7.
Io e Steve ci dirigiamo verso il parcheggio della polizia, per prendere la nostra brutta Kadett. La rete di stradine pedonali dietro il Dublin Castle è affollata: studenti con il doposbronza che si trascinano verso il Trinity College, tipi vestiti da uomini d’affari che parlano troppo forte con in mano telefoni troppo grandi, cosí possiamo tutti restare ammirati dai loro acquisti immobiliari in Bulgaria, mammine in giro per shopping e coatti in giro per soldi. Essere in strada, dove qualsiasi pericolo non è un fatto personale, è una bella sensazione, e per questo lo odio.
– Allora, – dico, non appena siamo al sicuro in mezzo alla gente. – Breslin oggi non vuole compagnia. Vuole condurre gli interrogatori solo soletto.
– Gli interrogatori, – dice Steve, facendo un giro per evitare una coppia nel pieno di un problema relazionale in russo, – o qualsiasi altra cosa stia facendo. Poco prima del tuo arrivo, lo hanno chiamato al cellulare. Ha fatto una faccia cosí –. Steve serra la mandibola e allarga le narici, imitando un Breslin incazzato che cerca di non darlo a vedere. – È andato a parlare fuori dalla sala. Ma mentre usciva l’ho sentito dire: «Non chiamarmi a questo numero».
Steve ha ragione. Forse non si tratta degli interrogatori. Forse deve fare cose, o incontrare persone, e non vuole Gaffney come testimone. La mia adrenalina schizza in alto.
– Vuoi sapere cos’ha fatto ieri sera? – dico. – Ha provato a lisciare Sophie per farsi dare i rapporti della scena del crimine e i dati digitali di Aislinn.
Steve solleva le sopracciglia.
Io dico: – Forse non è nulla. Ho appena parlato con lui, ha detto che si annoiava ed era in cerca di qualcosa da fare. Naturalmente è andato subito a pescare le informazioni che potevano trasformarlo nell’eroe della storia. Ma…
– Ma voleva proprio quella roba.
– Sí. Tanto da farlo di nascosto da noi, pur sapendo che l’avremmo scoperto.
– Ha ottenuto qualcosa, da Sophie?
– No. E comunque c’è poco da ottenere. Ci sono macchie sul materasso di Aislinn, ma anche se riusciamo a estrarne il Dna e non è il suo, potrebbero essere vecchie di anni, e non c’è modo di saperlo. Comunque non risalgono a sabato scorso, altrimenti si sarebbero macchiate anche le lenzuola, che invece erano pulite –. L’adrenalina dentro di me si muove a una velocità che spinge i tipi con i grossi telefoni a togliersi dalla nostra strada. – L’unica cosa interessante è questa: ricordi i posti che hai chiesto a Sophie di controllare, tipo la testiera del letto e la tavoletta del water? Sono troppo puliti. Niente impronte, solo macchie. Sophie pensa che il nostro uomo possa aver ripulito la casa…
– Bel colpo! – Steve agita il pugno. – Non c’è motivo per cui Rory avrebbe dovuto ripulire dalle impronte la testiera del letto, visto che era appena entrato in quella casa per la prima volta.
– Sí, sí, sei un genio. Oppure Aislinn era una maniaca della pulizia. Sophie dice che è possibile anche questo.
Steve non si toglie dalla faccia l’espressione compiaciuta. – C’è altro?
– Vuoi dire altri segni che l’uomo segreto di Aislinn sia reale?
– Sí.
– Finora no. Non c’è traccia di lui su Facebook, sul cellulare di Aislinn o nelle sue mail –. Un tossico ha bloccato due turisti con gli zaini dall’aria persa e li sta molestando per farsi dare dei soldi. Io gli schiocco le dita davanti al viso e gli faccio segno di allontanarsi, senza rompere il passo o mostrargli il tesserino. Lui ci guarda e si toglie di torno, obbediente. – Se esiste, prendevano appuntamento telepaticamente per vedersi.
– Oppure Aislinn cancellava tutti i loro messaggi, – dice Steve. – O l’ha fatto lui. Ho appena iniziato il controllo incrociato dei tabulati, e sto ancora aspettando per le e-mail.
– Ci sono un paio di cose interessanti sul laptop, – gli dico. – Non ti agitare troppo, ma Aislinn ha fatto ricerche online su un paio di casi relativi alla criminalità organizzata. Francie Hannon e il tizio con la lingua tagliata.
Steve si volta di scatto a fissarmi. – Erano della gang di Cueball Lanigan. Tutti e due –. Sento che anche lui è stato preso dall’adrenalina che mi spinge ad aumentare il passo sulla strada pedonale. Anche la sua mente si è messa a lavorare ad alta velocità. – Ed erano tutti e due casi di Breslin. Se lui è finito sul libro paga di Lanigan, e se Aislinn si vedeva con uno della gang e la storia è finita male, la prima cosa che farebbe Lanigan…
– Ti ho appena detto di non agitarti troppo. Ho cominciato a sondare il terreno. Se Aislinn usciva con qualcuno della gang di Lanigan, lo saprò presto –. Steve ci resta male perché non mi apro con lui, ma pazienza. – L’altra cosa interessante sul laptop è che c’è una cartella di foto protetta da password, creata lo scorso settembre. Il nome è «Mutuo»…
Steve fa una risata e anch’io sorrido. – Sí, ovviamente è un tentativo di depistare eventuali ricerche. Sophie e i suoi stanno ancora tentando di decifrare la password; ci terranno aggiornati.
– Ne ha parlato anche con Breslin?
– No. E nemmeno io. E non penso di farlo.
Steve dice: – Quindi, da settembre Aislinn ha cominciato a preoccuparsi che qualcuno potesse frugare nel suo computer. Non può essere Rory, perché si sono conosciuti a dicembre, e lui non era mai stato in casa sua prima di sabato scorso.
– Forse, – dico. – O forse nella cartella ci sono selfie di lei nuda, e non era preoccupata di una persona in particolare: voleva solo evitare che, se un tossico le avesse rubato il laptop, quelle foto finissero su internet.
