5.

In passato, la prima riunione su un caso mi piaceva moltissimo. Mi piaceva tutto, al riguardo. La vibrazione della centrale operativa, tutti tesi come levrieri ai box di partenza; in quella stanza ogni risposta arriva piú in fretta dopo la domanda, ogni occhiata è piú attenta. Lo schiocco di frusta degli incarichi assegnati: «Murphy controlla le riprese delle telecamere, Vincent controlla la Toyota Camry dorata, O’Leary parla con la fidanzata», bam, bam, bam. Il momento in cui chiudevo il taccuino e dicevo: «Cominciamo», e non facevo in tempo a richiudere la bocca che eravamo già tutti in piedi e vicini alla porta. Uscivo con la sensazione che il bastardo a cui stavamo dando la caccia non avesse nessuna possibilità. Ora invece il pensiero della riunione mi dà una nausea da doposbronza e mi incattivisce: le reclute mi guardano e si chiedono se le voci su di me sono vere; io guardo loro e mi chiedo chi sarà quello che prenderà la mia minima distrazione, la gonfierà fuori misura e la riferirà ai ragazzi per ottenere una risata e una pacca sulla schiena.

Centrale operativa C. Non ci entro da quando ero una recluta con il compito di controllare inutili non-piste per conto dei detective; l’avevo dimenticata. La luce bianca esplode dal soffitto alto, scivola e rimbalza sulla lavagna bianca e sulle alte finestre. I computer, allineati e pronti all’azione, riempiono l’aria del loro ronzio. Le scrivanie lucide hanno angoli cosí netti che ti ci potresti tagliare un dito. Appena supero la soglia, quella stanza mi toglie di dosso la fatica come se fosse polvere e mi ricarica fino a elettrizzarmi. Lí dentro puoi risolvere anche il caso di Jack lo Squartatore. E stavolta non sono la recluta che deve saltare ogni volta che il capo schiocca le dita; stavolta sono io il capo, e tutto questo è a mia disposizione. Per un attimo quella stanza mi fa tornare l’amore per il lavoro, un amore duro, acerbo, doloroso, che ricresce da zero.

Il viso di Steve, con le labbra aperte in un mezzo sorriso come un ragazzino alle giostre, mi dice che si sente anche lui cosí. E questo mi fa tornare di colpo in me. Steve si scioglie per ogni cosa bella, senza pensare a come lo è diventata o a cosa c’è sotto. Io no.

Sbatto le mie carte sulla scrivania del comando, quella a un capo della stanza, lunga il doppio delle altre. – Signori, – dico ad alta voce. – Cominciamo. Di chi è questa? – Prendo una tazza di caffè dalla scrivania e la sollevo.

Breslin è appoggiato alla lavagna e tiene banco circondato da Deasy e Stanton, le reclute che hanno portato qui Rory, piú i due a cui abbiamo affidato il porta a porta (un tizio snello e nervoso di nome Meehan, ci ho già lavorato insieme e mi piace, e Gaffney, un nuovo arrivato con la faccia da pignolo e una postura cosí eretta che invece di un completo giacca e pantaloni sembra indossi una divisa da capoclasse). Breslin, o piú probabilmente qualcuno ai suoi ordini, ha già iniziato il lavoro sulla lavagna: foto di Aislinn, della scena del crimine e di Rory, una mappa di Stoneybatter. Ha anche tirato fuori un bloc-notes dalla copertina rigida che sarà il registro di lavoro, dove terremo la lista aggiornata delle cose da fare e di chi le fa. Abbiamo persino un bollitore elettrico.

– È mia, – dice Gaffney, allungandosi a prendere la tazza e ritirandosi in fretta, rosso in faccia. – Mi scusi.

– Meehan –. Gli lancio il blocco. – Registro di lavoro, ti va? – Lui lo prende al volo e annuisce. Steve mette la sua roba accanto alla mia e comincia a distribuire fotocopie: la trascrizione della chiamata iniziale, il rapporto degli agenti in divisa, la dichiarazione di Rory. Io vado alla lavagna e butto giú una rapida cronologia della notte scorsa. Le reclute prendono posto alle scrivanie e si fanno serie: il momento delle chiacchiere è finito.

– La vittima, – dico, toccando la foto di Aislinn con il pennarello. – Aislinn Murray, ventisei anni. Viveva da sola a Stoneybatter, faceva la receptionist in una ditta di forniture aziendali di prodotti per il bagno. Fedina penale pulita, mai una chiamata alla polizia. Aggredita ieri sera a casa sua: secondo l’esame preliminare di Cooper è stata colpita con un pugno in faccia e ha battuto la testa sul gradino del caminetto. I messaggi presenti sul suo cellulare indicano il momento della morte tra le 19.13 e le 20.09 –. Passo alla foto di Rory. – Quest’uomo, Rory Fallon, usciva con lei da un paio di mesi. Ieri sera era invitato a cena da lei alle otto.

– Che coglione, – dice Deasy, ridendo. – Una donna come quella, se proprio voleva ucciderla poteva prima scoparsela.

Risatine. Breslin si schiarisce la gola con un sorriso indulgente e inclina la testa verso di me. Le risatine si spengono.

Io dico: – Deasy, visto che ti importa tanto del suo benessere, la prossima volta che lo portiamo qui puoi fargli un pompino nei bagni.

Deasy si tocca i baffi e fa una faccia scura. Le risatine si fanno equivoche.

– Io, Moran e Breslin, – dico, – abbiamo appena fatto una chiacchierata con Fallon. La sua versione è questa: si è presentato alla porta di Aislinn alle otto, ha suonato ma lei non gli ha aperto, lui ha pensato di essere stato scaricato ed è tornato di corsa a casa a piangere sul cuscino.

