non vederlo.
– Innanzitutto, le chiedo conferma di un paio di dati, – dice Steve, con il suo sorriso piú disarmante. – Lei è Lucy Riordan, nata il 12 aprile 1988 e lavora al Torch Theatre. È cosí?
Lucy si irrigidisce. A nessuno piace quando mostriamo di sapere cose che loro non ci hanno detto, ma a lei piace meno che agli altri. – Sí. Sono la direttrice tecnica.
– Ed è amica di Aislinn Murray. Amica intima.
– Ci conosciamo fin da quando eravamo piccole. Cosa è successo?
– Aislinn è morta, – dico.
Non è una mancanza di tatto. Dopo il modo in cui ha aperto la porta, voglio vedere la sua reazione.
Lucy mi fissa. Sul suo viso si scontrano cosí tante espressioni che non riesco a leggerne nessuna. Non sta respirando.
Dico, in tono piú dolce: – Mi spiace averla svegliata con questa notizia.
Lucy afferra un pacchetto di Marlboro light sul tavolino e se ne accende una senza chiedere se ci dà fastidio il fumo. Anche le sue mani sono da persona attiva: polsi forti, unghie corte, graffi e calli. Per un attimo la fiamma dell’accendino ondeggia, poi lei si controlla e aspira la prima boccata.
Chiede: – Come?
Ha la testa china, e la frangetta biondo platino le nasconde il viso.
– Non abbiamo ancora risposte definitive, – rispondo, – ma la consideriamo una morte sospetta.
– Significa che è stata uccisa. Giusto?
– Sembra di sí.
– Merda, – dice Lucy, a bassa voce. Sono certa che non si rende conto di quel che sta dicendo. – Ah, merda. Ah, merda.
Steve dice: – Come mai ha subito pensato che si trattasse di Aislinn?
Lucy alza la testa. Non sta piangendo, il che è un sollievo, ma la sua faccia è di un bianco malato, come se avesse la nausea, e gli occhi sembrano non vedere bene. – Cosa?
– Quando è venuta ad aprire, ha detto: «Si tratta di Aislinn?» Perché lo pensava?
La sigaretta le trema in mano. Lucy la fissa, stringe le dita per tenerla ferma. – Non lo so. È stato un impulso.
– Ci pensi meglio. Dev’esserci un motivo.
– Non ricordo. È stata la prima cosa che mi è venuta in mente.
Noi aspettiamo. Dentro i muri, dei tubi gemono e fischiano. Al piano di sopra un uomo grida qualcosa a proposito dell’acqua calda, e qualcun altro galoppa sul pavimento, facendo sussultare la tenda di cartoline. Accanto a Lucy, sul divano, c’è un pupazzo di Homer Simpson con in fronte una cartina Rizla, su cui c’è scritto «Principessa Bottondoro». Ieri è stata una bella nottata. La prossima volta che Lucy vede quel pupazzo mi sa che lo getta nella spazzatura.
Dopo un lungo minuto, la donna drizza di nuovo la schiena. Non piangerà, non vomiterà, almeno non adesso; ha altre cose da fare. Sono abbastanza sicura che abbia deciso di mentirci.
Scuote la sigaretta nel posacenere senza nemmeno notare i filtri degli spinelli. Dice, come tentando di orientarsi: – Aislinn aveva appena cominciato a vedersi con un tizio. Rory. Ieri sera l’aveva invitato a cena. Era la prima volta che lo invitava in casa, finora si erano incontrati solo in luoghi pubblici. Perciò, quando avete detto di essere detective, è stata la prima cosa che ho pensato: qualcosa è andato storto da Aislinn. Voglio dire, non vedevo un’altra ragione per cui avreste voluto parlare con me.
Stronzate. Posso enumerarne sei o sette senza nemmeno riflettere: l’hashish, un reclamo per rumori molesti da parte di qualche vicino di casa, una rissa in strada qui fuori per la quale stiamo cercando testimoni, idem per un omicidio domestico in un altro appartamento, e potrei continuare. E anche Lucy. Quindi sta mentendo.
– Capisco, – dico. – Ieri sera lei e Aislinn vi siete scambiate dei messaggi, riguardo al suo appuntamento –. La diffidenza sale di un altro grado, mentre Lucy tenta di ricordare cos’ha scritto. – Lei ha detto a Aislinn… – fingo di consultare il taccuino, – «Sta’ attenta, capito?» Come mai?
– Be’, lo conosceva da poco e si sarebbe trovata sola in casa con lui.
Steve mette su una faccia perplessa. – Non è un atteggiamento un po’ paranoico?
Lucy solleva le sopracciglia di colpo e guarda Steve come fosse il nemico. – Sul serio? Non le ho detto di tenere una pistola carica sotto il cuscino. Solo di stare attenta con un estraneo in casa. È paranoia?
– A me sembra puro buon senso, – dico. Lucy si volta verso di me, grata, e si rilassa un po’. – A una mia amica io direi la stessa cosa. Lei ha incontrato Rory?
– Sí, ero presente quando si sono conosciuti. Un mio collega, Lar, ha pubblicato un libro sulla storia dei teatri di Dublino e lo presentava nella libreria di Rory. Il Wayward Bookshop, a Ranelagh. Molti di noi del Torch ci andavano, e io ho convinto Aislinn ad accompagnarmi. Pensavo che una serata fuori le avrebbe fatto bene.
Molte piú informazioni di quelle che le avevo chiesto. È la tecnica piú vecchia del mondo: se il testimone si incazza con uno dei due, darà all’altro qualcosa di piú. Io e Steve lo facciamo spesso, ma di solito in ruoli invertiti. Ora invece lascio che sia Steve a prendere appunti e io mi godo la sensazione di interpretare la poliziotta buona, per la prima volta da molto tempo. – E tra Aislinn e Rory è scoccata la scintilla, – dico.
– Bella forte. Lar aveva letto dei brani del libro e stava firmando le copie, e noi bevevamo il vino offerto dalla libreria, e Aislinn e Rory si sono messi a chiacchierare. Praticamente si sono rintanati in un angolo, non a pomiciare, eh, solo a parlare e a ridere insieme. Secondo me Rory sarebbe rimasto lí tutta la sera, ma Ash ha una sua regola, non parla mai con un uomo troppo a lungo…
Lucy si interrompe e batte le palpebre. Ecco un’altra volta il filtro. Dio non voglia che noi pensiamo male della povera dolce Ash. Ma so di cosa si tratta. Del libro Le regole. – Per non fargli capire che le piace, – dico, come se avesse molto senso.