– Selfie che si era scattata per chi?
– Forse per gioco, forse per fare un po’ di soldi extra, o per uno dei suoi ex, o magari per ricordarsi di com’era bella, quando fosse diventata vecchia e piena di rughe.
– O si tratta di foto di lei con l’uomo segreto, – dice Steve. – E non voleva che nessuno, compreso lui, sapesse che le aveva. Almeno per il momento.
Anch’io ho pensato la stessa cosa. – Ricatto.
– O un’assicurazione. Se stava con un malavitoso, forse aveva abbastanza testa per capire che la situazione poteva farsi pericolosa.
– Se, – dico. – Da adesso in poi, mi darai un euro ogni volta che dici un «se» riguardo a questo caso. Prima del weekend sarò ricca.
– Pensavo ti piacessero le sfide, – dice lui, sorridendo. – Ammettilo, dentro di te speri che io abbia ragione.
– È vero. Sarebbe un bel cambiamento.
– Quindi lo speri.
Rallentiamo il passo, dietro una coppia di anziani chiacchieroni. – Sí. Vorrei tanto che fosse vero.
Finora non l’avevo mai detto ad alta voce per scaramanzia. Come una ragazzina scema, o uno di quei piagnoni convinti che l’universo ce l’abbia con loro e qualsiasi cosa gli capiti si trasformerà in merda alla minima opportunità. Non sono mai stata cosí. È una novità. E stupida. Deriva dal dovermi continuamente guardare intorno alla ricerca di trappole e cattiverie varie. La settimana scorsa ho lasciato il caffè in sala detective per andare a pisciare, e quando sono tornata stavo quasi per portarmi la tazza alle labbra senza vedere lo sputo che ci galleggiava sopra. E non ho nessuna intenzione di parlarne a Steve. Non mi piace diventare quello che mi costringono a essere; non mi piace per niente. Continuo a camminare e mi metto a contare gli uomini in cappotto nero.
Steve dice: – Ma?
– Ma niente. Non voglio attaccarmi troppo all’idea finché non avremo qualche prova solida. Questo è tutto.
Lui apre la bocca per dire qualcosa, ma io chiudo l’argomento. – L’altra cosa di cui volevo parlarti, – dico, superando i due anziani e accelerando di nuovo il passo, – è questa: ricordi che quando siamo usciti ti ho detto che avevo appena parlato con Breslin perché aveva telefonato a Sophie?
– Oh, Gesú. Com’è ridotto? Vivrà?
– Sí. Gli basterà coprire i lividi con il fondotinta.
– Sei stata gentile con lui, vero? Dimmi che lo sei stata.
– Rilassati, – dico. – Va tutto benissimo. La parte interessante è proprio questa: non sono stata gentile con lui, gli ho rotto i coglioni apposta, ma lui continuava a essere gentile con me.
– Quindi forse non ci prendeva per il culo, ieri sera –. Steve si prova quell’idea addosso, per vedere come gli sta. – Forse pensa sul serio che siamo in gamba.
– Credi? Gli ho detto che aveva una bella faccia tosta e stava passando il segno, e che finché collabora alla mia indagine deve fare quello che dico io –. A Steve scappa una risata secca e terrificata. – Sí, l’ho fatto per vedere come reagiva. Credevo che mi avrebbe staccato la testa, invece sai cos’ha fatto? Ha detto che va bene, e che d’ora in poi mi comunicherà tutto quello che fa.
Steve ha smesso di ridere. Io dico: – Ti sembra il Breslin che conosci?
Dopo un momento di pausa, Steve dice: – Mi sembra un Breslin che vuole restare in buoni rapporti con noi. Ma lo vuole proprio tanto.
– Esatto. E il motivo è che cosí può controllare sempre cosa stiamo facendo; ma non perché ha fede in noi ed è convinto che bisogna fare gioco di squadra. Quando l’ho trovato, stava parlando con McCann e appena mi hanno visto si sono interrotti di colpo. Breslin mi ha raccontato un sacco di stronzate sui problemi matrimoniali di McCann, ma sono pressoché certa che stessero parlando del modo piú rapido di liberarsi di me.
Steve mi dà un’occhiata che non riesco a interpretare. – Credi? Cos’hanno detto?
Scrollo una spalla. – Non è che ho imparato le parole a memoria. McCann non era contento e Breslin gli ha assicurato che avrebbe «sistemato» una certa donna al piú presto e tutto sarebbe tornato normale. McCann voleva che facesse in fretta. Era questo il succo.
– E sei sicura che non potrebbe trattarsi davvero della moglie di McCann.
– Potrebbe. Ma non è cosí.
Un coglione con un portablocco e una giacchetta con sopra un logo si avvicina, apre la bocca, ci dà una seconda occhiata e fa marcia indietro. Sto ritrovando il mio incanto. Due giorni fa quello mi avrebbe seguita lungo la strada, chiedendomi soldi per combattere la psoriasi nel Terzo Mondo e consigliandomi di sorridere.
– Va bene, – dice Steve. – Ci siamo chiesti se Breslin fosse corrotto… – Anche cosí lontani dalla centrale, ci voltiamo automaticamente a controllare se qualcuno ci segue. – E se invece fosse McCann?
Non ci avevo pensato. Per un attimo mi sento stupida, per essermi lasciata distrarre dalla paranoia, ma l’eccitazione della sfida, del rischio che aumenta, spazza via tutto.
– Può essere, – dico. Intanto cerco di ricordare quello che so su McCann. Viene da Drogheda. Moglie e quattro figli adolescenti. Non di famiglia ricca, non come Breslin. Una volta gli ho sentito fare un commento amaro: diceva che per far scendere a zero il tasso di criminalità sarebbe bastato mandare tutti quei ragazzini viziati con gli smartphone a fare gli apprendisti a quattordici anni, come aveva fatto suo padre con lui. Niente banca di mamma e papà a cui chiedere soldi se si rompe la macchina, se bisogna rifare il tetto, se i ragazzi devono pagare le tasse del college. E uno stipendio da detective non basta. A un boss della malavita in cerca di un poliziotto addomesticato, McCann piacerebbe molto. – O forse si tratta di tutti e due.
