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La testimone

È stato un errore. Ora lo so.

Se ho fatto quello che ho fatto è stato solo per la conversazione che ho sentito su quel treno. E vi chiedo in tutta franchezza, voi come l’avreste presa?

Fino a quel momento non mi ero mai considerata una perbenista. O un’ingenua. Va bene, lo ammetto: è vero che ho ricevuto un’educazione parecchio tradizionale, qualcuno potrebbe dire iperprotettiva, ma… insomma. Ne è passata di acqua sotto i ponti. Un po’ ho vissuto e ho imparato molto. Mi giudicherei senz’altro nella media sulla scala Richter del comportamento morale, ed è per questo che sono rimasta così scossa da ciò che ho udito.

Vedete, pensavo che fossero delle brave ragazze.

Certo, so che non dovrei origliare. Ma è impossibile non farlo su un mezzo pubblico, non trovate? Con tutto quel gracchiare nei cellulari, gli altri sparano la voce al massimo per starci dietro. Per farsi sentire.

A pensarci bene, probabilmente non mi sarei lasciata risucchiare in quel modo se il romanzo che stavo leggendo fosse stato più intrigante, ma con mio eterno rimpianto la verità è che ho acquistato il libro per la stessa ragione per cui ho comprato la rivista con le pale eoliche in copertina.

Da qualche parte ho letto che arrivati ai quarant’anni bisognerebbe preoccuparsi più di ciò che pensiamo degli altri, e non di quello che pensano gli altri di noi. Allora perché sto ancora aspettando che scatti la molla?

Se vuoi comprare una copia di «Hello», comprala e basta, Ella. Che t’importa di cosa pensa la studentessa annoiata alla cassa?

Figurati. Così tiro su l’oscura pubblicazione della lobby ecologista e la ponderosa biografia, e quando alla stazione di Exeter salgono i due giovani con i loro sacchi dell’immondizia neri, la noia mi è ormai entrata nelle ossa.

Una domanda per voi adesso.

Che cosa pensereste se vedeste salire due uomini, entrambi con un sacco nero per le immondizie dal contenuto sconosciuto? Quanto a me, madre di un adolescente con una camera in cui vige l’ordine di mantenere igiene e sicurezza, mi sono limitata a pensare che era tipico. Neanche capaci di trovarsi un borsone da soli.

Erano esuberanti e rumorosi, sopra le righe come molti ventenni, saltati in carrozza all’ultimo istante mentre il capotreno dalla stazza robusta soffiava nel fischietto la sua furiosa disapprovazione.

Dopo aver giocato con la porta automatica, aperto, chiuso, aperto, chiuso, cosa che trovavano divertente da impazzire, sono andati a sedersi vicino alla rastrelliera portabagagli. Poi però si sono accorti delle due ragazze della Cornovaglia, si sono scambiati un’occhiata d’intesa e si sono spostati per mettersi proprio dietro di loro.

A quel punto mi è venuto da sorridere. Vedete che non sono una parruccona? Sono stata giovane anch’io.

Ho visto le ragazze smettere di parlare, intimidite, e una delle due sgranare gli occhi girandosi verso l’amica e, sì, uno dei ragazzi era molto attraente, tipo modello o membro di una boy band. E mi ha ricordato quella particolare sensazione nella pancia.

Sapete quale.

Quindi non mi sono affatto sorpresa e non ci ho visto niente di male quando i ragazzi si sono alzati, e quello belloccio si è sporto da sopra gli schienali. Magari prende qualcosa alle ragazze al vagone ristorante? Già che ci sta andando?

Poi c’è lo scambio dei nomi, un bel po’ di risate e risatine e si aprono le danze.

Due caffè e quattro birre dopo, i ragazzi sono insieme alle ragazze, ora seduti così vicino da permettermi di seguire tutta la conversazione. Lo so, lo so. Non dovrei ascoltare, ma ci siamo già passati. Mi sto annoiando, se vi ricordate. E loro parlano a voce alta.

Dunque, tornando a noi. Le ragazze ripetono ciò che io ho già intuito dalle loro confidenze precedenti. Questo viaggio a Londra è la loro prima avventura da sole nella capitale, un regalo dei genitori per festeggiare la fine della scuola dell’obbligo, che in Inghilterra dura fino a sedici anni. Hanno una prenotazione in un albergo economico, hanno i biglietti per andare a vedere Les Misérables e non sono mai state così emozionate.