– Sí, esatto. Non lo so, la considera una cosa sbagliata, per qualche motivo –. Muove una spalla e la bocca mentre lo dice, in tono affettuoso. – Dopo un’oretta Ash è venuta da me tutta eccitata. Era tutto un: «Oddio, lui è cosí dolce, cosí divertente, cosí interessante, cosí attraente…» Mi ha detto che gli aveva dato il suo numero e ora doveva trovare qualcun altro con cui parlare, perciò è rimasta con me e con il mio gruppo di colleghi, ma chiedeva continuamente: «Sta guardando da questa parte? Guarda me?» E la risposta era sempre sí. Un vero colpo di fulmine, per tutti e due.
– Lar chi? – chiedo. – E quando è stata la presentazione?
– Lar Flannery… Laurence. Erano i primi di dicembre, non ricordo la data precisa. Una domenica sera, perché potessero venire anche gli amanti del teatro.
– Dopo lei ha incontrato ancora Rory?
– No, solo quella volta. Anche Aislinn l’ha rivisto poche volte. La stava prendendo con calma –. Abbassa la testa e aspira una lunga boccata di fumo. Abbiamo di nuovo sfiorato quello che sta nascondendo. Lasciamo un momento di silenzio, ma stavolta lei non ci getta dentro nulla. Invece chiede: – Ma state dicendo… Voglio dire, pensate che Rory sia quello che l’ha…
La domanda è abbastanza logica, ma all’improvviso la sua voce è piena di segni che non riesco a decifrare, e il lampo dei suoi occhi sotto la frangetta è troppo veloce e concentrato. Questo per lei ha un significato piú importante, o piú urgente, di quanto dovrebbe.
Steve dice: – Lei che ne pensa? Sospetterebbe di lui?
– Non sospetto di nessuno. Siete voi i detective. Rory è il vostro principale indiziato, o come lo chiamate?
– C’era qualcosa di specifico, in Rory, che ha fatto scattare il suo radar? – chiedo io. – Qualcosa che la rendeva diffidente nei suoi confronti?
Lucy vorrebbe ripetere la domanda, ma capisce che non è il caso. Intelligente, capace, abituata a pensare in fretta. Ci vorrà molta fortuna per scoprire cosa nasconde. Aspira un’altra boccata dalla sigaretta. – No, nulla. Simpatico, magari un po’ noioso. Ash ovviamente vedeva in lui qualcosa che a me era sfuggito, perciò…
– Aislinn le ha mai dato motivo di pensare che avesse paura di lui? Magari le faceva pressioni, tentava di controllarla…
Lucy scuote la testa. – No. Sul serio. Non mi ha mai detto nulla del genere. Parlava solo di quanto era dolce e di come si sentiva rilassata in sua compagnia, e diceva che non vedeva l’ora di rivederlo. Voi pensate…
– Devo essere sincera con lei, Lucy, – la interrompo. – Se le cose stavano cosí, non ha senso che lei fosse tanto preoccupata per Aislinn. Un messaggio per dirle di stare attenta ci sta, lo capisco. Ma come mai appena bussiamo alla porta lei pensa che si tratti di Aislinn e poi mi dice che Rory sembra un bravo ragazzo, per niente minaccioso? No, non quadra. Quando ci ha visti, avrebbe dovuto pensare che il vicino al pianterreno spaccia, o che qualcuno è stato accoltellato in strada ieri sera, o che un suo familiare è stato scippato o investito da un’auto. Non è possibile che la prima cosa a venirle in mente sia stata Aislinn. A meno che ci sia qualcosa che non ci ha detto.
La sigaretta di Lucy è arrivata al filtro. La schiaccia nel portacenere guadagnando tempo, ma non è ostruzionismo; sta prendendo una decisione.
Dalla finestra ora entra piú luce, e su di lei è impietosa; le toglie la sua aria di bellezza «diversa» e lascia solo le borse sotto gli occhi e le macchie di mascara sulla cute pallida.
Dice: – Posso bere un bicchiere d’acqua? La testa mi fa un male cane.
– Non c’è problema, – dico. – Non abbiamo fretta.
Lei va ad aprire il rubinetto nel cucinotto, dandoci le spalle. Tiene le mani a coppa sotto l’acqua e ci tuffa dentro il viso, restando cosí; le spalle si sollevano e ricadono, una volta sola. Torna con un bicchiere da una pinta in una mano e asciugandosi la faccia con l’altra. Ha un aspetto un po’ piú vivo. Quando si siede dice: – Va bene. Secondo me Ash si vedeva anche con un altro, a parte Rory.
Di nuovo quel lampo troppo intenso, mentre osserva le nostre reazioni. Io e Steve non ci guardiamo, ma i nostri pensieri si incrociano proprio come sguardi. Steve pensa: «Lo sapevo, sapevo che c’era qualcosa di strano». Io penso: «Niente da fare, oggi non riuscirò ad andare a correre».
Steve dice: – Come si chiama?
– Non lo so. Ash non me l’ha mai detto.
– Nemmeno il nome di battesimo?
Lucy scuote la testa con forza e la frangia ricade in avanti. La spinge di nuovo indietro. – No. Non mi ha mai detto nemmeno che frequentava un altro. È solo una mia sensazione, non so nulla di specifico. Va bene?
– Va bene, – dico io. – Cosa le ha dato questa sensazione?
– Piccoli indizi. Per esempio, negli ultimi mesi, da prima che conoscesse Rory, a volte le chiedevo di uscire a bere qualcosa e lei diceva di no, ma senza spiegazioni. Normalmente avrebbe detto: «Non posso, ho il corso di pilates» o qualcosa del genere. Oppure diceva di sí e poi all’ultimo minuto mi mandava un messaggio tipo: «Contrattempo. Possiamo fare domani?» Sostanzialmente, ci vedevamo molto meno e lei andava molto di piú dal parrucchiere, e aveva le unghie sempre perfette. E quando frequenti meno gli amici e fai manutenzione di alto livello… – Lucy scrolla le spalle. – Di solito si tratta di una nuova relazione.
Aislinn ha cancellato l’appuntamento al ristorante con Rory con un preavviso di poche ore. Pensavo fosse per fargli capire chi comandava.
Sento di nuovo quel debole battito che ho sentito nella cucina di Aislinn, quando Steve mi ha mostrato il forno. Una pulsazione come una fame, come musica da ballo: qualcosa di buono all’orizzonte, che ti attira. Sento che colpisce anche Steve.
Lui dice: – Quanto tempo fa è iniziato?
Lucy disegna linee nella condensa sopra il bicchiere e pensa, alla vera risposta o a quella che vuole darci. – Direi cinque o sei mesi fa. Verso fine estate.
– Qualche idea su dove potevano essersi conosciuti? Lavoro? Pub? Hobby?
– Nessuna idea.
– Chi frequentava abitualmente Aislinn, a parte lei?
Lucy fa spallucce. – Qualche volta andava a farsi un bicchiere con i colleghi. Non ha molti amici.
– E qualche hobby ce l’ha?
