62

Oriente

Una moltitudine di torce fiammeggianti circondava il vecchio savio, che ormai da ore si aggirava intorno al gelso per decifrare l’iscrizione. Così, almeno, pareva a Niclays. Per tutto quel tempo nessuno dei pirati aveva osato aprir bocca.

Quando infine l’uomo si raddrizzò, tutti lo fissarono impazienti. Seduta in disparte, la Dorata Imperatrice affilava la spada tenendola ferma con il braccio di legno. A ogni stridio della cote, i peli sul collo di Niclays si drizzavano un po’ di più.

«Ho finito» disse il vecchio.

«Bene.» La Dorata Imperatrice non lo degnò di uno sguardo. «Dicci cos’hai scoperto.»

Cercando di controllare il respiro, Niclays si tolse il fazzoletto di tasca e si asciugò la fronte.

«È in antica lingua seiikinese. Racconta la vicenda di una donna di nome Neporo, vissuta più di mille anni fa su quest’isola. Komoridu.»

«Non vediamo l’ora di sentirla» lo incalzò la Dorata Imperatrice.

L’uomo fissava il gelso con un’espressione che Niclays non trovò affatto rassicurante.

«Neporo era originaria di Ampiki, un piccolo villaggio di pescatori. Si guadagnava da vivere come cacciatrice di perle, ma nonostante gli sforzi lei e la sua famiglia erano talmente poveri che certi giorni dovevano accontentarsi di mangiare foglie e frutti della foresta.»

Ecco perché Niclays non aveva mai capito l’ossessione di Jannart: la storia, quasi sempre, non faceva che svelare esistenze deprimenti.

«Alla morte della sorella minore, Neporo decise di prendere in mano il proprio destino: voleva trovare le rarissime perle dorate tuffandosi nell’Oceano Sconfinato, dove nessun altro osava spingersi. L’acqua laggiù era troppo fredda, le onde troppo alte… ma Neporo non aveva scelta. Uscì dal porto di Ampiki e remò fino al mare aperto, ma appena si tuffò in acqua un grande tifone le portò via la barca, lasciandola sola in balia delle onde.

«Riuscì in qualche modo a non affogare. Non sapendo leggere le stelle, decise di nuotare verso quella più luminosa, finché all’orizzonte non comparve un’isola. Era disabitata… ma in una radura Neporo trovò un gelso di proporzioni straordinarie. Moriva di fame, così si nutrì dei suoi frutti.» Il vecchio fece scorrere un dito sulle parole intagliate nella corteccia. «Neporo si inebriò col vino millefiori. Un’antica descrizione poetica dell’elisir di lunga vita.»

La Dorata Imperatrice stava ancora affilando la spada come se niente fosse.

«Riuscì ad andarsene dall’isola e tornare a casa. Per dieci anni condusse una vita normale, sposò un pittore dal cuore buono con cui ebbe un figlio. Ma poi amici e vicini si accorsero che Neporo non invecchiava e non era mai debole né malata. Alcuni dicevano che fosse una dea, altri iniziarono ad avere paura di lei. Alla fine Neporo fuggì da Seiiki per trasferirsi a Komoridu, dove nessuno l’avrebbe additata come un mostro. Il fardello dell’immortalità era così pesante che per qualche tempo pensò di togliersi la vita. Alla fine, tuttavia, decise di vivere per amore di suo figlio.»

«Se l’albero l’aveva resa immortale,» intervenne la Dorata Imperatrice senza staccare gli occhi dalla lama «come poteva pensare di togliersi la vita?»

«L’albero l’aveva resa immune all’invecchiamento, non alla morte violenta.» Il savio fissò il gelso. «Negli anni molte persone la raggiunsero sull’isola. Colombe nere e corvi bianchi accorrevano al suo fianco, poiché era la madre dei reietti.»

Laya strinse più forte la mano di Niclays, che ricambiò.

«Dobbiamo andarcene» sussurrò l’interprete. «Niclays, il gelso è morto. Non troveremo nessun elisir.»

Niclays deglutì. La Dorata Imperatrice sembrava presa dal racconto: forse avrebbe potuto sgattaiolare via senza farsi vedere.

Eppure si ritrovò con i piedi ancorati al terreno: doveva sentire la fine della storia.

«Aspetta» biascicò a Laya.

«Poco dopo l’eruzione del Monte dei Lamenti,» continuò il vecchio «un drago fece due doni a Neporo: venivano chiamate gemme celesti… e grazie al loro potere, disse il drago, Neporo avrebbe potuto annientare la Bestia della Montagna per un millennio.»