– Per questo si è ciucciato senza protestare tutto quello che gli hai detto. Non può rischiare che andiamo dal capo a dire che vogliamo lavorare senza di lui.
– Se, – dico. – Se qualcosa di tutto questo è reale.
– Se, – dice Steve. – Come vi siete lasciati con Breslin?
– Mi sono scusata. Gli ho detto che mi sentivo troppo intimidita dalla sua grandezza e non riuscivo a pensare in modo sensato. Gli è piaciuto.
– Pensi che ti abbia creduto?
Scrollo le spalle. – Non importa. Se non ci crede, penserà che io sia una stupida stronza ed è quello che pensava anche prima. Ma cercava una scusa perché potessimo restare amici e io gliel’ho data. Ora è tutto a posto.
Siamo al parcheggio. Durante questa breve passeggiata, ho contato undici uomini alti in cappotto nero. E ogni volta mi sono sentita un po’ piú idiota e paranoica, ma non riesco a togliermi di dosso la sensazione di pericolo che ho avuto quando ho visto quel tizio vicino casa mia, in cima alla strada.
All’ingresso, Steve dice: – Cosa facciamo?
Quello che dobbiamo fare, tanto per cominciare, è controllare i dati finanziari di Breslin e McCann, i loro tabulati telefonici, chiedere a qualcuno di dare un’occhiata approfondita ai loro computer, per scoprire se hanno fatto ricerche che non dovevano fare. Ma non faremo nulla di tutto questo. – Continuiamo a lavorare al nostro caso. Continuiamo a parlare con loro. E teniamo la bocca chiusa –. Saluto con un gesto l’uomo che gestisce le auto, lui ricambia il saluto e si volta a cercare le chiavi della Kadett. – E voglio vedere se riesco a far ingoiare un rospo a Breslin.
La casa di Aislinn è stata passata al pettine fitto, ed è rimasta cosí. Quando in una casa dove c’è stato un delitto deve tornarci qualcuno, cerchiamo di non rovinarla troppo: spazziamo via la polvere per rilevare le impronte, rimettiamo a posto i libri sugli scaffali… a meno che non vogliamo scuotere in qualche modo gli inquilini. Ma quando la casa resta vuota, non dobbiamo preoccuparci di ferire la sensibilità di nessuno. I ragazzi di Sophie hanno coperto mezza casa di polvere nera e l’altra metà di polvere bianca; hanno tagliato un rettangolo di moquette nel punto in cui giaceva il cadavere, hanno segato un pezzo del gradino del caminetto, disfatto il letto e scavato buchi nel materasso. In una dimora familiare, cose del genere sembrano un incubo contro natura, ma la casa di Aislinn già da prima non sembrava quella di una persona reale; ora sembra un laboratorio di addestramento per la polizia scientifica.
Steve si prende bagno e soggiorno, io cucina e camera da letto. C’è silenzio. Lui fischietta tra sé e in casa entra qualche rumore dalla strada: un gruppetto di anziani che discutono con sentimento mentre camminano, un bambino che piange… Ma niente dalle case adiacenti. Questi vecchi muri sono spessi. Se non c’è stata una lite violenta, o un urlo, i vicini non possono aver sentito nulla. Un amante segreto, che era già stato prima in questa casa, doveva saperlo.
La nuova ricerca non mi fa scoprire nulla di rilevante. I classici nascondigli – la busta di piselli surgelati nel freezer, il barattolo di spezie vuoto in cucina, sotto il materasso, dentro una scarpa – sono tutti vuoti. Niente biglietti d’amore nel cassetto del tavolino da trucco tutto riccioli, niente mutande maschili da mattina dopo nel cassettone. Nel guardaroba, niente busta di contanti o scatola dentro carta da pacchi in attesa di essere ritirata. Il meglio che riesco a trovare sono alcuni album di foto di famiglia, spinti in fondo alla mensola piú alta, dietro il piumone di scorta. Guardo le foto, sperando di trovare qualcosa che mi faccia ricordare dove avevo visto Aislinn in passato, ma niente. Da bambina non era bella: tozza, con le trecce tirate indietro, la fronte sporgente e un sorriso insicuro. Per una persona che aveva investito tanta palestra e sedano e prodotti per capelli nella propria trasformazione, questa è già un’ottima ragione per nascondere quegli album. Non ci sono foto di famiglia da nessun’altra parte, in casa. Stampe di fiori color vomito e polli a quadretti sono su tutti i muri, ma la famiglia si trova relegata in fondo all’armadio. Uno psicanalista ci andrebbe a nozze: Aislinn voleva seppellire i genitori per vendicarsi di essere stata abbandonata da loro, oppure voleva seppellire la vera sé stessa per potersi reinventare come una Barbie da sogno. A me, l’unica cosa che interessa è che nessuno, in quelle foto, ha un’aria familiare. Ovunque io abbia visto Aislinn, non ne troverò indizi in casa sua.
La cosa strana è che non trovo nulla in generale. Le perquisizioni fanno sempre uscire qualche sorpresa, perché chiunque ha almeno un paio di cosette che nasconde anche alle persone piú care; la questione è solo se le sorprese hanno qualcosa a che fare con il caso oppure no. Invece qui non c’è nulla che Lucy non ci avesse già detto. Anzi, visto che ho trovato zero indizi della presenza di un amante segreto, c’è ancora meno di quanto ci abbia detto Lucy. Niente pillole illegali per dimagrire comprate su internet, niente giocattoli erotici, non ho trovato neppure la copia di Le regole che giuravo ci fosse. La rivelazione piú grande è che Aislinn a volte indossava reggiseni imbottiti.