– Niente di serio. Negli ultimi due anni ha frequentato un mucchio di corsi serali: salsa, corsi di stile e immagine, ha imparato un po’ di spagnolo… L’estate scorsa credo prendesse lezioni di cucina. Ma non mi ha mai parlato di un uomo in particolare. Non c’era mai nessuno che menzionasse un po’ troppo di frequente, niente di simile.
Aislinn Murray si delinea sempre piú come una di quelle persone che è un vero spasso conoscere. Dico: – Lucy, mi sembra strano. Ash è la sua migliore amica fin dall’infanzia e non le dice nulla di quest’uomo?
Lei alza gli occhi, di nuovo diffidente. – Ho detto che eravamo amiche fin da piccole, non ho detto migliori amiche.
– No? Allora cosa eravate?
– Amiche e basta. A scuola ci frequentavamo, da grandi siamo rimaste in contatto. Niente di piú.
Steve ha un’espressione che è un mix perfetto di preoccupazione e disapprovazione. Dice: – Sa come abbiamo avuto il suo nome? Aislinn l’ha indicata nel cellulare come persona da contattare in caso di emergenza. Quando fai questo, scegli qualcuno a cui credi che importi qualcosa di te.
Lucy distoglie la faccia da quello sguardo accigliato. – Sua madre è morta qualche anno fa, suo padre è scomparso, lei è figlia unica. Chi doveva scegliere?
Sta di nuovo mentendo. Per qualche motivo cerca di ridurre la loro amicizia a qualcosa che le è solo rimasto attaccato a una scarpa, ma il calore quando ha menzionato le stupide regole di Aislinn era autentico. Dico: – Lei è anche la persona a cui Aislinn telefonava e mandava messaggi piú spesso. Forse non aveva molti amici, ma è evidente che pensava a lei come alla sua migliore amica. Sapeva che lei non ricambiava questo sentimento?
– Noi siamo amiche. È quello che ho detto. Ma non tanto da condividere tutto, da sapere ogni dettaglio della vita dell’altra. È chiaro?
– Allora chi può sapere tutto di Aislinn? Chi era la sua migliore amica, o amico, se non si tratta di lei?
– Un’amica cosí non ce l’aveva. Non è che ce l’hanno tutti.
Le trema la voce. Lascio perdere: Lucy sta per crollare e non voglio che succeda adesso, davanti a noi. – Capisco, – dico. – Ma io, quando esco con qualcuno, lo dico ai miei amici, anche se non sono amici strettissimi. Lei no?
Lucy ingolla un sorso d’acqua e si riprende. – Sí, certo. Ma Aislinn non lo faceva.
– Ha detto che parlava sempre di Rory, di che tipo fantastico fosse. Le ha parlato anche dei suoi altri fidanzati? Glieli ha fatti conoscere?
– Sí. Voglio dire, erano anni che non si vedeva con nessuno, ma sí, quello di prima l’ho conosciuto.
– Aislinn voleva parlarle di lui, capire cosa ne pensava, e tutto il resto. Giusto?
– Sí.
– Ma non questa volta.
– No. Non questa volta.
Lucy sfrega il bicchiere su una macchia di vernice viola sul ginocchio dei pantaloni militari e la gratta con l’unghia. Dice: – Ho pensato che fosse uno sposato. Sembra logico, no?
Guarda me. Rispondo: – Sarebbe il mio primo pensiero. Lo ha chiesto a Aislinn?
– Non ho voluto saperlo. Per quanto mi riguarda, una persona già impegnata è off limits, e Ash lo sa. Nessuna delle due voleva avere quella conversazione. Avremmo solo litigato.
– Sta dicendo che per Aislinn invece un uomo sposato non era off limits.
La vernice viola si stacca e Lucy la sfrega tra le dita. – Detto cosí la fa sembrare una rovinafamiglie. Ma Ash non è il tipo. Per niente. È solo… è molto insicura. Su tante cose. Ha senso, per voi? – Guarda me. Io annuisco. Il suo viso è invecchiato, da quando siamo arrivati. Questa conversazione le sta costando molto. – E se l’altra persona invece è molto sicura di sé, spesso Ash pensa di essere lei a sbagliare. Quindi sí, me la immagino con un uomo sposato. Non perché pensi che sia giusto, o perché non le importi, ma perché lui l’ha convinta che il contrario potrebbe non essere sbagliato.
– Chiarissimo, – dico. Sono contenta che Aislinn sia la vittima e Lucy la testimone. Se fosse stato il contrario, a questo punto avrei strangolato Aislinn con qualcosa a quadretti.
– Allora sarà stata contenta, quando Aislinn si è sentita attratta da Rory, – dice Steve. – Un bravo ragazzo, single, nulla che potesse causare tensione tra voi due, nulla che potesse causare problemi a Aislinn. No?
– Sí –. Ma passa una frazione di secondo, prima che lo dica. Un’altra volta, abbiamo sfiorato qualcosa che Lucy non ci sta dicendo.
Dico: – Lei ha avuto la sensazione che Aislinn avesse chiuso con l’altro uomo, prima di cominciare a uscire con Rory? O pensa che tenesse in piedi tutte e due le storie?
– Come faccio a saperlo? Come ho detto…
– Aislinn era ancora vaga quando si trattava di uscire con lei? Capitava ancora che cancellasse un appuntamento all’ultimo minuto?
– Sí. Capitava.
– Quindi è per questo che era preoccupata per lei?
Lucy sta ancora grattando macchie di vernice, con i gomiti sulle cosce e la testa bassa. – Chiunque si sarebbe preoccupato. Voglio dire, tenere in piedi due storie con due uomini, di cui uno sposato… Non può finire bene. E Ash… lei è molto ingenua, su tante cose. Non le sarebbe mai venuto in mente che si tratta di una situazione esplosiva. Io volevo solo che lo capisse.
Questo ha piú senso, ma non è ancora abbastanza. – Ha detto che Rory non ha fatto scattare campanelli d’allarme, in lei. E l’altro uomo?
– Di lui non so nulla, quindi niente allarmi. Come ho detto, era l’idea generale che non mi piaceva.
È tesa, pianta piú forte i gomiti sulle cosce. Stiamo girando intorno a qualcosa e lei non è contenta. Del resto, non sono contenta nemmeno io. Lucy non è un’idiota, dovrebbe sapere che questo non è il momento di cazzeggiare. – Questo ancora non spiega perché ha pensato subito a Aislinn quando abbiamo suonato il campanello. Vuole provare di nuovo?
Il mio tono duro la spinge a piantare piú a fondo i gomiti nelle cosce. – È questo il perché. Che altro dovrebbe essere? Forse la mia è una vita noiosa, ma nessuno che conosco fa cose che possono portarmi in casa dei detective della polizia.