«Mi prendete in giro? Non siete mai state a Londra da sole?». Karl, quello con la faccia da frontman di una band, è incredulo.

«Non è tutto oro quel che luccica, sapete, ragazze. Londra. Dovete stare attente. Taxi, e niente metrò quando uscite da teatro. Capito?».

Al momento Karl mi piace. Sta consigliando negozi e mercatini, anche un club di quelli tranquilli, dove possono ascoltare un po’ di musica decente e ballare dopo lo spettacolo, se ne hanno voglia. Sta scrivendo il nome su un foglietto. Conosce il buttafuori. Fate il mio nome, okay?

E poi Anna, la più alta delle due ragazze, è curiosa di sapere qualcosa su quei sacchi neri, e io sono ben contenta che lo abbia chiesto perché interessa anche a me e già sorrido anticipando la presa in giro. Maschi. Così disorganizzati. Senza speranza, eh?

Invece no.

I due giovani sono appena usciti di prigione. Nei sacchi neri ci sono i loro effetti personali.

Deglutisco così forte che sento lo schiocco, un fiotto di saliva mi riempie improvviso il fondo della gola e il battito cardiaco diventa una sgradevole percussione dentro le orecchie.

Il tasto di pausa non resta schiacciato abbastanza a lungo. Le ragazze si riprendono troppo in fretta. «È uno scherzo?».

No. I ragazzi non stanno scherzando. Hanno deciso di essere franchi con il prossimo. Hanno commesso degli errori e pagato il debito, ma si rifiutano di vergognarsi.

Carte in tavola, ragazze, eh? Karl ha scontato una pena nella prigione di Exeter per aggressione, Antony per furto. Karl stava solo proteggendo un amico, sia chiaro, e, con una mano sul cuore, afferma che lo rifarebbe. Il suo amico era stato preso di mira in un bar e lui detesta i bulli.

Io intanto ho i miei problemi con il paradosso: bullismo contro aggressione, e sbattiamo veramente la gente in galera per una scazzottata? Ma le ragazze sembrano affascinate, e nella loro dolce e magnanima ingenuità stanno dicendo che la lealtà è una cosa buona. Una volta nella loro scuola era arrivato un ragazzo che era uscito di prigione: aveva raccontato di aver ribaltato completamente la sua vita dopo essere stato dentro per una faccenda di droga. Era tutto pieno di tatuaggi. Ricoperto.

«Caspita. Galera. E com’era?».

È a questo punto che rifletto sul mio ruolo.

Mi immagino la madre di Anna che, mentre si scalda davanti alla stufa, si chiede ad alta voce se la sua bambina se la stia cavando, e il marito le risponde di smetterla. Crescono in fretta. Sono ragazze con la testa a posto. Sono perfettamente al sicuro, cara.

E io invece penso che non sono affatto al sicuro. Infatti adesso Karl sta dicendo alle ragazze che dovrebbero farsi accompagnare in giro per Londra da qualcuno che conosce bene la città.

Karl e Antony vanno a stare da amici a Vauxhall e hanno in programma una seratona per festeggiare la scarcerazione. Perché non incontrarsi dopo il teatro per andare al club assieme?

Quello è il momento in cui decido che devo telefonare ai genitori delle fanciulle. Hanno parlato di dove abitano. Anna vive in una fattoria. Non ci vuole un genio. Posso telefonare all’ufficio postale o al pub locale. Quante fattorie possono esserci?

Solo che ora Anna non è per niente convinta. Dovrebbero probabilmente andare a letto presto per poter partire di buonora domani mattina a fare shopping. Hanno questo progetto, vedete, di andare per prima cosa al Liberty perché Sarah vuole assolutamente provarsi qualcosa di Stella McCartney e farsi una foto con il telefonino.

Brava ragazza, penso io. Con la testa sulle spalle. Risparmiami l’intervento, Anna. Ma c’è una complicazione perché, a quanto pare, Sarah è improvvisamente cotta di Antony. C’è una seconda gita al vagone ristorante e al ritorno si scambiano i posti: adesso Anna è seduta con Karl e Sarah con Antony, che le sta spiegando quanto è dispiaciuto di essersi incasinato la vita. Se è diventato un delinquente è stato solo per disperazione, dice, perché non trovava lavoro. Non sapeva come mantenere suo figlio.