«Dimmi una cosa» lo interruppe Padar. «Perché mai un drago avrebbe dovuto chiedere aiuto a un essere umano?»

«L’albero non lo spiega» fu la placida risposta del savio. «Per quando solerte, Neporo poteva controllare soltanto una gemma per volta; aveva bisogno di qualcuno che la aiutasse con la seconda. A quel punto avvenne un miracolo: sulle spiagge di Komoridu giunse una principessa meridionale. Il suo nome era Cleolind.»

Niclays e Laya si scambiarono un’occhiata perplessa. Nulla di tutto ciò era raccontato nei libri di preghiera.

«Anche Cleolind possedeva il dono della vita eterna. Già una volta aveva sconfitto il Senza Nome, ma era consapevole che presto le ferite del mostro si sarebbero rimarginate. Determinata a distruggerlo una volta per tutte, era partita alla ricerca di qualcuno che la aiutasse nell’impresa. Neporo era la sua ultima speranza.» L’uomo fece una pausa per inumidirsi le labbra. «A Cleolind, principessa di Lasia, andò la gemma calante. A Neporo, sovrana di Komoridu, la sua gemella. Insieme sprofondarono il Senza Nome nell’Abisso… placando la sua ira per mille anni, ma non un’alba di più.»

Niclays si accorse di avere la bocca aperta e di non riuscire a chiuderla.

Perché, se quella storia era vera, il mito fondante della Casata di Berethnet sarebbe crollato. A tenere a bada il Senza Nome erano due pietre, non una dinastia di regine.

Oh, per Sabran sarebbe stata una splendida sorpresa.

«Per Cleolind, già indebolita dalla prima battaglia contro il Senza Nome, il secondo scontro si rivelò fatale. Neporo inviò le sue spoglie in Meridione, insieme a una delle due gemme.»

«E l’altra… la gemma crescente» disse a bassa voce la Dorata Imperatrice. «Che ne è stato di quella?»

Il savio appoggiò di nuovo una mano ossuta sul tronco.

«Parte della storia si è persa» rispose. Niclays notò che in quel punto la corteccia era stata dilaniata a colpi d’accetta. «Per fortuna la fine è ancora leggibile.»

«E?»

«A quanto pare qualcuno bramava il potere della gemma. Per tenerla al sicuro, un discendente di Neporo se la cucì nel fianco in modo da non separarsene mai. Quindi partì da Komoridu per condurre un’umile esistenza ad Ampiki, nella stessa casa abitata da Neporo. Alla sua morte la gemma venne cucita nel fianco di sua figlia. E così via.» Pausa. «La gemma vive tuttora in un discendente di Neporo.»

Finalmente la Dorata Imperatrice alzò lo sguardo dalla spada. Niclays riusciva a sentire i battiti del proprio cuore.

«L’albero è morto» disse la donna «e la gemma è scomparsa. Cosa significa per noi?»

«Anche se il gelso non fosse morto, qui si dice che solo la primissima persona che mangia il suo frutto diventa immortale. Agli altri il dono della vita eterna è negato» mormorò il vecchio. «Mi dispiace, onorevole, siamo in ritardo di secoli. Su quest’isola ci sono solo fantasmi.»

A Niclays venne da vomitare, e la sensazione si acuì quando la Dorata Imperatrice si alzò puntandogli gli occhi addosso.

«Onorevole capitano» gemette con voce tremula «in fondo vi ho portata nel posto giusto. Non è così?»

Avanzava verso di lui con la spada sguainata. Niclays strinse il bastone tra le mani fino a farsi male.

«Ciò che cercate potrebbe non essere perduto per sempre. A Mentendon Jannart aveva altri libri» supplicò ancora con voce sempre più stridula. «Per amore del Santo, non sono stato io a darvi quella stupida mappa…»

«Vero,» ammise la Dorata Imperatrice «ma sei stato tu a farmi fare questo viaggio inutile.»

«No. Aspettate… posso ancora preparare un elisir con la scaglia di drago, ne sono certo. Lasciate che vi aiuti…»

Era sempre più vicina.

Ma poi Laya lo afferrò per il gomito. Il bastone gli cadde a terra, e Niclays si sentì trascinare in mezzo agli alberi.

Colsero i pirati di sorpresa. Invece di prendere le scale, Laya sfrecciò nel bosco tirandosi appresso Niclays mentre alle loro spalle si levavano grida di furia, spaventose come l’urlo di un corno da caccia.