Comincio a stufarmi delle stronzate. – Certo, – dico. Mi chino in avanti e do una spintarella al posacenere, mettendoglielo davanti agli occhi. Uno sbuffo di cenere rancida si solleva nella luce. – Come ho detto, provi di nuovo.
Lucy drizza la testa e mi lancia un’occhiata con un livello di diffidenza tutto nuovo.
Steve sposta il peso sul divano, accanto a me. So quello che significa: «Lascia stare».
Sto quasi per dargli una gomitata nelle costole, ma il fatto è che ha ragione. Ho stabilito un buon rapporto con Lucy, e sto per gettarlo via inutilmente. In tono piú gentile, aggiungo: – Non si preoccupi per questo. A noi interessa solo Aislinn.
Lo sguardo diffidente scompare, ma non del tutto. Steve si accomoda sul trono del poliziotto buono, dove si sente meglio, e dice: – Ci dica qualcosa di piú su Aislinn. Come vi siete conosciute?
Lucy si accende un’altra sigaretta. Io amo la nicotina. Mette a proprio agio i testimoni quando le cose si fanno difficili, impedisce ad amici e familiari della vittima di andare in pezzi, significa che possiamo innervosire i sospetti come ci pare, e poi offrire loro una sigaretta non appena vogliamo che si calmino di nuovo. I non fumatori sono una fatica doppia, con loro bisogna trovare altri modi. Per me, chiunque sia implicato in un omicidio dovrebbe fumare un pacchetto al giorno.
Lucy dice: – Alle medie, quando avevamo dodici anni.
– Quindi siete dello stesso posto? Quale?
– Greystones.
Appena fuori Dublino; una cittadina piccola, ma abbastanza grande da consentire che Lucy e Aislinn si frequentassero per scelta, non perché non c’era nessun altro disponibile. Steve chiede: – Com’era Aislinn, allora? Se dovesse descriverla con una parola, cosa direbbe?
Lucy ripensa a quei tempi. L’affetto le riscalda di nuovo il viso. – Timida. Molto. Voglio dire, non era affatto la caratteristica piú importante in lei, ma all’epoca copriva tutto il resto.
– C’era un motivo particolare? O era semplicemente fatta cosí?
– In parte era fatta cosí, e c’entra anche l’età, ma credo fosse soprattutto per via della madre.
– Sí? Perché? Com’era sua madre? – Questo è ciò che intendo quando dico che Steve è in gamba con i testimoni. Il modo in cui si spinge avanti sul divano, l’inclinazione della testa, il tono di voce: persino io crederei che il suo è un interesse genuino, personale.
– La signora Murray aveva dei problemi. Seri, di quelli che si curano con la psicoterapia o con le medicine, meglio ancora con tutte e due.
Steve annuisce piú volte. – Che tipo di problemi?
– Secondo Ash stava bene, prima che ci conoscessimo. Ma poi suo padre le abbandonò, quando Ash aveva dieci anni –. Lucy dovrebbe rilassarsi, ora che ci siamo allontanati dall’omicidio, dall’hashish e da quello che ci sta nascondendo; invece tiene ancora la sigaretta con le dita rigide e i piedi piantati sul parquet macchiato di vernice, come se dovesse tentare la fuga da un momento all’altro. – Non seppero mai il motivo. Lui non glielo disse. Semplicemente… sparí.
– E la signora Murray andò fuori di testa.
– Non riuscí mai a superarlo. Cominciò a peggiorare costantemente. Secondo Ash si vergognava, come se il fatto che il marito se ne fosse andato fosse colpa sua –. Torce di nuovo la bocca intorno alla sigaretta, ma stavolta il calore non c’è. – Quella generazione, avete presente? Tutto era sempre colpa della donna, e se non capivi perché significava che dovevi pregare di piú. Perciò in pratica la madre di Ash tagliò i contatti. Con tutti. Andava solo a messa e a fare la spesa, e basta. Quando ci siamo conosciute, Ash già da due anni passava la maggior parte della sua vita in casa, solo lei, sua madre e la televisione. È figlia unica. Io non volevo mai andare da lei, perché sua madre mi metteva i brividi. La sentivi piangere in camera da letto, o la trovavi in piedi in cucina che fissava un cucchiaio, mentre qualcosa bruciava sui fornelli, e le tende erano sempre chiuse, per evitare che qualcuno la vedesse da fuori e… non lo so… facesse brutti pensieri su di lei. E Aislinn doveva vivere lí.
Steve ha toccato il tasto giusto. Lucy parla piú rapidamente, non si fermerà finché non la fermiamo noi, o finché non crolla. – C’erano anche altre cose. Per esempio, poiché sua madre non usciva, Ash aveva sempre i vestiti sbagliati: a scuola non aveva mai quello che indossavano gli altri, ma solo roba da negozi di beneficenza passata di moda e non adatta a lei. Io le prestavo qualcosa, ma avevamo taglie diverse. Quello era un altro motivo per cui Aislinn era insicura: non era grassa, ma un po’ sovrappeso. Mia madre le comprava dei vestiti, a volte, ma noi eravamo in quattro, quindi c’erano dei limiti a quello che poteva spendere, capite? Non sembrano grandi problemi, ma quando hai dodici anni e tutti sanno che tuo padre è scappato e tua madre ha qualche rotella fuori posto, l’ultima cosa di cui hai bisogno è avere un aspetto strano.
Queste sono le cose che piacciono a Steve, e che invece io tratto con circospezione. Lui pensa che ci diano un’idea di chi era la vittima. Io penso a quei filtri. So già che Lucy ha almeno un’informazione che intende nasconderci. L’Aislinn che ci sta descrivendo qui è tutta nelle sue mani: può fare con lei quello che vuole.
– Sto per dire una cosa che può sembrare insensibile, – dico, – e mi dispiace. Ma ancora non capisco come voi due foste diventate amiche. Mi sforzo, ma non riesco a vedere una sola cosa che voi due aveste in comune. Come ha potuto funzionare?
– Avrebbe dovuto vederci –. Lucy fa un mezzo sorriso, non a me, ma a ciò che vede nella sua mente. – Ne avevamo, di cose in comune. Nemmeno io mi trovavo benissimo, a scuola. Non ero un’emarginata, ma mi piacevano i lavori da falegname ed elettricista, e le ragazze che comandavano mi rompevano parecchio su questo, mi chiamavano lesbica, e quelli che volevano andare d’accordo con loro facevano la stessa cosa. Non era una vera tortura o chissà che, ma la scuola in generale faceva schifo. Invece Ash pensava che io fossi fantastica. Per gli stessi motivi per cui gli altri mi rompevano le palle. Mi considerava una specie di eroina, solo perché dicevo alle altre di andare affanculo e facevo ciò che volevo anche se a loro non piaceva. Ash era convinta che fosse qualcosa di incredibile.