– Stranamente, – interviene Breslin, ruotando la penna tra le dita, – noi non gli crediamo.

– La teoria sulla quale stiamo lavorando, – riprendo, – è semplice: Fallon arriva a casa della vittima intorno alle sette e mezzo, la situazione tra loro precipita in qualche modo e lui le dà un pugno. Forse pensa che sia solo svenuta; se ne torna a casa in fretta e spera che lei, quando si riprenderà, non lo denunci, o meglio ancora che la botta in testa le abbia procurato un’amnesia.

Breslin annuisce con approvazione a tutto ciò che dico, impartendo la sua benedizione alla teoria dei due novellini. – Piú omicidio colposo che omicidio vero e proprio, – dice. – Ma non è un problema nostro.

– Stamattina molto presto, – proseguo, – Fallon ha avuto un rimorso di coscienza, oppure ha parlato con un suo amico che poi ha voluto fare la cosa giusta. Un uomo ha fatto una telefonata anonima alla stazione di polizia di Stoneybatter, dicendo che c’era una donna ferita al 26 di Viking Gardens, e ha chiesto di mandare un’ambulanza.

– Personalmente, scommetto che è stato Fallon a chiamare, – dice Breslin. – È proprio il tipo che dopo qualche ora non ce la fa piú e cerca di aggiustare le cose quando ormai è troppo tardi.

– Il numero da cui proveniva la chiamata appare come numero privato, – dice Steve. – Chi se ne occupa?

Tutti alzano la mano. – Tranquilli, ragazzi, – dice Breslin con un sorriso. – Ce n’è per tutti.

– Gaffney, pensaci tu, – dico. È una specie di pacca sulla spalla, dopo la sgridata per la tazza di caffè. Meehan scrive sul blocco nome e compito assegnato. – Stanton, Deasy: voi due dovevate controllare la lista dei conoscenti di Fallon. Come sta andando?

– Nessuna sorpresa, – risponde Stanton. – Madre, padre, due fratelli piú grandi, niente sorelle; un gruppetto di amici dai tempi della scuola e dell’università, quasi tutti professori di Storia, bibliotecari, cose del genere. Le mando tutto via e-mail.

– Benissimo. Detective Breslin, hai già cominciato a contattare i nomi su quella lista, giusto?

– Tutti e due i fratelli di Fallon hanno manifestato il livello di shock appropriato. Tutti e due sapevano del grande appuntamento di Rory, ma dicono di non sapere altro; stavano aspettando di conoscere i particolari piccanti. Tutti e due sostengono di non aver chiamato la stazione di Stoneybatter, né stamattina, né mai, ma è ovvio che lo dicano. Ho fissato incontri separati qui con loro dopo questa riunione, per parlarne un po’ meglio.

Cosí scopro che Breslin ha deciso di allungare il turno, per un semplice caso di routine.

– Se non ne viene fuori nulla, continuiamo ad andare avanti con la lista, – dico. – Partiamo da tutti i conoscenti che abitano lungo la strada che Rory ha seguito per tornare a casa. Magari ieri sera ha fatto una visita a sorpresa a uno di loro. E già che ci siamo, registriamo i colloqui con i fratelli e gli amici intimi. Dobbiamo far sentire le loro voci e quella di Fallon al collega di Stoneybatter che ha preso la chiamata, per vedere se ne riconosce una. Breslin, puoi seguire tu questa parte?

Per un attimo penso che Breslin stia per dirmi dove posso ficcarmi quel lavoro da reclute. Invece dice: – Perché no? – anche se con una smorfia sulle labbra.

– Grande, – dico. – Ci serve anche qualcuno per controllare i video delle telecamere di sorveglianza. Ci mettiamo Kellegher e Reilly. Visto che li stanno già raccogliendo, se li guardano anche.

Meehan annuisce e scrive.

– Qualcuno deve anche occuparsi delle telecamere sulla linea 39A: rintracciate gli autobus di quella linea che si sono fermati in Morehampton Road intorno alle sette, vedete se riuscite a trovare una ripresa di Rory Fallon che sale a bordo e controllate a che ora precisa è sceso a Stoneybatter –. Il palestrato alza un dito. Questo ritmo serrato, che mi piaceva tanto, mi colpisce ancora come un triplo espresso. – Se ne occupa Stanton. E ci serve qualcuno che vada a Stoneybatter e prenda i tempi della strada che Rory dice di aver seguito quando è sceso dal bus: da Astrid Road fino in cima a Viking Gardens, poi al Tesco di Prussia Street, il tempo di comprare un mazzo di fiori e ritorno a Viking Gardens. Meehan, tu hai all’incirca la stessa età e corporatura di Fallon. Ci pensi tu? Prendi i tempi due volte: una a passo normale, una al passo piú veloce possibile.

Meehan annuisce. Steve dice, spostando gli occhi tra lui e Gaffney: – I fiori di Rory sono ricomparsi in qualche cestino della spazzatura, sui viali?

– Ho guardato io, – spiega Meehan. – Gaffney ha continuato con il porta a porta. I cestini non erano ancora stati vuotati dopo la notte scorsa, a giudicare dallo stato in cui erano, ma niente iris da nessuna parte. Forse li ha presi qualcuno per darli alla sua donna.

– Oppure, – dice Breslin, – non sono mai stati in quei cestini, e Rory li ha gettati nel fiume, perché non voleva che trovassimo sul bouquet il sangue e i capelli di Aislinn o fibre della sua moquette. A che punto siamo con i conoscenti della vittima?

– Niente famiglia e poca vita sociale, – rispondo. – Ma la sua amica Lucy ci ha dato qualche nome e numero di telefono per cominciare. Qualcuno deve recarsi sul posto di lavoro di Aislinn, per chiedere al suo capo di venire qui a identificare il corpo e per parlare con i colleghi. Voglio sapere se aveva parlato loro di Rory e cosa aveva detto.