«Laya, sei davvero eroica, ma le mie ginocchia non possono farcela contro un branco di pirati assetati di sangue.»

«Fa’ in modo che reggano, Testarossa, se ci tieni a non perderle» gridò di rimando Laya. Oltre al panico, nel suo tono si percepiva una nota di divertimento. «Dobbiamo arrivare alla barca prima di loro.»

«Ma ci sono le guardie!»

Lasciandosi scivolare giù per un breve pendio roccioso, Laya si tolse il pugnale dalla cintura. «Che c’è?» chiese, allungando l’altra mano per aiutarlo. «Credi che in tutti questi anni in mezzo ai pirati io non abbia imparato a combattere?»

Niclays atterrò con una tale forza che temette di essersi rotto le gambe. Laya lo spinse contro un albero.

Rimasero in ascolto, nascosti in una cavità del tronco. Le ginocchia urlavano di dolore, una caviglia pulsava. Tre pirati li superarono di corsa. Appena svanirono nel fogliame, Laya balzò in piedi e lo sollevò di peso.

«Stammi dietro, Testarossa.» Non mollava. «Forza, che torniamo a casa.»

Casa.

Avanzarono ancora, strisciando nel fango e correndo, almeno quando possibile. Ben prima di quanto Niclays si aspettasse, in lontananza comparve la spiaggia. C’era anche la barca, sorvegliata da due guardie sole.

Potevano farcela. Potevano remare verso nord fino a raggiungere l’Impero dei Dodici Laghi e da lì scappare dall’Oriente una volta per tutte.

Laya gli lasciò la mano per prendere l’arma, quindi corse sulla sabbia con il mantello che le sventolava alle spalle. Era veloce, ma, prima che riuscisse a colpire una delle guardie, Niclays si sentì afferrare da dietro. Li avevano raggiunti. «Laya» urlò. Troppo tardi. Avevano preso anche lei: gridava mentre Ghonra le torceva il braccio dietro la schiena.

Padar costrinse Niclays a mettersi in ginocchio. «Padar, Ghonra,» supplicò Laya «non fatelo. Ci conosciamo da tanto tempo. Vi prego, abbiate pietà…»

«Proprio perché ci conosci dovresti sapere che stai sprecando il fiato.» Ghonra le strappò il pugnale per puntarglielo alla gola. «Ti ho dato io quest’arma» latrò. «Sono stata gentile, Yidagé. Ma di’ un’altra parola e la userò per strapparti la lingua.»

Laya chiuse la bocca di scatto. Niclays avrebbe voluto dirle che era tutto a posto, di stare zitta e guardare dall’altra parte. Qualunque cosa purché non uccidessero anche lei.

La sua vescica stava per cedere. Con i muscoli tesi fino allo spasmo, si sforzò di dissociare la mente dal corpo, di fuggire da se stesso e rifugiarsi nei ricordi.

Tornò in sé solo quando la Dorata Imperatrice, minimamente turbata dal breve inseguimento, gli si mise davanti, e allora si vide ridotto a una tacca sul suo braccio di legno.

A quel punto capì.

Voleva sentire il sole sul viso. Voleva leggere e passeggiare sui ciottoli delle strade di Brygstad. Voleva ascoltare musica, visitare musei, gallerie d’arte e teatri, meravigliarsi davanti alle bellezze della creazione umana. Voleva scoprire il Meridione e il Settentrione e bere tutti i vini che avevano da offrire. Voleva ridere.

Voleva vivere.

«Ho condotto il mio equipaggio da un capo all’altro di due mari diversi» sussurrò la Dorata Imperatrice, così piano che solo lui poteva sentirla, «per nulla più di una stupida leggenda. Avranno bisogno di qualcuno su cui sfogare la delusione… e una cosa è certa, Maestro di Ricette, quel qualcuno non sarò io. E a meno che tu non voglia che Yidagé si assuma l’onere, temo proprio che dovrai essere tu.» Gli sfiorò il mento con la lama. «Potrebbero anche non ammazzarti. Ma a un certo punto sarai tu a supplicare che lo facciano.»

Il volto della donna divenne sfocato. Poco lontano Ghonra prese Laya per la gola, pronta a ucciderla.

«Posso trovare il modo di incolpare lei.» La Dorata Imperatrice fissava l’interprete che l’aveva servita per decenni senza un briciolo di rimpianto. «Mentire non costa nulla, dopotutto.»