Il sorriso diventa una specie di spasmo e Lucy dà un tiro alla sigaretta per controllarsi. – E sí, all’inizio cominciai a frequentarla perché mi piaceva sentirmi considerata una ragazza fantastica, ma dopo un po’ fu perché Ash cominciò a piacermi sul serio. La gente la considerava lenta di comprendonio, ma era solo perché era insicura, come ho detto, e allora sembrava che faticasse a tenere il passo. Ma non era per niente stupida. Al contrario, era molto perspicace.
Steve annuisce a manetta, completamente catturato dal racconto. Anch’io sono interessata, ma non in quel senso. Lucy vuole farci conoscere Aislinn, o almeno la sua versione di Aislinn. A volte succede: amici e familiari vogliono presentarci un santo o una santa, cosí non penseremo che la vittima abbia qualche colpa per ciò che le è capitato. Di solito lo fanno quando sono loro a pensare che almeno in parte sia stata colpa della vittima. Per Lucy forse è il fatto che Aislinn andava con un uomo sposato, o forse c’è dell’altro.
– Ed era capace di rendere divertenti anche le cose peggiori. Per esempio quando io litigavo con qualche stronza in classe e dopo ero tutta incazzata e adrenalinica, della serie: «Ma chi si crede di essere, quella vacca, avrei dovuto darle un pugno in faccia…» Ash cominciava a ridacchiare e io scattavo: «Che c’è? Non è divertente!» E lei: «Sei stata fantastica, una piccola gatta furiosa che scaccia una orribile iena». E faceva un’imitazione di me che saltavo su e giú, tentando di colpire qualcosa sopra la mia testa. Poi andava avanti: «Credevo che lei avrebbe tagliato la corda per andare a nascondersi, gridando aiuto mentre tu le mordevi le caviglie, e tutti intorno scandivano il tuo nome…» E all’improvviso cominciavo a ridere anch’io, e tutta la storia si sgonfiava. Io mi sgonfiavo.
Lucy ride, ma con un sottofondo di tensione, come se il riso lottasse contro il peso del dolore che lo trascina giú. – Questa era Ash. Rendeva tutto piú bello. Forse perché aveva fatto pratica con sua madre, nel tentativo di rendere sopportabile la vita di entrambe; non lo so. Ma anche quando non riusciva a migliorare la vita a sé stessa, la migliorava agli altri.
«Per favore, non so dove altro…» Quella Aislinn era ancora come la dodicenne descritta da Lucy: grassottella, insicura, con vestiti che non sarebbero stati bene a nessuno e meno che mai a lei. La donna morta, invece, era molto diversa. Dico: – Le cose sono migliorate anche per lei, alla fine. Da adulta era diventata piú bella, aveva acquisito un po’ di stile, un po’ di sicurezza. No?
Lucy schiaccia la cicca, prende il bicchiere ma non beve. Ora che siamo tornati al presente torna anche la sua prudenza.
– Ci ha messo troppo tempo, – dice. – Anche dopo la fine della scuola è rimasta a vivere in casa, perché non se la sentiva di lasciare sola sua madre. Per me non era una buona idea, ma la capivo: se Aislinn se ne fosse andata, sua madre probabilmente si sarebbe suicidata nel giro di poche settimane. Perciò, fino a pochi anni fa, Ash tornava in quella casa tutte le sere, come quando eravamo ragazze. E questo le ha impedito… – Gira il bicchiere tra le mani, osservando la luce che si riflette sull’acqua. – Le ha impedito di diventare adulta. Aveva un lavoro, sempre lo stesso da quando abbiamo finito le superiori: receptionist in una ditta di forniture aziendali di carta igienica e sapone per le mani. Non era male, ma non era quello che desiderava. E Ash non aveva la minima idea di cosa desiderava; non aveva mai avuto la possibilità di pensarci. Io avevo paura per lei, capite? Immaginavo che avremmo avuto trent’anni, poi quaranta, e lei sempre con quel lavoro che le era capitato per caso e sempre a occuparsi della madre, e la sua vita… – Lucy schiocca le dita, sollevando la mano in una striscia di sole pallido. – Andata. E lo vedeva anche lei, solo che non sapeva cosa fare al riguardo.
– Cosa è cambiato? – chiede Steve.
– La signora Murray è morta. Tre anni fa. Dirlo può sembrare brutto, ma è davvero la cosa migliore che sia mai capitata a Ash.
– Di cosa è morta?
– Vuol sapere se si è suicidata? – Lucy scuote la testa. – No. Aneurisma cerebrale. Ash è tornata a casa dal lavoro e l’ha trovata. Era distrutta, naturalmente, ma dopo un po’ ha cominciato a venirne fuori e… È stato allora che è iniziata la sua vera vita. Ha venduto la casa, si è comprata quel cottage a Stoneybatter. Ha perso un bel po’ di peso, si è tinta i capelli, si è comprata vestiti diversi, ha cominciato a uscire… – Un rapido sorriso. – Frequentava anche locali alla moda. Voglio dire, la stessa ragazza che dovevo letteralmente trascinare a bere una birra in qualche brutto pub vicino al teatro, all’improvviso vuole andare in un night club di lusso di cui ha letto su una rivista, e quando io dico che il buttafuori non mi lascerà mai entrare, lei ribatte: «Ci penso io, ti trucco, ti presto qualcosa da metterti, vedrai che entriamo senza problemi».
Il sorriso si fa piú ampio. – E ci hanno lasciate entrare davvero. Non era il mio tipo di posto, pieno di coglioni con abiti firmati che facevano a chi urla piú forte, ma ne è valsa la pena solo per vedere Ash. Se la spassava un mondo: ballava, flirtava con uno dei coglioni per poi mollarlo… Sembrava una ragazzina al luna park.
Il sorriso sparisce. Lucy fa un respiro profondo ed espira con un sibilo, sforzandosi di non crollare.
– Aveva finalmente una possibilità di capire cosa voleva fare. Cominciava ad avere la fiducia in sé stessa necessaria per pensare che meritava di capirlo. Era…
«Aveva», «cominciava», «era». Lucy ha smesso di usare il presente, parlando di Aislinn. La morte dell’amica sta diventando un fatto reale. Può crollare da un momento all’altro.
– Voleva lasciare il lavoro. Non ha mai avuto qualcosa per cui spendere lo stipendio, perciò aveva parecchi soldi da parte, e voleva prendersi un anno o due di pausa per decidere cosa fare. Parlava… – Un altro respiro profondo. – Parlava di fare un viaggio, perché non era mai stata fuori dall’Irlanda. Parlava di iscriversi all’università. Era eccitatissima. Come se si fosse svegliata dopo quindici anni di coma e non riuscisse ad abituarsi a quanto fosse splendente il sole. Ash…
La voce si incrina. Lucy abbassa la testa e comincia a grattare un’altra macchia di vernice, con tanta forza che si procurerà una ferita alla gamba, sotto i pantaloni. Non ce la fa piú, forse anche per via del gioco che sta giocando con noi.