Steve aggiunge: – E vogliamo sapere se qualche collega aveva una cotta per lei. Nel caso improbabile che Rory dica la verità, – Breslin ride, – qualcuno può non essere stato contento che lei si fosse trovata un uomo. E i colleghi di lavoro erano le uniche persone con cui Aislinn passava del tempo.

Bella idea, penso. Se qualcuno ci vede fare qualcosa che non punta verso Rory, possiamo dire che stiamo cercando un potenziale collega stalker. E chi lo sa, potrebbe persino essere vero.

– Perché non ve ne occupate voi due, degli amori in ufficio? – suggerisce Breslin. – Intuizione femminile e tutto il resto.

– La mia intuizione femminile è in riparazione, – rispondo. – Si è rotto l’albero di trasmissione. Bisognerà fare del vero lavoro da detective. Deasy, Stanton, andateci voi, domattina presto.

– L’altra cosa in cui Aislinn impiegava il suo tempo erano i corsi serali, – dice Steve. – Forse è stato lí che ha attratto l’attenzione di uno stalker. Qualcuno deve scoprire che corsi ha fatto e stilare elenchi di tutti gli altri studenti, o come si chiamano quelli che frequentano quei corsi.

– Gaffney, pensaci tu, – dico. – Io e Moran ci occupiamo dei tabulati telefonici della vittima, delle sue e-mail, account social, eccetera.

– Su quelli posso cominciare io da stasera, – dice Breslin. – Non m’importa restare qualche ora in piú, se ci aiuta a chiudere questo caso una volta per tutte, ma non posso presentarmi dai conoscenti di Rory alle nove di sera. Perciò tanto vale che mi dedichi alla vita della vittima sui social.

Io e Steve incrociamo lo sguardo per una frazione di secondo, prima che lui abbassi la testa sul taccuino. Breslin forse sta solo cercando un modo per migliorare la sua reputazione stellare: tutti vogliono i dati digitali della vittima, perché spesso è lí che viene fuori qualcosa di buono. Ma forse vuole farmi fare la figura dell’idiota, incapace di trovare da sola gli indizi relativi al proprio caso. Oppure vuole far sparire tutto quello che trova riguardo a un amico nella malavita.

Meehan ha smesso di scrivere e sposta lo sguardo tra noi, incerto. – Io e Moran abbiamo già iniziato a occuparcene, – dico. – Siamo sul caso da ieri notte e ora ci serve qualche ora di sonno, ma ci ributtiamo sulla vita digitale di Aislinn domattina presto. Breslin, tu hai già iniziato con Rory Fallon, perciò tanto vale andare avanti cosí. Ci serve qualcuno che faccia una lista delle sue ex e controlli cosa dicono di lui, specialmente su cosa lo fa incazzare e come si comporta quando le cose non vanno come vuole lui. Se davvero puoi restare un po’ di piú, stasera, perché non cominci con quello?

Breslin ha una faccia come se avesse trovato un capello nella zuppa ma sapesse che è inutile protestare con il cameriere. – Perché non comincio con quello, – dice.

– Ottimo, – dico io. Dopo un altro secondo di pausa, la penna di Meehan riprende a muoversi. – Detective Gaffney, questo è il tuo primo caso di omicidio, giusto?

– È cosí –. Gaffney viene da qualche posto dove l’attività prevalente riguarda le pecore.

– Bene, – dico, inviando un grazie mentale al capo per averci mandato reclute senza esperienza. – Per il momento resta vicino al detective Breslin: ti mostrerà le basi del lavoro e ti aiuterà a orientarti –. Breslin fa un cenno cordiale a Gaffney, niente obiezioni; ma non significa nulla. – Puoi fare anche tu un po’ di straordinario, stasera?

Gaffney drizza ancora di piú la schiena. – Certo. Assolutamente.

– Qualcuno che non può? – Nessuno si muove. – Bene. Abbiamo bisogno anche di controllare le finanze di Aislinn; Gaffney, comincia tu. È una cosa che ti troverai davanti comunque, quando dovrai verificare quali corsi serali ha pagato.

Breslin sospira, abbastanza forte da chiarire che sto sprecando tempo e risorse. Steve dice, rivolto a tutti: – Non abbiamo ancora un movente. La storia d’amore finita male è il piú ovvio, ma non possiamo escludere un motivo finanziario. Rory ha detto che la sua libreria sta attraversando un brutto momento, e Lucy Riordan, l’amica di Aislinn, ci ha detto che la vittima aveva del denaro da parte. Rory può averle chiesto di investire qualche migliaio di euro nella libreria ed essersela presa a male quando lei ha rifiutato. O qualcosa del genere.

Breslin scrolla le spalle. Ha cominciato a fare ghirigori in un angolo del suo taccuino.

– Ci serve anche la situazione finanziaria di Rory, – dico. – Gaffney, già che ci sei pensa tu anche a questo. Poi qualcuno deve rivolgersi alla compagnia telefonica per rintracciare tutti i posti in cui è stato il telefono di Rory la notte scorsa. Deasy, ce l’hai un contatto decente alla Vodafone? Bisogna anche convalidare l’alibi di Lucy Riordan, parlando con lo staff del Torch Theatre. Stanton, pensaci tu. Qualcuno vada a parlare con il personale del Market Bar e del Pestle, per vedere se ricordano qualcosa di quando Rory e Aislinn si sono visti in quei locali. Meehan, va bene? Bisogna mandare all’autopsia uno degli agenti in divisa presenti sulla scena: Deasy, fallo tu. L’autopsia sarà domattina sul presto; fa’ in modo che l’agente non arrivi in ritardo, sennò Cooper avrà un attacco di diarrea dalla rabbia –. Risatine da tutti quelli che già conoscono Cooper. – Io e Moran contattiamo la Scientifica e ci facciamo dare gli ultimi aggiornamenti. Ci saranno altre cose, ma intanto questo è abbastanza per partire. Domande?