Figlio?

Allora me la sento calare addosso: l’ombra del coperchio rassicurante della mia vita che assomiglia a una scatola di cioccolatini. Mi sento rimpicciolire sempre più nel buio, mentre ascolto Antony che spiega che sta litigando con la sua ex per le visite, che dice a Sarah che mai e poi mai permetterà che suo figlio cresca senza conoscere il padre. Non ti sembra terribile, Sarah? Che cresca senza conoscere suo padre?

Ora è Sarah a sorprendermi: con voce rotta dice che trova davvero splendido che gli stia così a cuore, molti uomini non farebbero come lui, sarebbero più che contenti di scaricarsi di dosso quella responsabilità. «Ma che brutta persona che sono. Noi che ce ne stiamo qui a tirare in ballo Stella McCartney».

E la verità?

A questo punto non ne ho la più pallida idea. Cosa so? Questa donna, vale a dire io, la cui unica battaglia sulle autorizzazioni riguardanti il figlio è stata per un divieto ai minori di diciotto al cinema locale.

Segue un’ora di bisbigli, e io ce la metto tutta per riprendere a leggere, per assimilare i vantaggi della più silenziosa generazione di turbine a vento, ma poi Antony e Sarah tornano al vagone ristorante. Altra birra, penso. Grosso errore, Sarah. Ed è qui che decido.

Sì. Andrò anch’io al buffet con il pretesto di un caffè, e in coda o passando in corridoio fingerò di avere dei guai con il telefono. Chiederò aiuto a Sarah nella speranza di allontanarla da Antony per dirle due paroline sottovoce e l’avvertirò che se non si tira fuori da questa scemenza, io telefono ai suoi. Immediatamente, mi capisci, Sarah? Trovare il numero è facile.

Il vagone ristorante è tre carrozze più in là. Urto i sedili mentre attraverso la seconda, sbatto di qui e di là, picchio con le gambe, poi passando dalla porta automatica cerco il telefono nella tasca della giacca.

Ed è in quel momento che li sento.

Nessun imbarazzo. Nessun tentativo di non farsi sorprendere. Ci stanno dando dentro, con foga e senza ritegno, nella toilette del treno. Si sbattono in quel cubicolo come animali.

So che sono loro da ciò che dicono. Da quanto tempo. Te ne sono grato. Sarah, oh, Sarah…

E sì, lo ammetto. Ci sono rimasta come un baccalà.

Infuocata di umiliazione. Furiosa. Tramortita, e con il bisogno disperato, disperatissimo, di scappare da quei rumori inequivocabili.

E poi la vergogna per tanta ingenuità. Per la mia ridicola presunzione.

Passo nella carrozza successiva, senza fiato e agitata tanto ho fretta di allontanarmi dalla mia eclatante cantonata.

Brave ragazze?

In coda al vagone ristorante di nuovo mi rimbombano nell’orecchio le pulsazioni del mio cuore, mentre mi domando se ormai non li abbia sentiti anche qualcun altro quei due nel bagno. Devo riferire?

E poi mi chiedo: riferire a chi, Ella? Vuoi ascoltarti per piacere? Altre persone farebbero precisamente ciò che avresti dovuto fare fin dal principio. Badare ai fatti tuoi.

A quel punto le mie emozioni mutano, e mi chiedo invece com’è che mi sono tagliata fuori in questo modo, che mi sono accartocciata su me stessa. Questa donna che evidentemente non capisce un fico secco dei giovani. E non solo dei giovani.

Sono dentro la mia testa adesso, in un caleidoscopio di ricordi. Immagini dai contorni sfocati. Le riviste che abbiamo trovato nella stanza di nostro figlio. Quella sera dopo il cinema, quando siamo tornati a casa in anticipo e abbiamo beccato Luke che tentava di violare il parental control di Sky per guardare dei film porno.

Così, mentre viaggio su questo treno del cavolo, scopro di avere un urgente bisogno di parlare con mio marito. Con il mio Tony. Per resettare la mia bussola.

Ho bisogno di chiedergli se il problema in realtà non sia io, e non gli altri. Sono del tutto ridicola, Tony? No, dico sul serio, ho bisogno che tu sia sincero con me. Quando abbiamo litigato per i canali di Sky e le riviste di Luke.