Dice, con la faccia sopra le ginocchia: – Come… Cosa le hanno fatto?
Rispondo: – Non possiamo rivelare i particolari dell’indagine, ma posso dirle che non ha sofferto, da ciò che abbiamo potuto vedere.
Lucy apre la bocca per dire qualcos’altro, ma non esce nulla. Le lacrime cadono sui pantaloni militari, formando macchie scure.
La cosa piú dignitosa da fare sarebbe andarsene, lasciarle un po’ di privacy mentre la prima ondata di dolore le arriva addosso e la riempie di lividi. Nessuno di noi due si muove. Lei resiste per quasi un minuto, poi scoppia in singhiozzi.
Le offriamo fazzoletti di carta e riempiamo di nuovo il suo bicchiere d’acqua. Chiediamo se c’è qualcuno che può venire a stare un po’ da lei, accettiamo e facciamo finta di niente quando lei riesce a dire che preferisce restare da sola. Quando è in grado di parlare di nuovo la convinciamo a farci una lista di tutti gli ex di Aislinn (che sono tre, includendo anche una storia estiva di due settimane quando lei aveva diciassette anni, con un tizio di nome Jorge) e di tutte le persone che ricorda di aver visto alla presentazione di quel libro. Le chiediamo anche, solo per barrare una casella, è una cosa che dobbiamo chiedere a tutti, dov’era ieri sera. Lucy risponde che era al Torch: è arrivata alle sei e mezzo, ci sono diverse persone che possono confermarlo, poi alla fine dello spettacolo, poco dopo le dieci, è andata a farsi qualche pinta al pub ed è tornata all’una con il tecnico delle luci e due attori del cast, i quali sono rimasti a fare quello che risulta ovvio fino alle quattro circa. Controlleremo la storia, cioè, lo faranno le reclute, ma non credo che troveremo incongruenze.
Sto per affrontare il problema dell’identificazione formale del corpo, quando Steve dice: – Le lasciamo i nostri biglietti da visita, – e mi lancia un’occhiata. Io pesco un biglietto e me ne sto zitta. – Quando si sentirà pronta a rilasciare una dichiarazione faccia uno squillo a uno di noi due.
Lucy prende i biglietti con aria assente, senza nemmeno vederli. Io dico: – Nel frattempo, la pregherei di non parlare con i giornalisti. Dico sul serio. Anche se pensa di non star dicendo nulla di importante, potrebbe danneggiare seriamente l’indagine. Va bene? – Ho ancora in mente il Bieco Crowley. La persona che me l’ha scatenato addosso è qualcuno che avrà accesso anche ai dati di Lucy.
Lei annuisce, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano, visto che i fazzoletti sono già finiti. Ma le lacrime continuano a scendere.
Dice, con la voce impastata di pianto: – Chiunque sia stato… è come se avesse ucciso una bambina, che non aveva ancora avuto la possibilità di cominciare una vita propria. Le ha portato via tutto. Ve lo ricorderete? Durante l’indagine?
– Non si preoccupi, – dico. – Chiunque sia stato, lo prenderemo.
Lucy smette di resistere e lascia scorrere liberamente le lacrime, che le gocciolano dal mento. Ha un aspetto terribile, occhi gonfi e mezzi chiusi, una macchia di vernice viola su una guancia.
– Sí, lo so. Solo… tenetelo a mente.
– Va bene, – dico. – Lo faremo. In cambio, lei pensi se c’è qualcosa d’altro che può dirci. Qualsiasi cosa, capito?
Lucy annuisce, per quello che vale. Non guarda in faccia nessuno di noi due. La lasciamo a fissare il nulla, circondata dalle ceneri della notte scorsa.
Quando usciamo, la giornata è cominciata davvero. Rathmines è in piena attività: studenti a caccia di rimedi per il doposbronza, coppie che vogliono far sapere al mondo quanto si amano, famiglie decise a godersi la domenica insieme a costo di morire nel tentativo. Basta un’occhiata e precipitiamo nel vortice della mattina dopo, quando il tuo corpo si rende conto all’improvviso che sei stato sveglio tutta la notte e spegne il motore, lasciandoti con le gambe molli dalla stanchezza.
– Caffè, – dice Steve. – Cristo, ho bisogno di un caffè.
– Pappamolla.
– Io? Se chiudi gli occhi, tu ti addormenti e cadi a terra. Vuoi scommettere?
– Vaffanculo.
– Caffè. E cibo.
Odio perdere tempo mangiando sul lavoro. Non vedo l’ora che inventino qualche pasto in pillole da ingoiare un paio di volte al giorno, ma fino ad allora io e Steve abbiamo bisogno di cibo vero, e in notevoli quantità.
– È il tuo turno di pagare, – dico. – Trova un posto che venda il caffè a litri.
Steve fa un buon lavoro. Evita i posti fighetti che servono chai al posto del caffè e quei nuovi incroci di croissant e krapfen che chiamano cronut. Pesca un negozietto piccolo e sudicio, e ne esce con dei caffè in formato industriale e panini imbottiti con abbastanza salsicce, uova e fette di pancetta da sfamarci per tutta la giornata. Andiamo a mangiarli in un giardinetto vicino a una strada secondaria. Fa troppo freddo per una colazione all’aperto, l’aria sembra aspettare solo il momento giusto per trasformarsi in nevischio, ma almeno scendendo dalla macchina nessuno potrà romperci le palle via radio, e noi dobbiamo parlare di cose di cui non si può parlare in un locale.
Il giardino pubblico è bellissimo, tutto panchine in ferro battuto ritorto, siepi ben potate e aiuole in attesa della primavera, ma se guardi meglio vedi anche un preservativo usato dentro una siepe, una busta di plastica azzurra appesa a un recinto, da cui sporge qualcosa che non mi piace per niente. Questo posto ha una vita notturna. Con il sole sarebbe pieno zeppo di gente, ma con questo freddo è semideserto. Su una panchina un tizio con l’uniforme della Tesco sta fumando una sigaretta, voltandosi di scatto a ogni tiro come per controllare che nessuno lo veda; un ragazzino in monopattino gira in tondo, mentre la madre messaggia sul cellulare e culla un passeggino da cui esce un piagnucolio. Il cappello del ragazzo è una specie di dinosauro che gli sta mangiando la testa.
Troviamo una panchina che non puzza di piscio recente. Alzo il bavero del soprabito e butto giú metà del mio caffè in un solo sorso. – Avevi ragione. Parlare con Lucy è stata una buona idea.
– Credo anch’io. Potrebbe ancora trattarsi di Rory Fallon…
Io lo fisso negli occhi. – Si tratta di lui. È quasi sicuro.