Tutti scuotono la testa. Sono già pronti ai blocchi di partenza.

– Bene, – dico. – Cominciamo.

Meehan chiude di scatto il registro di lavoro. Tutti spostano l’attenzione su scrivanie, telefoni, sulla dichiarazione di Rory, in una specie di gara a chi si metterà in pista per primo. La centrale operativa C è percorsa da una corrente di energia che rimbalza sulle scrivanie lucenti e sulle finestre.

E sotto tutto questo, il ronzio feroce nella mente mia e di Steve, che spinge per uscire allo scoperto. La testa bionda e imbrillantinata di Breslin è china sul suo taccuino, ma quando avverte il mio sguardo alza gli occhi e mi fa un gran sorriso.

Steve scrive il rapporto per il capo mentre io esamino quello che hanno portato le reclute. Sono tutti piuttosto competenti, anche se Deasy fa errori d’ortografia e Gaffney sente il bisogno di condividere ogni particolare di qualsiasi cosa, che sia rilevante o meno. («La testimone spiega che stava portando la figlia Ava, di otto anni, a visitare il nonno, ricoverato al St James’s Hospital dopo un grave infarto, quando ha visto la Murray scendere dall’auto…»)

Dal porta a porta non è emerso nulla di interessante: Aislinn era cordiale con i vicini, niente cattivo sangue per via di spazi di parcheggio o rumori molesti, ma non era amica di nessuno; alcuni abitanti della zona hanno visto una donna che corrisponde alla descrizione di Lucy Riordan entrare e uscire da casa di Aislinn di tanto in tanto; nessuno ha mai visto altri visitatori. Aislinn non ha mai detto di avere un uomo. La vedevano uscire di sera tutta in tiro, abbastanza spesso, ma non essendo in confidenza con lei non hanno idea di dove andasse e cosa facesse. La coppia anziana al numero 24 non ha sentito nulla ieri sera, ma sono tutti e due duri d’orecchio; la coppia giovane al 28 ha sentito Beyoncé ad alto volume, precisando che Aislinn aveva abbassato il volume o spento la musica poco prima delle otto; sono stati precisi su questo perché alle otto mettono a dormire il figlio piccolo, e hanno apprezzato il controllo del volume proprio a quell’ora. Dopodiché, non hanno piú sentito alcun rumore.

L’uomo anziano che abita al numero 3 conferma in parte la versione di Rory: stava uscendo per portare fuori il cane (un terrier maschio dal pelo bianco di nome Harold, specifica Gaffney), poco prima delle otto di ieri sera, e ha visto un uomo corrispondente alla descrizione di Rory svoltare in Viking Gardens. Quando è tornato dalla passeggiata, circa un quarto d’ora dopo, l’uomo era ancora lí, in fondo alla strada, e sembrava occupato con il cellulare. In quei quindici minuti nessun altro vicino di casa è uscito in strada; Viking Gardens è un quartiere di anziani e di giovani coppie, quindi poco inclini ad andare a massacrarsi il sabato sera. Questo significa che Rory può essere entrato in casa, aver ucciso Aislinn ed essersi trovato di nuovo fuori alle otto e dieci, in tempo per costruirsi una storia di copertura a base di sms e messaggi in segreteria. Ma io non ci credo. La parte che lo rendeva nervoso era un’altra, quella prima della deviazione da Tesco. E a quell’ora in strada non c’era nessun vicino che possa confermare o meno la sua storia.

Steve sta ancora scrivendo al computer. Breslin è andato a parlare con i fratelli di Rory, portandosi dietro Gaffney e inondandolo di saggi consigli; Meehan, con il cappotto abbottonato fino al collo, è andato a prendere i tempi dei percorsi a piedi a Stoneybatter; Deasy si sta facendo due risate con il suo contatto alla Vodafone, mentre Stanton spiega le norme legali a qualcuno dell’amministrazione degli autobus. Le loro voci rimbalzano dagli angoli della stanza e il troppo spazio le rende un po’ indistinte. Le finestre sono buie.

Il mio telefono squilla. – Conway, – rispondo.

È O’Kelly: – Tu e Moran nel mio ufficio. Voglio un aggiornamento.

– Arriviamo, – dico, e lui riattacca. Guardo Steve, che sta dando un’ultima controllata al rapporto. – Il capo vuole vederci.

Steve alza la testa e batte le palpebre. Ciascun movimento dura diversi secondi: è già addormentato per due terzi, e per una volta dimostra gli anni che ha. – Perché?

– Vuole un aggiornamento.

– Oh, Gesú –. Il capo vuole aggiornamenti di persona quando lavori a un caso grosso, e questo non lo è, o quando ci stai mettendo troppo a chiuderne uno, ma un giorno è troppo poco, anche se sei sulla sua lista nera. Perciò la chiamata non può essere niente di buono.

Le voci di corridoio dicono che io sono entrata in squadra perché lui aveva bisogno di barrare le caselle, e con me ne poteva barrare due al prezzo di una. E queste sono le voci gentili. Ma sono tutte stronzate. Quando il capo mi ha presa a bordo, gli mancava un detective (uno dei suoi uomini migliori era andato in pensione in anticipo) e io ero la star in ascesa della squadra Persone scomparse, con un bel numero di casi risolti di alto profilo. Avevo ricevuto da poco dei titoli sui giornali per via di un caso in cui avevo svolto tutti i tipi possibili di lavoro da detective: rintracciare ping telefonici e login su wi-fi, convincere i familiari e costringere gli amici a darmi informazioni, per ritrovare un papà scaricato che era scappato con i due figli piccoli, dopodiché gli avevo parlato per quattro ore di fila, fino a persuaderlo a uscire dalla macchina con i figli invece di gettarsi in mare con loro da un molo. Insomma, all’epoca ero un buon acquisto. Sia io, sia il capo, avevamo tutti i motivi di pensare che il mio ingresso nella squadra sarebbe stata un’ottima cosa.