Già una volta Niclays aveva lasciato che una giovane musicista venisse torturata al posto suo: il gesto di un uomo capace ormai di pensare soltanto a se stesso. Se voleva morire con un briciolo di dignità, non avrebbe consentito che Laya soffrisse per lui più di quanto già non aveva sofferto.

«Non fatelo» disse piano.

Laya scosse il capo, una smorfia addolorata sul viso.

«Riportatelo alla Missione, e raccontate alla ciurma cosa abbiamo trovato.» La Dorata Imperatrice si alzò in piedi. «Vediamo che ne faranno di…»

Ma poi si interruppe. Niclays sollevò lo sguardo.

La spada della Dorata Imperatrice cadde a terra. La donna aveva una lama ricurva puntata alla gola, e in piedi alle sue spalle c’era Tané Miduchi.

Niclays non credeva ai propri occhi. Fissò a bocca spalancata la donna che aveva tentato di ricattare.

«Tu» balbettò.

Ovunque fosse stata, negli ultimi mesi non doveva essersela passata troppo bene. Era dimagrita, aveva le occhiaie. E le mani macchiate di sangue fresco. «Dammi la chiave» ordinò in lacustrino, con voce bassa e colma d’odio. «La chiave della catena.»

I pirati non osavano muoversi e persino il capitano stava immobile, un’espressione incredula dipinta sul volto.

«Ora» li incalzò Tané «o il vostro capitano morirà.» La mano sull’elsa era ben salda. «La chiave.»

«Qualcuno gliela dia» sbottò la Dorata Imperatrice. Pareva più che altro infastidita dal contrattempo. «Se vuole la sua bestia, se la prenda pure.»

Ghonra si avvicinò. Se la sua madre adottiva fosse morta su quella spiaggia, il titolo di Dorata Imperatrice sarebbe passato a lei, ma Niclays aveva sempre riconosciuto nella ragazza un senso di lealtà filiale. Ghonra si staccò una chiave di bronzo da una catenina appesa al collo.

«No» disse la Miduchi. «La chiave è di ferro.» La Dorata Imperatrice iniziava a sanguinare. «Provate a fregarmi ancora e l’ammazzo.»

Ghonra fece un sorrisetto, quindi tirò fuori un’altra chiave e gliela lanciò.

«Eccola, adoratrice di draghi» sussurrò in tono suadente. «Buona fortuna per il ritorno alla nave.»

«Lasciatemi andare o mi costringerete a usare questa.»

Tané spinse di lato la Dorata Imperatrice e sollevò la mano libera. Dentro c’era una gemma color vetro di cobalto, grande come una noce.

Non poteva essere.

Niclays scoppiò a ridere. Una risata isterica, incontrollabile.

«La gemma crescente» mormorò il vecchio savio, fissandola. «Tu. Tu sei la discendente di Neporo!»

La Miduchi non disse una parola.

Tané Miduchi. Erede della sovrana di Komoridu. Padrona di una roccia desolata e di un albero morto. Era evidente dalla sua espressione che non ne aveva idea. Spesso i cavalieri venivano da condizioni disagiate: doveva essere stata separata dalla sua famiglia prima che avessero il tempo di spiegarle la verità.

«Porta la mia amica con te» esclamò Niclays all’improvviso, gli occhi ancora colmi di lacrime bollenti. Indicò Laya, immersa in una preghiera silenziosa. «Ti supplico, Lady Tané. Lei è innocente.»

«Per te» rispose la Miduchi con sommo disprezzo «non faccio proprio niente

«E io allora?» chiese la Dorata Imperatrice. «Non mi vuoi morta, cavaliere?»

La ragazza serrò la mascella. Strinse la presa sull’elsa della spada.

«Vieni. Sono vecchia e lenta, bambina. Hai l’occasione di mettere fine allo sterminio dei draghi.» La Dorata Imperatrice si colpì il palmo della mano con la parte piatta della propria lama. «Tagliami la gola. Riconquista il tuo onore.»

Con un sorriso gelido, la Miduchi serrò il pugno intorno alla gemma.

«Non morirai stanotte, macellaia,» rispose «ma quello che hai di fronte a te è un fantasma. Quando meno te lo aspetti, ritornerà a perseguitarti, e ti rincorrerà fino ai confini della terra. Giuro solennemente che la prossima volta che ci vedremo il tuo sangue tingerà il mare di rosso.»

Rinfoderò la spada e avanzò verso il buio. Con lei se ne andava l’ultima possibilità di salvezza di Niclays.