– Documenti e ricevute sono un disastro, – dice Steve, apparendo sulla soglia della stanza da letto. – Tutto gettato alla rinfusa in una scatola sotto il tavolino: estratti conto della banca, bollette, fatture…
Rimetto gli album sulla mensola dell’armadio. – Dei dati finanziari se ne occupa Gaffney, ma guardiamoli lo stesso. Portiamoci dietro la scatola, quando andiamo via. Dobbiamo controllare le ricevute: chi lo sa, magari il tipo che le ha consegnato il divano si era fissato su di lei. Qualcosa di interessante?
– Il suo testamento. Una cosa fai da te, stampato su un modulo scaricato da internet. Lascia la metà di tutto ciò che ha a Lucy e l’altra metà è destinata a chi si occupa di assistenza ai bambini. Ma non so se reggerebbe, nel caso qualcuno volesse impugnarlo.
– Fortuna che Lucy ha un alibi.
– Già, – dice Steve. – Il testamento ha una data di due mesi fa.
– Quindi Aislinn forse cominciava a preoccuparsi di essersi messa in qualcosa di pericoloso, oppure ha deciso che doveva comportarsi finalmente da persona adulta e fare testamento. Qualcos’altro?
– Aveva compilato la domanda per ottenere il passaporto per la prima volta. Modulo, fotografie e tutto. Pronto per la consegna.
– Cioè, voleva farsi una vacanza al sole. Non lo vogliamo tutti?
Steve dice: – Oppure sapeva che presto avrebbe dovuto lasciare il Paese.
– Forse –. Sbatto la porta del guardaroba. – Questo è tutto? Niente agenda di appuntamenti da escort? Niente fascio di banconote dentro il divano? Niente deodorante maschile nell’armadietto del bagno?
Steve scuote la testa. – E tu?
– Un cazzo di niente.
Ci guardiamo, attraverso la moquette a margherite e il letto distrutto. – Be’, – dice Steve. – Forse troveremo qualcosa nei pub.
Da quella visita abbiamo ricavato la scatola dei documenti, che lasciamo nella Kadett prima di metterci a setacciare i pub, e poco altro. Steve e io siamo in gamba nelle perquisizioni, eppure sento che Aislinn ci ha nascosto qualcosa proprio sotto il naso. Ma per quanto ci pensi, non riesco a capire cosa, o dove.
Avevo sottovalutato i baristi e Aislinn, e forse sopravvalutato il suo amante segreto. Nei primi pub Steve trova solo facce perplesse e cenni negativi, mentre io, con il taccuino in mano per prendere appunti inesistenti, alzo un sopracciglio da «te l’avevo detto». Ma da Ganly’s, un postaccio in un vicolo, cosí malmesso che è riuscito a evitare i fighetti in cerca di atmosfera autentica e si è tenuto la sua clientela di vecchi in giacche cascanti, al barista basta una sola occhiata alla foto per dire: – Sí, è stata qui.
– Sicuro che fosse lei? – chiede Steve, lanciandomi un’occhiata trionfante.
Il barman è sulla settantina, un po’ pelato e con gli occhi lucidi, con dei bracciali sulla camicia inamidata. – Oh, sí. Voleva una grappa alla pesca e al mirtillo rosso. Mi ha spiegato che stava provando tutti i cocktail piú assurdi, per scoprire quello che le piaceva di piú. Le ho detto che se cercava un po’ di eccitazione questo non era il posto giusto. Alla fine si è accontentata di rum e ginger ale –. Inclina la foto per vederla meglio sotto quel po’ di luce che c’è nel locale. – Sí, era proprio lei. L’ho guardata bene, dovevo approfittare dell’occasione. Ragazze come lei non entrano spesso qui dentro.
– Io non sono abbastanza bello per te? – domanda un anziano seduto al banco su uno sgabello alto. – Puoi guardarmi quanto vuoi, è gratis.
– Tu sei proprio il motivo per cui guardavo quella ragazza: per togliermi la tua faccia dalla mente.
– Quando è stata qui? – chiede Steve.
L’uomo riflette. – Qualche mese fa. In agosto, forse.
– Sola?
– Ah, no. Una come lei non credo passi molto tempo da sola. Era con un uomo.
Altra occhiata trionfante di Steve a me. – Ricorda com’era quell’uomo?
– Non mi sono concentrato molto su di lui, se capisce cosa intendo. Piú anziano di lei, questo l’ho notato; sui quaranta, magari anche cinquanta. Niente di speciale: né grasso, né magro, forse un po’ piú alto della media. E aveva ancora tutti i capelli, beato lui.
Corrisponde alla descrizione dell’uomo che aveva scavalcato il muro di cinta di Aislinn. E prima di potermi fermare, penso che corrisponde anche all’uomo che stamattina era in cima alla mia strada.
Steve dice: – Lo riconoscerebbe, se lo vedesse di nuovo?
Il barman fa spallucce: – Forse sí, forse no. Non posso promettere nulla.
Io gli chiedo: – Le sembrava che stessero insieme? Si tenevano per mano, si sono baciati? Oppure poteva essere un amico, uno zio, qualcosa del genere?
Il barman fa una smorfia e muove la testa. – Poteva essere l’una o l’altra cosa. Non si tenevano stretti, no, ma ho pensato che erano troppo vicini per non essere una coppia. E che lei avrebbe potuto trovarsi un uomo migliore.
– Per esempio te, eh? – dice l’anziano al bancone.
– Cos’ho io che non va? Faccio ancora la mia figura.
– Forse era un milionario, – dice Steve. – Aveva l’aria di uno pieno di soldi?
– Non in modo evidente. Come ho detto, non sembrava nulla di speciale.
– Che ci verrebbe a fare un milionario in un buco come questo? – vuol sapere l’anziano.
– A bere una pinta come si deve, – ribatte il barman, con dignità.
– Se l’avesse bevuta, sarebbe tornato.
– Ed è tornato? – chiede Steve.
– No, l’uno e l’altra li ho visti solo quella volta.
– E io? – gli chiedo. – Sono già stata qui?