O’Kelly sa cosa succede, so che lo sa, ma non ha mai detto una parola: si limita a guardare e aspettare. Nessun capo vuole un trattamento del genere nella sua squadra, le voci insidiose negli angoli, il veleno che incombe sulla sala detective come una cappa di smog. Qualsiasi persona nella sua posizione a questo punto cercherebbe un modo per liberarsi di me.

Steve clicca «Stampa» e la stampante si mette al lavoro con un dolce ronzio, niente a che vedere con l’ansito da piede nella fossa della stampante in sala detective. Troviamo dei pettini, ci sistemiamo i capelli e spazzoliamo un po’ le giacche. Steve ha una macchia blu sulla camicia ma non ho cuore di dirglielo, per evitare che nello sforzo di pulirla ci lasci la pelle. Immagino che lui faccia lo stesso con le macchie di pennarello che devo avere in faccia io.

Uno dei motivi per cui non mi fido di O’Kelly è che il suo ufficio è pieno di pacchianate: un disegno infantile incorniciato con la scritta «miglior nonno del mondo», trofei di golf di tornei condominiali o poco piú, un giocattolo lucente da manager, nel caso non avesse niente da fare in ufficio, e pile di fascicoli polverosi che non si muovono mai. L’impressione generale è quella di un burocrate superato dai tempi, che passa le giornate perfezionando il suo swing al golf, lucidando la targa con il proprio nome e inventando trucchi per scoprire se qualcuno ha toccato la sua bottiglia nascosta di single malt. Ora, se O’Kelly fosse davvero cosí, non dirigerebbe la Omicidi da quasi vent’anni. L’ufficio dev’essere un trucco, per indurre le persone ad abbassare la guardia. E le uniche persone che ci entrano sono quelli della squadra.

O’Kelly è seduto rilassato sulla sua sedia ergonomica di lusso, con le mani appoggiate sui braccioli. Sembra una specie di dittatore di una repubblica delle banane in procinto di concedere udienza. – Conway, Moran, – dice. – Parlatemi di Aislinn Murray.

Steve gli tende il rapporto come un pezzo di carne davanti al muso di un cane aggressivo. Il mento di O’Kelly indica la scrivania. – Lascialo lí, lo leggo dopo. Ora voglio sentirlo da voi.

Non ci ha invitati a sederci (il che può essere un buon segno: non ci vorrà tutta la notte), quindi restiamo in piedi. – Stiamo ancora aspettando l’autopsia, – dico. – Ma dopo l’esame preliminare Cooper ha detto che qualcuno le ha dato un pugno in faccia e lei ha battuto la testa sul caminetto. Aveva invitato a cena un uomo, Rory Fallon, il quale ammette di essersi trovato sul posto nel periodo di tempo rilevante, ma sostiene che lei non gli abbia aperto la porta, e di aver scoperto che era morta solo quando glielo abbiamo detto noi questo pomeriggio.

– Ah, – dice O’Kelly. La luce cruda della lampada da tavolo gli getta ombre nette sul viso, nascondendogli un occhio e rendendo non interpretabile la sua espressione. – Gli credete?

Scrollo le spalle. – Metà e metà. La nostra teoria è questa: lei gli ha aperto, hanno avuto una lite per qualche motivo e Fallon le ha dato un pugno. Ma forse è vero che non sapeva che fosse morta.

– Avete delle prove concrete?

Meno di dodici ore sul caso, e mi tocca una lavata di testa perché non ho una corrispondenza del Dna. Metto le mani nelle tasche della giacca, per reprimere l’impulso di sbattere sul pavimento la stupida pianta ragno che tiene sulla scrivania.

Prima che possa aprire bocca, Steve dice: – La Scientifica ha già il cappotto e i guanti che Fallon sostiene di aver indossato la notte scorsa, e stiamo controllando la strada che ha fatto per tornare a casa, nell’eventualità che abbia gettato via qualcosa. Ci ha dato il permesso di guardare in casa sua e prendere i capi d’abbigliamento che ci sembrano interessanti, e un paio di ragazzi sono già sul posto. Secondo i tecnici, se lui è il nostro uomo abbiamo una buona possibilità di trovare sangue o cellule epiteliali, o una corrispondenza di fibre tessili con quelle che hanno trovato sul cadavere.

– Io ho chiesto a un mio contatto di affrettare gli esami, – dico, mantenendo un tono calmo. Dovremmo avere i risultati preliminari già domattina. Le faremo sapere.

O’Kelly unisce le punte delle dita e ci osserva. – Breslin pensa che dovreste smettere di sprecare il tempo di tutti e arrestare quel bastardo, – dice.

– Non è un caso di Breslin, – dico io.

– Significa che avete dei dubbi, o che volete mostrare a tutti che non vi fate comandare a bacchetta da Breslin?

– Se qualcuno è cosí stupido da pensare che Breslin possa comandarci a bacchetta, provare che si sbaglia sarebbe tempo perso.

– Allora avete dei dubbi.

Nel buio, fuori dalla finestra, si è alzato il vento. Dal suono sembra un vento ampio, da campagna, che soffia per chilometri senza nessun ostacolo, come se questo edificio sorgesse in mezzo al nulla. Dico: – Effettueremo l’arresto quando saremo pronti a farlo.

O’Kelly insiste: – Dubitate di avere abbastanza per ottenere una condanna, o dubitate che sia lui il colpevole?

