Prologo
Mamma mi raccontava delle storie su mio papà. Nella prima che ricordo, era un principe egiziano che voleva sposarla e restare in Irlanda per sempre, ma la sua famiglia l’aveva costretto a tornare a casa per sposare una principessa araba. La raccontava bene, mamma. Anelli di ametista sulle dita lunghe di lui, il suo profumo come di spezie e pini, loro due che danzavano sotto le luci. Io, spaparanzata sotto il lenzuolo, inzuppata di sudore come se me lo avessero pennellato addosso – era inverno, ma l’amministrazione regolava il riscaldamento per tutto il blocco di appartamenti popolari, e le finestre ai piani alti non si aprivano – mi bevevo la storia e la spingevo a fondo dentro di me, e la tenevo lí. Ero piccola. Quella storia mi fece camminare con il mento alzato per un sacco di tempo, finché a otto anni la raccontai alla mia migliore amica, Lisa, e lei se la fece addosso dalle risate.
Un paio di mesi dopo, quando finalmente aveva smesso di bruciarmi, un pomeriggio entrai in cucina con i pugni sui fianchi, esigendo la verità. Mamma non fece una piega: spruzzò sui piatti un po’ di detersivo e mi disse che in realtà papà era uno studente di Medicina dell’Arabia Saudita. Lo aveva conosciuto mentre studiava da infermiera. Tanti bei particolari, i lunghi turni di lavoro e le risate stanche e quella volta in cui avevano salvato un bambino che era stato investito da un’auto… E quando lei aveva scoperto che io ero in arrivo, lui era già tornato in Arabia, senza lasciare un indirizzo. Cosí mamma aveva abbandonato la scuola da infermiera e aveva avuto me.
Quella storia mi tenne occupata per un altro periodo. Mi piaceva; cominciai persino a progettare in segreto di diventare la prima dottoressa mai uscita dalla mia scuola, visto che ce l’avevo nel sangue e tutto il resto. Durò fino a quando, a dodici anni, mi beccai una nota per qualcosa che avevo fatto, con relativa predica di mia madre: non avrebbe lasciato che io finissi come lei, senza un diploma e senza speranza di fare nient’altro che le pulizie, a salario minimo, per il resto della vita. Lo avevo già sentito mille volte, ma quel giorno mi venne in mente che per studiare da infermiera c’era bisogno del diploma.
Il giorno del mio tredicesimo compleanno mi sedetti di fronte a lei, con la torta tra noi, e le dissi che stavolta non volevo storie. Volevo sapere. Lei sospirò, disse che ormai ero abbastanza grande da conoscere la verità e mi spiegò che lui era un chitarrista brasiliano con il quale era uscita per un paio di mesi, finché una notte l’aveva picchiata. Quando si era addormentato, gli aveva rubato le chiavi della macchina ed era schizzata verso casa a tutta velocità, le strade buie e deserte, l’occhio gonfio che pulsava allo stesso ritmo dei tergicristalli. Lui poi le aveva telefonato, in lacrime, chiedendo scusa, e mamma era quasi disposta a perdonarlo. Solo che a quel punto sapeva già di me, perciò gli aveva appeso il telefono in faccia.
Fu quello il giorno in cui decisi che dopo la scuola sarei diventata una poliziotta. Non perché volessi fare dei numeri da Catwoman con tutti i violenti che ci sono in giro, ma perché mia madre non sa guidare. Sapevo che l’accademia di polizia era da qualche parte nelle campagne fuori città, ed era il modo piú rapido per allontanarmi dall’appartamento di mia madre senza infilarmi nel vicolo cieco delle pulizie.
Alla voce «padre», il mio certificato di nascita dice «sconosciuto», ma ci sono dei modi per sapere. Vecchi amici, database del Dna. Avrei anche potuto continuare a insistere con mia madre, aumentando la pressione fino a ottenere una storia almeno abbastanza vicina alla verità, da cui poi andare avanti.
Invece, non le feci piú domande su quell’argomento. A tredici anni tacqui semplicemente perché la odiavo, per via degli anni sprecati a modellare la mia vita secondo le storielle che mi aveva raccontato. Quando, un po’ piú grande, entrai nella scuola di polizia, tacqui perché pensavo di capire i suoi motivi, e sapevo che aveva fatto bene.