Steve fa un gesto vago. Sta aprendo dei tovagliolini di carta sul davanti del giaccone: questi sono panini d’assalto, e Steve prende molto sul serio i suoi vestiti da lavoro. – Forse. Ma il resto è comunque qualcosa che vale la pena sapere.
Mi sento già meglio; dopo il caffè ho gli occhi spalancati come un cartone animato. – Almeno sappiamo perché la casa di Aislinn sembrava quella di una Barbie lavoratrice. E perché Aislinn sembrava una Barbie in attesa del suo grande amore. Quella donna stava cercando di mettere insieme una personalità ritagliandola dalle riviste.
Steve dice: – Una persona cosí è vulnerabile. Molto vulnerabile.
– Non mi dire. Rory potrebbe essere anche un totale psicopatico, con piú bandiere rosse dell’ambasciata cinese, ma gli sarebbe bastato indossare vestiti della marca giusta e aiutare Aislinn a infilarsi il soprabito, e lei lo avrebbe comunque invitato a cena all’appuntamento numero tre. Perché è cosí che si deve fare.
– Lucy non è scema, – mi fa notare Steve. – Se Rory fosse stato pieno di bandierine rosse lei le avrebbe viste.
– A proposito, – dico. Il panino è roba seria, fette di pancetta belle spesse, grasso e rosso d’uovo dappertutto; sento già l’energia che risale. – Che ne pensi di Lucy?
– Intelligente. Impaurita –. Steve ha finito il lavoro con i tovagliolini; appoggia il caffè sulla panchina e comincia a scartare il suo panino. – Ci ha taciuto qualcosa.
– Ci ha taciuto parecchie cose. E non ha senso. Lasciamo perdere la storia del «solo amiche, non migliori amiche»; lei voleva bene a Aislinn. E molto. Quindi, perché non dire quello che sa? Non vuole che l’assassino venga preso?
– Credi che sappia piú di quello che dice sull’uomo sposato di Aislinn?
– Penso che abbiamo solo la parola di Lucy sul fatto che questo uomo sposato esista davvero –. Parliamo a bassa voce. Il tizio di Tesco e la mamma con il passeggino sembrano aver a malapena notato la nostra presenza, ma non si sa mai. – È stata attentissima a non rivelarci nulla che possiamo confutare, ci hai fatto caso? Niente nome, niente descrizione, niente date, nessun posto dove forse si vedevano, niente di niente.
Steve ha aperto il panino in grembo e con attenzione ne sta cospargendo l’interno di salsa marrone. – Credi che si sia inventata tutto lí per lí? Ma perché?
– Mi è sembrata troppo interessata a sapere se Rory è il nostro principale sospettato. Non vuole solo sapere chi è stato ad ammazzare la sua amica; vuol sapere specificamente se noi pensiamo che sia stato Rory.
– Già –. Steve si spruzza in bocca le ultime gocce di salsa, poi lancia la bustina vuota in un cestino dei rifiuti accanto alla panchina. – Ma non ho capito se spera che lo pensiamo o che non lo pensiamo. Ci ha dato il nome di Rory senza tergiversare e ci ha detto che ieri sera era invitato a cena da Aislinn. Ma dopo…
– È vero. Rivelare il nome e il fatto che fosse invitato a cena non era niente di che: doveva sapere che tanto li avevamo già, o li avremmo avuti da un momento all’altro. Ma dopo è stato tutto un: «Che bravo ragazzo, non mi è mai sembrato minaccioso, Aislinn con lui era proprio felice» eccetera. Potrebbe anche essere tutto vero; magari è convinta che non sia stato lui e vuole convincere anche noi, per evitare che perdiamo tempo con Rory mentre il vero assassino fa perdere le sue tracce. Ma mi chiedo se è vero che non provasse nessun sentimento per Rory, come ci ha detto.
Steve inarca le sopracciglia e cita le parole di Lucy. – «Simpatico, magari un po’ noioso. Ash ovviamente vedeva in lui qualcosa che a me era sfuggito…»
– Sí, ma anche su questo abbiamo solo la parola di Lucy. Per quanto ne sappiamo, lei poteva essere pazza di Rory proprio come Aislinn. Per quanto ne sappiamo, magari si vedevano in segreto, all’insaputa di Aislinn.
– Ma abbiamo appena detto che lei voleva bene a Aislinn, e molto.
– E per qualche motivo non le piace ammetterlo. Potrebbe essere senso di colpa –. Mando giú un altro bel sorso di caffè. – Come ha detto anche lei, queste storie a tre possono finire molto male.
– Lucy ha un alibi, – dice Steve.
– Sí. E il suo shock era autentico. Non è stata lei, ne sono sicura. Ma il suo alibi le impedisce di fornire un alibi a Rory. Perciò se vuole allontanare i sospetti da lui, per qualsiasi motivo, l’unica cosa da fare è inventare un uomo misterioso e spingerci a dargli la caccia.
Steve mastica e pensa. – Facciamo un controllo incrociato tra Lucy e Rory. Numeri di telefono, account Facebook, e-mail. Vediamo se sono stati in contatto. Comunque, anche se non troviamo niente, questo non prova che Lucy non sia innamorata di lui.
– Bene –. Il ragazzino dinosauro ci passa vicino sul suo monopattino e spalanca gli occhi guardando i nostri panini. Gli lancio un’occhiataccia e lui si toglie di torno. – E dobbiamo anche esaminare al piú presto tutta la roba di Aislinn, per vedere se troviamo una prova dell’esistenza dell’altro uomo. Se esiste, dovrà pur esserci qualcosa: messaggi, telefonate, e-mail.
Steve esamina il panino e sceglie un angolo di attacco. – Be’, – dice. – Forse.
– In che senso «forse»? Non esistono le persone invisibili. Non piú. Se non ha lasciato tracce, è perché non è mai esistito.
– Ti dico quello che penso, anche se è solo un’idea, per adesso, – dice Steve. – E se l’altro uomo di Aislinn fosse un criminale? Un malavitoso, per esempio?
Un pezzo di uovo fritto per poco non mi entra nel naso. – Gesú, Moran, vuoi proprio trasformarlo in un caso interessante, eh? Peccato che abbiano già preso Whitey Bulger, sennò ti saresti raccontato che è stato lui.
– Sí, sí, sí. Ma pensaci. Spiega perché Lucy vuole distogliere la nostra attenzione da Rory: è sicura che sia stato l’altro e non vuole che indaghiamo nella direzione sbagliata. Spiega perché ha immaginato subito che fossimo lí per Aislinn. Spiega perché le ha scritto di stare attenta, ieri sera: se Aislinn aveva una storia segreta con un criminale, doveva stare molto attenta a invitare a cena un altro uomo.