Guarda me, non Steve. Rispondo. – Dubitiamo di essere pronti per arrestarlo.

– Non hai risposto alla mia domanda.

Scende il silenzio. L’unico occhio visibile di O’Kelly, metallico alla luce della lampada, non batte ciglio.

Alla fine dico: – Credo che sia il nostro uomo. Ma non intendo arrestarlo basandomi solo sulla mia sensazione. Se è un problema, ci tolga il caso e lo dia a Breslin. Glielo cedo volentieri.

O’Kelly ci fissa negli occhi per un altro minuto. Io non abbasso lo sguardo. Poi dice: – Tenetemi aggiornato. Voglio un rapporto completo sulla mia scrivania tutte le sere. Se viene fuori qualcosa di serio, non aspettate il rapporto e fatemelo sapere subito. È chiaro?

– Chiarissimo, – dico. Steve annuisce.

– Bene, – dice O’Kelly. Allontana la sedia dalla scrivania, la gira verso una pila di fascicoli e comincia a sfogliarne uno. La polvere si solleva nel cono di luce della lampada. – Ora andate a dormire. Le vostre facce sono ancora peggio di stamattina.

Steve e io aspettiamo di essere tornati nella centrale operativa, con la porta chiusa, prima di guardarci in faccia. Lui dice: – Che diavolo succede?

Io prendo il soprabito dallo schienale della sedia e lo indosso. Appena siamo entrati le reclute hanno accelerato il ritmo, e la sala è tutto un ticchettare di tasti e frusciare di carte. – Succede che il capo ci mette i bastoni tra le ruote. Non ti era chiaro?

– Sí, ma perché? Non gliene è mai fregato un tubo di un nostro caso, a meno che non si trattasse di romperci le palle perché non lo avevamo risolto abbastanza in fretta, secondo lui.

Mi giro la sciarpa intorno al collo e infilo i capi sotto il bavero: il buio fuori dalle finestre dice che là fuori fa un bel freddo. O’Kelly ha tolto il lustro alla nostra idea brillante: gangster e poliziotti corrotti sembrano un salto da ginnasti, comparati al semplice tentativo di indurmi a sbagliare per fregarmi. – Sí, e dopo le rotture di palle io sono ancora qui. Forse il capo ha deciso di alzare la posta.

– Oppure, – dice Steve, piano. Non ha ancora cominciato a raccogliere la sua roba; è in piedi davanti alla scrivania, con un dito batte un ritmo pensieroso sul bordo. – Se per esempio si è chiesto le stesse cose che ci stiamo chiedendo noi adesso, magari già da un po’, ma non vuole dire nulla finché non è sicuro…

– Io vado a casa, – dico.

Da fuori, casa mia somiglia molto a quella di Aislinn Murray: una casa a schiera a un solo piano, in stile vittoriano, con muri spessi e soffitti alti. È decisamente adatta a me: quando invito qualcuno a dormire, cosa che non succede spesso, al mattino sono nervosa e non mi piace sentire la mancanza di spazio. Qui, secondo il censimento del 1901, una coppia ha cresciuto otto figli.

Dentro, casa mia non ha un cazzo in comune con quella di Aislinn. Ho lasciato i pavimenti originali in legno (li ho levigati e lucidati personalmente, quando ho comprato la casa) e il caminetto vero, niente imitazioni con la fiamma a gas; i muri sono stati raschiati fino a mettere a nudo i mattoni (anche quello l’ho fatto io) e poi imbiancati. Il mutuo e le rate della macchina si mangiano buona parte del mio stipendio, perciò l’arredamento è un misto di Oxfam e Ikea, ma almeno non c’è nulla a quadretti.

Getto la cartella sul divano, spengo l’allarme e accendo la macchina del caffè. Ho un messaggio della mia amica Lisa: «Siamo al pub, vieni!» Rispondo: «Ho fatto il doppio turno, sto crollando». È la verità, sono in piedi da piú di ventiquattr’ore e gli occhi non mettono a fuoco bene, ma una pinta e due risate con un gruppo di persone che non mi considerano una merda me li sarei anche potuti fare. Solo che è proprio questo il motivo per cui non ci vado. Se passi abbastanza tempo a farti trattare come se avessi addosso un cartello con scritto «trattatemi di merda», cominci a temere che il cartello sia diventato reale e lo possano vedere tutti quelli con cui parli. Nella testa dei miei amici, io sono Antoinette la superpoliziotta, intelligente, dura, di successo, una contro la quale è meglio non mettersi. E voglio che la mia immagine resti cosí. Negli ultimi mesi ho rifiutato parecchie pinte.

Inoltre, ci sono buone possibilità che al pub con il gruppo ci sia anche il mio amico che ha la ditta di sorveglianza, e non voglio che mi offra di nuovo il lavoro. Non intendo accettarlo, almeno non stasera, con la sfida che ancora mi brilla davanti agli occhi, ma non voglio nemmeno che ritiri l’offerta.

Dovrei mangiare qualcosa e mettermi a letto, ma detesto perdere tempo dormendo ancora di piú di quanto detesti perderlo in cucina. Metto nel microonde un piatto pronto a base di pasta, e mentre si scalda chiamo mia madre, come faccio tutte le sere, non so bene perché. Mia madre non è il tipo che ama parlare dei suoi problemi alla schiena, o di cosa fanno i figli delle sue amiche o di quello che ha trovato mentre vuotava il cestino della spazzatura di qualche manager, e quindi non le resta molto da dire. Io, quando sono di buon umore, le faccio un riassunto super sintetico della mia giornata. Quando sono di cattivo umore le do tutti i particolari: com’erano le ferite, cos’hanno detto i genitori tra le lacrime. A volte, mentre sono sulla scena, mi sorprendo a immaginarmi mentre le racconto qualche dettaglio veramente brutto, pensando che sarà la cosa che finalmente provocherà una sua reazione, almeno un respiro improvviso o una secca richiesta di non andare oltre. Finora, non ci sono mai riuscita.