L’uomo stringe gli occhi, mi guarda meglio e sorride. – Sí. L’estate di due anni fa, dico bene? Con un gruppo di donne e uomini. Vi siete seduti in quell’angolo a bere e a farvi due risate.
– Giusto, – dico. È vero che mi si nota molto di piú di Aislinn, ma è anche vero che è passato molto piú tempo da quando sono stata qui. Il barman non racconta stronzate solo per farci contenti; se la ricorda davvero.
– Cosa ho vinto?
– Legga questo, e se è tutto giusto firmi in fondo, – dico, allungandogli il taccuino. – Se è fortunato, vincerà la possibilità di venire in centrale e raccontarci la stessa storia su nastro.
L’anziano al bancone allunga il collo per vedere la foto di Aislinn. – La ragazza si è messa nei guai, eh? Ha fatto qualcosa a qualcuno?
– Lascia perdere, Freddy, – gli dice il barman, senza alzare gli occhi dal taccuino. – Non voglio saperlo –. Firma con un bello svolazzo alla fine, mi restituisce il taccuino e prende lo straccio per asciugare i bicchieri. – Volete altro?
Fuori, Steve si rimette la foto nella tasca della giacca. Pensa «te l’avevo detto» a un volume cosí alto che non ha bisogno di dirlo. – Bene, – dice invece.
– Bene, – dico io. Il pensiero della centrale operativa lasciata a sé stessa o agli ordini di Breslin mi dà un formicolio. – Con i locali abbiamo finito. Possiamo tornare in centrale?
– Certo. Non c’è problema.
Ripercorriamo il vicolo pieno di pozzanghere e ci rimettiamo in strada. La pioggia ora scende decisa e cattiva, e minaccia di diventare nevischio. Spero che Meehan abbia tenuto un passo abbastanza vivace da permettergli di tornare in tempo. All’angolo, una piccola bolla di agitazione: ragazzi che hanno marinato la scuola e non possono tornare a casa. A parte loro, la strada è deserta. Una creatura disegnata a pennarello, tutta denti scoperti e occhi da insetto, ci fissa dalla saracinesca di un negozio abbandonato, tra il manifesto di un gatto scomparso e un altro che pubblicizza una passata fiera estiva, aquiloni danzanti e gelati con sorrisi assurdi sulla carta sbiadita.
L’autocontrollo di Steve finisce. – L’uomo segreto ha preso corpo.
È vero. Ma dico: – Forse era un collega di lavoro di Aislinn…
– Lei lavorava a Clondalkin, che è piuttosto lontano. Perché andare a farsi una pinta a Stoneybatter, a meno che avessero una relazione e non volessero essere notati?
– O un amico dei suoi corsi da sommelier o quello che diavolo faceva in agosto –. La Kadett è parcheggiata ad almeno sei pub di distanza. Affretto il passo. – I posti che frequentava lei sono pieni di giovani belli e ricchi. Perché avrebbe dovuto mettersi con un tizio di mezza età che non era nulla di speciale?
Steve scrolla le spalle. – Alcune donne preferiscono gli uomini maturi.
– Rory è della sua età, grosso modo.
– Ma prima di conoscerlo forse lei aveva un complesso paterno. Lucy ci ha detto che quando il padre di Aislinn se n’è andato di casa, le ha incasinato la vita. Forse cercava una figura paterna, ma poi non è andata come sperava e si è spostata verso uomini della sua…
– Cristo! – Per poco non sbatto contro un lampione, ci pianto una mano sopra all’ultimo momento. – Ecco dove l’avevo vista!
– Cosa? Dove?
– Gesú Cristo! – La mano pulsa di dolore, contro la vernice appiccicosa del lampione. Sento ridere i ragazzi all’angolo, alle nostre spalle. – Era lei.
Persone scomparse, due anni e mezzo fa. Ero di turno all’accettazione all’ora di pranzo, in una giornata di sole, verso la fine del mio periodo in quella squadra; il venticello che entrava dalla finestra aperta odorava di campagna, sembrava che l’estate fosse arrivata, dolce e pulita, disperdendo i vari strati di aria di città. Stavo ascoltando un brano pop degli anni Novanta che usciva da un’auto con la capote aperta, mangiavo un sandwich di tacchino e pensavo al lieto fine di quella mattinata. Un bambino di dieci anni scomparso dopo una lite con i genitori: l’avevamo ritrovato che giocava al Nintendo in casa del suo migliore amico. Pensavo anche alla squadra Omicidi, dove avrei preso servizio un paio di settimane dopo. Sembrava che io e il mondo fossimo dalla stessa parte, quel giorno, ed era una bella sensazione.
Quando la ragazza dal tailleur orrendo apparve sulla soglia, misi via il sandwich, con il sorriso giusto e un caldo e incoraggiante: «Come posso aiutarti?» Funzionò: lei scaricò tutta la sua storia sulla mia scrivania.
Il padre, un uomo mite e meraviglioso, che le aveva insegnato a giocare a scacchi, la portava alla cascata di Powerscourt con il suo taxi e la faceva ridere fino a farle venire il singhiozzo. Il giorno in cui era scesa in soggiorno in divisa scolastica e la madre stava chiamando il cellulare di suo padre per la centesima volta. «Non è tornato a casa, stanotte, non riesco a trovarlo, Gesú, Giuseppe e Maria, è morto, lo so…» I detective che avevano preso le loro dichiarazioni, spiegando in tono rassicurante che la maggior parte delle persone scomparse tornano a casa entro pochi giorni, hanno solo bisogno di prendersi un momento per sé. Quei pochi giorni erano diventati settimane e ancora non c’era traccia del Superpapà, i detective passavano meno spesso a far loro visita e le rassicurazioni diventavano sempre piú vaghe. Uno di loro un giorno le aveva accarezzato la testa, dicendo: «Tu hai dei bellissimi ricordi di lui, e non vogliamo cambiare la situazione, no? A volte è meglio lasciare le cose come stanno».