Ho già aperto la bocca per stopparlo, quando mi rendo conto di una cosa. Mister Ottimista ha ragione. La spiegazione quadra.
– Cristo, – dico. Ecco di nuovo quella pulsazione, che quasi mi solleva dalla panchina. Altro che caffè; questo lavoro, quando va per il verso giusto, è meglio della cocaina. – E spiegherebbe perché Lucy nasconde delle cose. Vuole che lo prendiamo, ma non desidera trovarsi sul banco dei testimoni, sotto gli occhi di un malavitoso, a spiegare che è stata lei a indirizzare le indagini verso di lui. Perciò ci dà in pasto l’idea ma sta molto attenta a dire che non sa come si chiami, non sa nulla di lui, non può nemmeno giurare che esista, perché lei e Aislinn in realtà non erano poi cosí tanto amiche. Devo ammetterlo, Steve. Funziona.
– Non solo un bel visino, – dice Steve a bocca piena, facendomi il gesto del pollice alzato. Manda giú il boccone e aggiunge: – E se si tratta di un malavitoso, si spiega anche che sia stato attento a non lasciare tracce: niente messaggi, niente telefonate.
– Soprattutto se è un malavitoso sposato. Molti di loro sposano sorelle e cugine di altri come loro. Giocare fuori casa ti può costare un proiettile in un ginocchio –. Adesso sono eccitata. Se il caso va davvero in questa direzione, il capo cacherà un riccio. È quanto di piú lontano possibile dalla classica lite tra innamorati. – Gesú, funziona sul serio.
– Spiega anche come mai lui abbia chiamato la stazione di polizia di Stoneybatter. Un cittadino normale di solito chiama il 999, se vuole un’ambulanza.
– Ma un criminale, o l’amico di un criminale, sa che le telefonate al 999 sono registrate. E non vuole lasciare la sua voce su nastro per evitare di essere identificato, soprattutto se è già noto alle forze dell’ordine. Cosí chiama il commissariato piú vicino.
– Esatto, – dice Steve. – C’è una cosa, però. Aislinn ti sembra il tipo da uscire con un gangster? Una ragazza tranquilla come lei?
– Certo. È esattamente il tipo. Aveva una vita cosí noiosa che solo pensarci mi fa venire voglia di darmi una martellata in faccia per procurarmi un diversivo. Sai cosa c’era nella sua libreria? Un mucchio di libri sul crimine in Irlanda, tra cui uno bello grosso sulle gang.
Steve scoppia in una breve risata. – Ma guarda un po’. Forse allora era proprio il tipo, dopotutto.
– Ho pensato che cercasse un po’ di eccitazione di seconda mano, con quelle letture; ma forse voleva invece aggiornarsi sul lavoro del suo nuovo fidanzato. O forse il libro era solo una curiosità, e poi ha avuto la chance di fare un’esperienza dal vivo. E hai sentito Lucy: Aislinn non aveva un grande senso morale, e nemmeno il buon senso necessario per capire che era meglio non mettersi con un criminale –. Faccio fatica a mantenere un tono calmo. È ancora presto, tutto questo è solo un mucchio di se e di forse che può dissolversi in nulla da un momento all’altro. – Se un tipo losco attacca discorso con Aislinn in una discoteca, è di bell’aspetto e ha i vestiti giusti, lei ne sarà elettrizzata. È la sua esperienza dell’anno.
– Molti criminali però non sono maestri del vestire, – fa notare Steve. – Tendono a vestirsi da schifo, e molti hanno anche delle facce da schifo.
– Meglio, questo restringe il campo delle ricerche. Poi, dopo qualche mese l’eccitazione si spegne e Aislinn comincia a notare che il suo uomo fantastico in realtà è solo un bastardo. Ed ecco che conosce Rory, il Bravo Ragazzo. Allora lascia lo stronzo, oppure non ne ha il coraggio e comincia a vedersi con Rory di nascosto. In un modo o nell’altro, lo stronzo non è contento.
Steve dice: – Credi che Lucy sappia un nome?
– Se c’è un nome da sapere.
– Okay, ma se c’è lei lo sa, secondo te?
– Probabilmente solo il nome di battesimo, o un soprannome. E non ce lo dirà. Se quell’uomo esiste, dobbiamo trovarlo da soli.
– Io non ho nessun buon contatto nel dipartimento Crimine organizzato. Tu?
– Non proprio. Una specie –. Non riesco piú a stare seduta, con questa storia che mi balla davanti agli occhi. Spingo in bocca l’ultimo boccone del panino, appallottolo la carta e la getto oltre Steve, nel cestino. – Comunque non pensarci, per il momento. Ora andiamo a fare una bella chiacchierata con Rory Fallon. A seconda di quello che ne esce, decidiamo se vale la pena di seguire quest’altra pista. Nel frattempo…
Noto un movimento con la coda dell’occhio e mi volto di scatto, ma è solo il tizio di Tesco che torna a riempire scaffali al supermarket, ora che si è fatto la sua dose di nicotina. Lui fa un salto e mi guarda storto, io gli punto contro un indice e si allontana. Quando sono su un caso, divento molto vigile (anche se O’Kelly userebbe il termine «tesa»). Non si tratta solo di me, succede a molti detective. È un istinto animale: quando insegui un predatore, anche se non sei tu la sua preda e lui probabilmente se la farà addosso non appena ti vede, sei sempre su un livello di allerta arancione. Io negli ultimi tempi ho qualche problema a scendere dal livello arancione, anche quando non lavoro.
– Nel frattempo, – dico, – io voto per non dire un cazzo di niente di tutto questo.
– A Breslin.
– A nessuno –. Se la cosa si risolve in niente, diventeremo gli zimbelli della squadra: gli idioti che si sono inventati una caccia ai gangster quando era solo un omicidio di routine tra innamorati. – È tutto ancora ipotetico; non ha senso parlarne finché non abbiamo in mano qualcosa di solido. Per adesso, possiamo dire che Lucy ci ha raccontato un po’ la storia di Aislinn, che Rory sembra venirne fuori come un tipo a posto, e fine.
– Per me va bene, – dice Steve, un po’ troppo in fretta.
– Non mi dire, – ribatto, comprendendo la sua manovra. – Ecco perché volevi tenerla lontana dal lavoro. Sei proprio un furbetto.
– Come ho detto, – sogghigna Steve, appallottolando la sua pettorina di tovagliolini, – non solo un bel visino.
Il bambino dinosauro è caduto dal monopattino, è seduto per terra e tenta di tirare fuori un pianto convincente. Gli giriamo intorno, diretti verso il cancello; io sto già chiamando le reclute per dire loro di portare Fallon in centrale, quando vedo di nuovo la busta di plastica e mi rendo conto di cos’è la cosa che sporge: un gatto morto, il pelo tirato contro la testa, i denti scoperti in un grido muto di furia.