– Come stai? – dice subito. Sento lo scatto di un accendino. Fuma sempre una sigaretta mentre parliamo. Quando la spegne, riattacchiamo.

Io schiaccio il bottone per un espresso. – Bene, e tu?

– Novità?

– Io e Moran ci siamo occupati di una rissa in strada. Due ubriachi ne hanno aggredito un altro, gli hanno ballato sulla testa. Un occhio della vittima era schizzato sul sentiero.

– Ah, – commenta mia madre. – Qualcos’altro di strano?

Non mi va di parlare di Aislinn. È un caso con troppa merda che gli gira intorno, troppa roba che non so ancora come gestire; non parlo a mia madre di cose che non ho inquadrato bene. – No, niente. Lisa mi ha invitato al pub per una pinta con i ragazzi, ma sono distrutta. Vado a letto.

Mia madre lascia passare un attimo di silenzio, giusto per farmi capire che non me la cavo cosí, poi dice: – Marie Lane mi ha detto che sei sul giornale.

Ovviamente. – Ah, sí?

– E non per una rissa. Per una giovane che è stata uccisa in casa. Il giornale ti faceva fare uno schifo di figura.

Cambio la cialda nella macchina e schiaccio di nuovo il tasto dell’espresso: me ne serve uno doppio. – È solo un omicidio di routine. È arrivato sul giornale perché la donna era una bionda con una tonnellata di trucco. E il giornalista non ha simpatia per me. Fine della storia.

Molte madri a questo punto avvertirebbero la debolezza e tenterebbero di succhiarne fino all’ultima goccia. Non la mia. Lei voleva solo farmi capire chi comanda, in questa conversazione, e chi deve imparare a fare meglio di cosí, se vuole fregare una professionista della menzogna. Ora che ha chiarito il punto, cambia discorso. – Lenny mi ha chiesto di nuovo se può venire a stare da me.

Lenny e mia madre stanno insieme da nove anni, in cui si sono lasciati e ripresi varie volte. Lui è un tipo a posto. – E tu?

Lei emette una risata rauca e uno sbuffo di fumo. – Io gli ho chiesto se stava scherzando. Se volessi le sue mutande sporche nella mia stanza da letto, ci sarebbero già. Comunque non parla sul serio; non vuole piú mangiare quello che cucino io, preferisce cenare al fish and chips…

Mi fa ridere parlando di Lenny finché finisce la sigaretta, e riattacchiamo. Arriva uno squillo dal microonde. Mi porto il piatto di pasta e il caffè sul divano e apro il laptop.

Esploro i siti di appuntamenti, una cosa che al lavoro non farei nemmeno morta. Un’occhiata da dietro le mie spalle o una ricerca sulla cronologia mentre io non ci sono, e sento già le battute: «Gesú, ragazzi, Conway frequenta i siti di appuntamenti!» «Certo, stronzefrigide.com». «C’è mercato per qualsiasi cosa, al giorno d’oggi». «Anche per lei? Stai scherzando?» «Ehi, comunque i pompini li sa fare, sennò non sarebbe qui. Può metterlo sul suo profilo». Ma se il nostro principe azzurro esiste davvero, Aislinn deve pur averlo trovato da qualche parte. I compagni di lavoro e dei corsi serali non comprendono il crimine organizzato, e lei non aveva una grande vita sociale, a giudicare da ciò che dicono il suo telefono e la sua amica Lucy. A meno che non si fosse trovata un malavitoso che voleva imparare a lavorare all’uncinetto, internet resta l’ipotesi migliore.

Con un indirizzo e-mail usa e getta, la descrizione di Aislinn e la foto di una bionda sorridente presa da Google Immagini apro una serie di account, nel caso che il nostro uomo abbia un tipo fisico preferito e stia già cercando una sostituta. Resto a curiosare per un po’. In quei siti si usano nickname, non nomi veri: j-wow79, footballguy12345, e simili. Inoltre la descrizione di Aislinn si adatta alla metà delle donne presenti. Uso filtri di ricerca per età e tipo e osservo un mare di bionde con la faccia da oca finché mi si incrociano gli occhi, ma di lei non c’è traccia. «Io credo che nella vita da essere positivi, quello che ci aspeta ci troverà lol»; «Mi piacciono il romanticismo, la spontaneità, il rispetto, la sincerità, l’autenticità, la buona conversazione»; «Cerco qualcuno con cui chattare, segui l’impulso e messaggiami, non si sa mai cosa può succedere!!!»

La mia pasta ora è fredda e attaccaticcia, ma ingoio lo stesso l’ultimo boccone. Fuori dalla finestra la strada è buia, i lampioni perdono la battaglia contro la notte. Il vento prende a pugni un sacchetto di carta del fish and chips, lo sbatte contro un muro, lo tiene lí per un secondo, poi lo ributta in strada. Passa la vecchietta del 12, spingendo il suo carrello per la spesa a motivi scozzesi, con il foulard ben stretto in testa.

Passo alle foto di maschi e cerco un viso che mi risulti familiare, uno che magari ho visto al lavoro o su un articolo di giornale. Non trovo niente. Non che un malavitoso di alto profilo metterebbe la propria foto su un sito di appuntamenti. «È la mia prima volta su un sito del genere, non so bene cosa dire, cerco una donna rilassata, niente drammi, buon senso dell’umorismo…» «Sono un po’ matto e un po’ selvaggio, se pensi di potermi reggere, mandami un messaggio!!»