Sono una spaventosa bacchettona? Lo sono davvero?

Cerco veramente di chiamarlo, dall’albergo dopo la conferenza. Voglio raccontargli come alla fine ho fatto la cosa più sensata andando a mettermi in fondo al treno. Badando ai fatti miei. È chiaro che le ragazze sono abbastanza scafate.

Ma lui è fuori e non ha il cellulare con sé: è uno dei pochi che pensa ancora che ti facciano venire un cancro al cervello, così mi ritrovo a parlare con Luke e mi rilasso mentre mi descrive la cena, un tajin che ha preparato seguendo una ricetta scaricata da una nuova app. Al mio Luke piace cucinare, e io lo stuzzico su come avrà ridotto la cucina, scommettendo che avrà usato tutti gli elettrodomestici e le stoviglie di casa.

Poi viene mattina all’hotel.

Detesto profondamente questa sensazione: l’intorpidimento da aria condizionata, quasi una sensazione di distacco dal proprio corpo; un letto estraneo e la mancanza di disciplina al minibar. La mia piccola concessione alberghiera: un brandy o due dopo una lunga giornata.

Sono solo le sei e mezzo, e ho una gran voglia di dormire ancora. Dieci inutili minuti e ci rinuncio, mentre osservo le bustine di tristezza nella ciotola di fianco al bollitore. Lo faccio sempre nelle stanze d’albergo. Mi illudo di bere caffè istantaneo solo questa volta, per poi buttarlo nel lavandino del bagno.

Contemplo la fila di bottigliette vuote e storco la bocca nel sentir fluttuare nella stanza un pensiero terribile. Do un’occhiata al telefono accanto al letto e sono scossa da un sussulto, quel familiare fremito di paura d’aver fatto qualcosa di imbarazzante, qualcosa che rimpiangerò.

Torno a guardare la fila di bottigliette e ricordo che ieri sera, dopo il secondo brandy, ho deciso di chiamare il servizio abbonati per farmi dare il numero dei genitori delle ragazze. A quel pensiero mi viene freddo, ho la memoria ancora annebbiata. Hai telefonato davvero? Pensaci, Ella, pensa.

Guardo di nuovo il telefono e mi concentro bene. Ah, sì. Ora ricordo e quando finalmente ci arrivo mi si scarica la tensione che sentivo nelle spalle. Avevo il ricevitore in mano e nel preciso istante in cui stavo componendo il numero, mi sono resa conto che non avevo la testa a posto, e non solo per colpa del brandy. Non ero mossa da una causa nobile: volevo telefonare non perché ero preoccupata per le ragazze, ma per punirle; perché ero arrabbiata per come mi aveva fatto sentire Sarah.

Così ho fatto la cosa giusta. Ho posato il ricevitore, ho spento la luce e mi sono messa a dormire.

Bene. Ottimo. Il sollievo è così grande che decido di provare il caffè istantaneo per festeggiare.

Prima accendo il bollitore e poi il televisore. Ed è lì che mi sovviene. Un momento circoscritto, dapprima sospeso, ma che poi si allarga e allarga, oltre questa stanza, oltre questa città. Il momento in cui mi accorgo che la mia vita non sarà mai più la stessa.

Mai più.

L’audio è azzerato dal film di ieri sera che ho guardato con i sottotitoli per non disturbare gli ospiti delle camere adiacenti.

Ma l’immagine è inconfondibile. È lì, bellissima. Presa da una pagina di Facebook. I suoi occhi verdi che brillano e i capelli biondi che le scendono a cascata sulla schiena. Riconosco dietro di lei l’isola di St Michael’s Mount.

E sento il mio corpo zoomare all’indietro, attraverso il guanciale e la testiera del letto e il muro finché non mi ritrovo a guardare lo schermo da molto più lontano. Questo schermo su cui scorrono parole orribili, nauseanti. Scomparsa… Anna… Scomparsa… Anna… Il bollitore strilla sputando nuvole rabbiose sullo specchio, mentre io faccio mentalmente le mie telefonate tutte in una volta.

Un caos, nero e terribile, di parole. Prive di qualsiasi effetto.

Alla polizia. A Tony.

Io volevo telefonare ai genitori, credetemi…