«Questo vuol dire che lui sapeva qualcosa, giusto? – mi disse la ragazza. – O che aveva un’idea, almeno un’idea… Non sembra anche a lei che sapesse…?»
Era china sulla mia scrivania, le dita intrecciate cosí forte da sbiancare le nocche. Io feci spallucce: «Non credo di poter fare supposizioni su cosa pensava quel poliziotto. Mi dispiace».
E lei continuò a raccontare. Le settimane erano diventate mesi, poi anni; lei sobbalzava ogni volta che squillava il telefono, trascorreva i compleanni nell’attesa del postino, di un biglietto di auguri, e le notti ascoltando sua madre che piangeva continuamente. Mi raccontò delle volte che aveva pensato di vederlo camminare per strada e il cuore le era balzato nel petto, poi l’uomo si era voltato e non era lui e lei era rimasta lí paralizzata, guardando dissolversi in polvere l’unico momento che sognava di vivere. Le sarebbe bastato uno sguardo alla mia faccia per capire che non stava facendo breccia, ma andò avanti.
Succede, nella squadra Persone scomparse: gente convinta che vedendo quanto è sconvolta, sentendola piangere, tu farai meglio il tuo lavoro. Ci sono genitori che tornano ogni anno, nell’anniversario della scomparsa del figlio, per sapere se hai trovato qualche nuova informazione. E un po’ funziona: ti segni l’anniversario in agenda, quando si avvicina fai qualche ora di straordinario, sperando di trovare una cosa qualsiasi da poter dire loro. Ma quella ragazza era un’altra storia. La mia intenzione di aiutarla a ritrovare il padre era zero.
Fu ciò che le dissi, con un po’ piú di tatto, chiedendomi quanto ci avrebbe messo a capire che doveva togliersi dai piedi. I fascicoli delle indagini non possono essere aperti al pubblico, la legge sulla libertà d’informazione non si applica alle indagini della polizia, perciò mi dispiace, non posso aiutarti.
E a quel punto, naturalmente, lei ricorse alle lacrime. Per favore, non può almeno dare un’occhiata a quel fascicolo, non immagina com’è terribile crescere senza padre, e bla, bla, bla, piú una spruzzata di stronzate hollywoodiane tipo il bisogno di conoscere la verità in modo che quella storia non bloccasse piú la sua vita. Non posso giurare che abbia usato davvero espressioni come «scrivere la parola fine», o «riprendere il potere su me stessa», perché avevo smesso di ascoltare, ma sarebbero state in tema. Ormai la mia giornata felice era rovinata. Volevo solo che quella stronza tacesse e se ne andasse fuori dai coglioni.
Aislinn non cercava un sostituto del padre. Cercava il padre.
Dico a Steve: – Il papà di Aislinn non se n’è semplicemente andato di casa. È scomparso. Lei venne da me quando lavoravo alla Persone scomparse, per avere informazioni.
– Ah, – dice lui, riflettendo. – Lucy l’aveva detto che suo padre era sparito. Ma non ho mai pensato che intendesse «scomparso», in senso letterale. A Aislinn hai dato qualcosa?
– Niente. Lei piagnucolava, io non potevo guardare il fascicolo e dirle cosa c’era scritto, «per favore, per favore» –. Provo di nuovo quella rabbia che sale dalla pancia e si espande sotto le costole. Mi stacco dal lampione con una spinta e riprendo a camminare. – Le ho dato il nome di uno dei ragazzi piú anziani, che all’epoca della scomparsa era già nella squadra. Le ho detto di tornare quando di turno all’accettazione ci sarebbe stato lui, poi le ho indicato la porta.
Steve deve allungare il passo per starmi accanto. – E lei è tornata?
– Non lo so. Non ho chiesto. Non poteva fregarmene di meno.
– Hai dato un’occhiata al fascicolo di suo padre?
– No. Quale parte di «Non poteva fregarmene di meno» non ti è chiara?
Steve ignora il mio tono pungente. Scansa un gruppetto di mamme blateranti in doposcí e passeggini e dice: – Mi piacerebbe leggere quel fascicolo.
Questo attrae la mia attenzione. – Pensi ci sia un collegamento? Tra il padre scomparso e la morte di Aislinn?
– Penso che siano un bel po’ di disgrazie nella stessa famiglia, perché si tratti solo di coincidenze.
– Ho visto di peggio –. Non sono piú sicura di volere che questo caso diventi interessante, non piú.
– Se pensiamo alla storia dell’amante malavitoso…
Mi sembra che tutta Stoneybatter ce l’abbia con me. «Noi non pagheremo», dice una scritta con vernice spray sulla porta di un garage. Dal manifesto pubblicitario sotto una pensilina dell’autobus una donna ride istericamente con in mano un panetto di burro. Una vecchietta mia vicina di casa mi fa un gesto di saluto dall’altro lato della strada, e io ricambio e accelero il passo, prima che pensi di attraversare per fare due chiacchiere. – Non abbiamo nessuna prova dell’esistenza di questo amante, ricordi? Te lo sei inventato tu.
– Certo, infatti ho detto «se». Stammi a sentire. Poi ti darò un euro.
Non rido. – Se ci tieni.
– Diciamo che Aislinn pensasse che nella scomparsa del padre fosse implicata una gang. E diciamo che rivolgendosi alla Persone scomparse non avesse ricevuto molta soddisfazione.
Lo dice con tatto, ma significa «diciamo che una stronza l’avesse mandata al diavolo».
– Ma perché avrebbe dovuto pensarlo? Con me non parlò di nessuna gang. Era tutta presa a spiegare quanto era perfetto il suo paparino. Avrebbe perso la testa se io avessi soltanto suggerito che magari un giorno aveva preso una multa per divieto di sosta. E la criminalità organizzata non perde tempo a far sparire dei cittadini normali.
– Forse lei non lo sapeva. Sappiamo che era ingenua, no? Forse pensava che le gang fossero come i cattivi delle storie, in cerca di persone a cui fare del male solo per pura malvagità. O forse aveva scoperto che suo padre non era il santo che pensava. Ci sono cittadini normali che finiscono immischiati con la malavita.