Mi stanno già irritando. Sono tutti cosí bisognosi, saltano su e giú agitando le braccia e scodinzolando: «Guardami, guardami. Ti piaccio? Mi vuoi? Ti prego, di’ di sí». E quelli esigenti sono quasi peggio: «Cerco una persona alta, snella, in perfetta forma, no fumo, no droghe, no bambini, no cani e gatti, con un lavoro fisso, che parli tre lingue, ami il bikram yoga e l’acid jazz…» È come voler ordinare un partner da un menu à la carte, solo perché ovviamente devi avere un partner, tanto quanto devi avere un impianto stereo di ultima generazione e un’auto nuova e di un certo livello, ed è importante specificare che non ti accontenterai di nulla di meno di ciò che hai chiesto. Rispetto solo le persone che sono qui per affari: bombe sexy ucraine in cerca di uomini di mezza età da sposare. A tutti gli altri prescriverei un calcio in culo e una flebo di autostima.

Nessuno ha bisogno di una relazione. Quello di cui hai bisogno è un minimo di buon senso per capirlo, anche se tutti i media strillano che da solo non sei nessuno e se non sei d’accordo sei strano e pericoloso. La verità è che, se per esistere hai bisogno di qualcun altro, significa che non esisti. E non vale solo per le relazioni romantiche. Io voglio bene a mia madre, ai miei amici. Se uno di loro mi chiedesse di donargli un rene o di dare un fracco di botte a qualcuno che gli dà fastidio, lo farei senza esitare. Eppure, se tutti loro domani sparissero dalla mia vita senza preavviso, sarei la stessa persona che sono oggi.

Vivo dentro la mia pelle. Quello che succede fuori non cambia la persona che sono. Non è una cosa di cui vado fiera, è semplicemente quello che considero il minimo sindacale per potersi definire un essere umano adulto, piú o meno come la capacità di fare il bucato o cambiare un rotolo di carta igienica. Tutti quegli idioti sui siti web, che supplicano altre persone di tirare i loro fili da marionette per farli muovere e renderli reali, mi fanno vomitare.

Ho già due messaggi privati. «Ciao, come va? Guarda il mio profilo e dimmi se vuoi chattare». Il tizio ha ventitre anni e lavora nella tecnologia informatica: un candidato improbabile per essere l’amante segreto di Aislinn. «Ciao bella donna, mi piacerebbe scoprire cosa c’è sotto quel fantastico esterno. Io: spiritualmente evoluto, molto creativo, mi piace viaggiare per il mondo, molti mi dicono che dovrei scrivere un romanzo sulla mia vita. Sei intrigata? Parliamoci». Riconosco la foto del profilo: è uno che ho arrestato perché si masturbava su un autobus, quando ero ancora in divisa. Questa città è piccola. Mi faccio un appunto mentale di controllare cos’ha fatto di recente, quando ne avrò il tempo, ma non ora: non è lui. Lucy non si sarebbe fatta impaurire da uno cosí.

Sono arrivata al punto in cui il monitor si piega e mi balla davanti agli occhi. Butto giú ciò che resta del caffè, ormai freddo da un pezzo, entro in un vecchio account e-mail e clicco su «Scrivi messaggio».

«Ciao tesoro, come va? È passato troppo tempo, mi piacerebbe rivederti quando hai un momento libero. Fammi sapere. A presto, baci. Rach».

L’indirizzo del mittente è «rachelvodkancoke». Rileggo, ma non clicco su «Invia».

La luce nella stanza cambia tono: le lampade a sensori di movimento nel cortile posteriore si sono accese. Mi alzo, spengo le luci interne e mi avvicino di lato alla finestra della cucina.

Nulla. Solo il patio. La luce bianca e le ombre ondeggianti gli dànno un’aria sinistra: lastricato in pietra, alti muri di cinta, la traccia diffusa del punto in cui c’era un rampicante, il buio incombente tutto intorno. Per un attimo mi sembra di vedere un movimento oltre il muro, la cima di una testa che si affaccia nel vicolo. Ma in un batter d’occhio non c’è piú.

Mi esplodono in testa mille pensieri. Penso a Aislinn, una giovane single con un cottage a Stoneybatter, accesso posteriore dal vicolo. Penso all’intruso che è scappato scavalcando il muro di cinta non appena si è accorto di essere stato scoperto. Penso a Crowley che ha sbattuto la mia foto in prima pagina, nel caso qualcuno avesse voglia di aspettarmi fuori dal Dublin Castle per seguirmi fino a casa.

Spengo le luci della veranda e controllo la pistola. Poi apro di scatto la porta posteriore, corro in cortile, poggio il piede su una sporgenza del muro, mi do una spinta e mi ci siedo sopra.

Sono pronta a trovarmi davanti chiunque, da un tossico a Freddy Krueger. Mi trovo davanti solo il vicolo, stretto e male illuminato dal lampione sulla strada. Ai bordi solo ombre e pacchetti vuoti di patatine, sul muro il logo di un graffitaro di ultimo livello scarabocchiato in blu. Ascolto: sento un rumore come di passi di corsa sulla strada, ma potrebbe essere solo il vento che sbatte in giro dei rifiuti.

Il moto di rabbia che provo è un po’ per la delusione – la volevo proprio, una lotta – e un po’ per essere cosí idiota. Anche se questo caso magicamente si trasforma nell’omicidio di riscaldamento di un serial killer, stasera lui è a casa a godersi un meritato riposo, non fuori in cerca d’azione. La testa che ho visto nel vicolo può essere un’allucinazione dovuta alla stanchezza o un ubriaco che si è fatto una pisciata, e il mio sensore di movimento è scattato per via del vento, o di un gatto randagio in cerca di cibo.

Torno al mio laptop. Resto seduta a lungo con un dito sul tasto, ascoltando il rumore del vento e tenendo d’occhio la cucina. Poi alla fine schiaccio «Invia».