Dico, con riluttanza: – Credo fosse un tassista.
I malavitosi amano servirsi dei tassisti. Le loro auto sono tutte segnalate, sotto sorveglianza la metà del tempo, qualche volta soggette a intercettazioni. Un tassista può trasportare qua e là droga, armi, soldi, restando sotto il livello dei radar.
– Lo vedi? – dice Steve, trionfante. Non molla, come un cucciolo che ha adocchiato una chicca. – Si ritrova immischiato con i cattivi, fa una mossa sbagliata, finisce tra le montagne con due proiettili in testa. Alla Persone scomparse non possono provarlo, ma sanno la storia e quando Aislinn parla con il tuo collega lui si lascia sfuggire qualcosa. Lei decide di mettersi a indagare di persona, e prima di capire bene cosa sta facendo si ritrova nei casini…
– La sua libreria, – dico. Vorrei tenere la bocca chiusa, sperando che tutto si sgonfi da solo, ma Steve si è guadagnato la sua chicca. – C’era un libro sulle persone scomparse, proprio accanto a quello sul crimine organizzato in Irlanda. E tutti e due erano pieni di sottolineature.
Lui fa quasi un saltello sul posto. – Lo vedi? Capisci cosa voglio dire? Stava facendo la sua indagine personale.
– Sono stufa di tutti questi «può darsi», – dico, tirando fuori il cellulare. Questo è uno dei motivi per cui so di non essere solo una stronza rompicoglioni e priva di senso dell’umorismo con cui nessuna persona normale vorrebbe lavorare. Lo so, qualsiasi cosa dicano quei bastardi della Omicidi, perché alla Persone scomparse andava tutto benissimo. Non ho stretto grandi amicizie, ma sono uscita con i colleghi a farmi qualche pinta e qualche risata, partecipavo a un tormentone un po’ disgustoso che riguardava uno dei ragazzi e un criceto di gomma; e posso ancora telefonare a tutti quando ne ho bisogno. – L’avevo indirizzata da Gary O’Rourke. Lo chiedo a lui.
Mi risponde la segreteria. – Gary, ciao, come stai? Sono Antoinette. Ho bisogno di un favore, poi ti pago una pinta. Sto cercando un uomo che è scomparso intorno al 1998 o ’97, quindi forse non è nei computer. Facciamo due pinte. Si chiama Desmond Murray, abitava a Greystones, tassista, età variabile tra i trenta e i cinquanta. Probabilmente la scomparsa è stata denunciata dalla moglie. Forse ricordi la figlia, Aislinn; un paio d’anni fa è venuta da noi in cerca d’informazioni. Per favore, fammi avere tutto quello che hai, il piú presto possibile. E di’ alla persona che manderai di consegnare la roba direttamente a me o al mio partner Moran, va bene? Grazie.
Riattacco. Dieci minuti fa mi stavo godendo questo caso; era un bel cambiamento. E ora, proprio come mi diceva quella vocina nella mente, sta trovando il modo di trasformarsi in merda.
– Quella stronza senza cervello, – dico.
Steve spalanca gli occhi. – Cosa?
– Vuoi sapere una cosa? Se lascio la polizia, apro uno studio di psicoterapia. Di nuovo tipo, specifico per gente come Aislinn. Per cento euro all’ora ti prendo a schiaffi sulla testa e ti dico di farti furbo.
– Lo dici perché lei si è trovata invischiata in una gang?
– Di quello non me ne frega un cazzo, sempre che sia successo, cosa di cui non mi hai ancora convinta –. Attraverso la strada cosí in fretta che lui deve quasi correre per starmi dietro; un’auto ci sfreccia a pochi centimetri dal culo. – No, lo dico perché aveva ventisei anni e cercava ancora il suo papà, sperando che sarebbe tornato e avrebbe rimesso a posto la sua vita. È patetico, cazzo.
– Dài, – dice Steve, tornandomi accanto sul marciapiede. – Non si tratta di una ragazzina viziata che chiama il papà per farsi cambiare una gomma bucata. Il fatto che suo padre sia scomparso le ha davvero cambiato la vita, e non in senso positivo. Noi non possiamo sapere cosa ha passato; non possiamo…
– Io posso eccome. Mio padre ha tagliato la corda prima che io nascessi. Ti sembra che io stia lí con la testa tra le nuvole, fantasticando di modi per ritrovarlo e gettarmi tra le sue braccia?
Steve tace di colpo. E pure io. Non sapevo che avrei detto quelle parole, finché non mi sono uscite dalla bocca.
Dopo un silenzio, lui dice: – Non lo sapevo. Non ne avevi mai parlato.
– Non ne ho parlato perché non ha importanza. È proprio questo il punto. È andato via, e questo lo rende irrilevante. Fine della storia.
Steve dice, con molta prudenza, sapendo che rischia di farsi male: – Mi stai dicendo che non hai mai pensato a lui? Seriamente?
– No. Ho pensato a lui, e molto –. Questo significa minimizzare, ma ci vorrebbe una parola speciale per un minimizzare di questo livello. Quando ero piccola pensavo a lui tutto il tempo. Gli scrivevo una lettera ogni settimana, raccontandogli che personcina fantastica ero, perché avevo fatto bene i compiti di Matematica e avevo battuto tutti i miei compagni di classe nella corsa. Cosí, quando finalmente avessi trovato un indirizzo a cui mandargliele, lui avrebbe capito che per una figlia cosí valeva la pena di tornare. Uscivo da scuola ogni giorno sperando di vederlo arrivare nella sua limousine bianca, che mi avrebbe portata via da quel cortile in cemento e dai bambini con gli occhi rabbiosi, con i posti già prenotati in prigione e nelle comunità di disintossicazione. Via, in qualche posto verde e azzurro e splendente, pieno di possibili vite scintillanti e io avrei solo dovuto sceglierne una. Ogni notte, a letto, le immaginavo: mi vedevo in camice e stetoscopio in un ospedale tutto bianco e cromato; o mentre scendevo una scalinata al suono di un valzer, in un vestito tutto pizzi e garze; oppure mi vedevo cavalcare su una spiaggia, mangiare frutta esotica a colazione in un grande patio, o seduta su una poltroncina in pelle, in un ufficio d’attico al quarantesimo piano, con vista mozzafiato. – Proprio come Aislinn, pensavo che solo con il suo ritorno la mia vita sarebbe cominciata davvero.
Steve, che Dio ci aiuti, sta cercando di trovare il livello giusto di espressione compassionevole. – Ma guardati, – dico. – Non mi fare gli occhioni tristi, per favore. Avevo otto anni. Poi sono cresciuta e mi sono resa conto che la mia vita reale è questa e che avrei fatto meglio a prenderne in mano le redini, invece di aspettare qualcun altro che lo facesse al posto mio. È quello che fanno gli adulti.
– E adesso? Non pensi piú a lui?
– Non ci penso da anni. Ho quasi dimenticato la sua esistenza. E se Aislinn avesse avuto un cervello grande almeno come un M & M avrebbe fatto cosí anche lei. E vale anche per sua madre.
Steve muove la testa in modo vago. – Non è la stessa cosa. Tu non hai mai conosciuto tuo padre. Lei conosceva e amava il suo.
Forse non ha tutti i torti, ma non m’interessa. – Il suo se n’era andato. Lei e la madre avrebbero potuto continuare, rimandando i ragionamenti e le domande fino al giorno in cui avessero avuto delle risposte. Invece hanno deciso di imperniare le loro vite intorno a una persona che non c’era. E questo io lo trovo patetico.
– Forse.
– Patetico, – ripeto. – Fine della storia.
Steve non ribatte. Continuiamo a camminare. Finalmente davanti a noi vedo la macchina, proprio dove l’avevamo lasciata. Meno male.
Voglio che Steve dica qualcosa. Voglio sentire se c’è qualche differenza in lui: nella distanza che tiene da me, nell’inclinazione della testa, nel tono della voce. Il motivo per cui non parlo mai agli altri di mio padre, a parte il fatto che non sono affari loro, è che appena sentono la storia cambiano la mia collocazione nella loro mente, e mi mettono o nel cassetto con scritto sopra «povera piccola» o in quello con l’etichetta «coatta». Steve è cresciuto piú o meno come me, forse stava appena un po’ meglio, aveva una villetta a schiera popolare invece di un appartamento popolare, un padre con un lavoro e una madre che metteva quelle cose di pizzo sullo schienale del divano, ma di sicuro è andato a scuola con un bel po’ di bambini che non conoscevano i loro padri. Non mi preoccupa l’idea che si metta a fare lo snob con me. Ma Steve è un romantico; gli piacciono le storie ben scritte, con alti livelli drammatici, un intreccio prevedibile e un bel finale dove tutti i nodi vengono sciolti. Sarebbe proprio da lui immaginarmi come una bambina tragicamente abbandonata, che combatte i propri demoni per farsi strada verso una vita migliore; e se lo fa gli do una botta in testa.
Non mi lancia occhiate mielose, perlomeno, non mi cammina piú vicino per sostenermi nel mio dolore. Con la coda dell’occhio, riesco solo a vedere che sta pensando. Dopo un po’ dice: – E se lei l’avesse trovato?
– Di che parli? – Il sollievo mi fa sembrare spocchiosa.
– L’uomo segreto per il quale Aislinn continuava a dare buca a Lucy. L’uomo del pub –. Steve fa il giro dell’auto e mi parla da sopra il tettuccio, mentre cerco le chiavi. – Se alla fine non si trattava di un fidanzato, ma di suo padre? Riesce a rintracciarlo, provano a ricostruire un rapporto…
– Oh, Gesú, questo è troppo –. Voglio partire a tutta velocità, andare a casa di Rory Fallon e arrestarlo al volo, prima di dover sentire che Aislinn in realtà aveva emozionanti appuntamenti con il suo paparino, completi di particolari sciropposi. – Mi devi già quattro euro. No, sul serio… – dico, mentre Steve ride. – Divento pazza a sopportare ancora questa sfilza di «se». Non voglio nemmeno pensare a Aislinn e suo padre, finché Gary non mi richiama per dirmi come stanno davvero le cose. Nel frattempo, tu non sali su questa macchina se prima non mi dài i miei soldi.
Gli faccio tintinnare le chiavi davanti agli occhi, finché si mette una mano in tasca e mi allunga una banconota da cinque attraverso il tettuccio. – Ehi, e il mio resto? – chiede, quando la intasco e sblocco le portiere.
– Quando arriveremo in centrale mi dovrai già un altro euro, – dico. – Sali.
– Allora lo uso subito, – dice Steve, accomodandosi sul sedile: – Se il padre vuole farsi perdonare per gli anni di assenza, e vuole proteggere Aislinn e non gli piace la faccia di Rory…
– Oh, merda, – dico mettendo in moto e ascoltando le proteste della Kadett per essere stata svegliata. – Che ne dici se ti pago io, per non parlare piú di queste scemenze? Può funzionare?
– Puoi provare. Accetto assegni.
– Accetti anche barrette Snickers? Perché mentre mangi almeno non parli.
– Affare fatto, – dice lui, tutto allegro. – Starò buono –. Pesco la barretta nella mia cartella e gliela getto in grembo; lui si applica a demolirla.
Non sembra che stia pensando a quanto è tragica la mia storia o a che grande modello di vita sono io. So che Steve non è affatto il ragazzo semplice e lentigginoso che interpreta in televisione, eppure in questo momento sembra davvero che pensi solo alla cioccolata.
– Cosa c’è? – chiede, a bocca piena.
– Niente. Un po’ di silenzio ti farà bene –. Scopro di stare sorridendo, mentre immetto l’auto nel flusso del traffico.