A quel punto uno dei pirati fece fuoco.

Tané Miduchi si fermò. Niclays vide le sue dita stringersi intorno alla gemma, e percepì un lieve tremore.

Un boato sordo riempì il cielo. Laya gridò. Niclays non ebbe quasi il tempo di guardare in alto, verso il muro d’acqua che stava per abbattersi sulla spiaggia, che tutto fu sommerso da un’oscurità ghiacciata.

Finì a testa in giù. L’acqua salata gli bruciava nelle narici. Accecato dal terrore, lottò contro i flutti mentre una scia di bolle gli usciva dalla bocca. Poteva vedersi solo le mani. Quando tornò in superficie, si accorse di aver perso gli occhiali. Dal poco che riusciva a distinguere, i pirati erano sparpagliati qua e là, la scialuppa era vuota e di Tané Miduchi non c’era traccia.

«Trovatela!» sentì strillare la Dorata Imperatrice. Niclays sputacchiò acqua salata. «Alla nave! Portatemi quella gemma!»

Il mare si ritirò all’improvviso, come risucchiato nel ventre di un dio. Niclays si ritrovò a gattoni sulla spiaggia, senza fiato, i capelli che gli gocciolavano negli occhi

Sulla sabbia davanti a lui giaceva una spada. La prese. Se fosse riuscito a trovare Laya, avrebbero avuto una speranza. Potevano combattere, tornare alla nave e fuggire…

Mentre gridava il suo nome, si accorse dell’ombra che incombeva su di lui. Alzò l’arma, ma la Dorata Imperatrice la fece volare via con un calcio.

Un lampo d’acciaio, poi un altro.

Schizzi di sangue sulla sabbia.

Dalla bocca gli uscì un gorgoglio schiumoso. Annaspò, una mano stretta intorno alla gola. L’altra non c’era più. Da qualche parte in mezzo alla confusione, Laya stava urlando il suo nome.

«I miei uomini vogliono carne.» La Dorata Imperatrice raccolse la mano mozza come se maneggiasse un pesce morto. Niclays fu travolto dalla nausea: con le macchie della vecchiaia ben visibili, sembrava ancora viva. «Consideralo un atto di misericordia. Prenderei anche il resto, ma il mio carico è in pericolo e trascinarti fin là mi rallenterebbe. Sono certa che capisci, Roos. Hai sempre avuto fiuto per gli affari.»

Le tenebre pulsavano dalla cavità spalancata nel suo braccio. Non aveva mai provato un dolore simile. Come olio bollente. Un sole che incendiava il moncherino. Non avrebbe mai più tenuto in mano una penna, era questa l’unica cosa che riusciva a pensare mentre la vita gli scappava via dalla gola. Quindi Laya corse al suo fianco per tenergli premuta la ferita.

«Resisti» disse con voce rotta. «Resisti, Niclays.» Lo strinse a sé. «Sono qui. Rimarrò io con te. Riposerai a Mentendon, non qui. Non ora. Te lo prometto.»

Le sue parole furono inghiottite da un ronzio. Un istante prima che il mondo diventasse tutto nero, Niclays guardò in alto e scoprì infine quale forma avesse la morte.

La morte, scoprì, aveva le ali.

Ornamento di separazione

La Missione era così mastodontica che le onde quasi non la smuovevano e chi si addormentava a bordo poteva sognare di essere sulla terraferma. Loth era sottocoperta e ascoltando il baccano proveniente dal ponte ebbe l’ennesima conferma di essere finito in un covo di criminali. Non osava posare la basilarda neanche per un momento, ma per sicurezza aveva spento la lanterna. Era un miracolo che non fosse ancora sceso nessuno. Da quando Tané era andata via sembrava trascorsa un’eternità.

Il wyrm, o meglio, il drago, lo osservava con uno spaventoso occhio turchino, mentre lui non sollevava lo sguardo dal pavimento.

Era vero: la creatura, pur avendo le stesse dimensioni, non assomigliava affatto, per fattezze e comportamento, alle bestie draconiche occidentali. Le corna erano quasi identiche a quelle dei Grandi dell’Ovest, ma le affinità si esaurivano lì. Dal collo fluiva una criniera di peli sinuosi come alghe. Aveva il muso ampio, due occhi tondi come brocchieri e le scaglie più vicine a quelle di un pesce che di una lucertola. Eppure Loth non aveva alcuna intenzione di fidarsi di quell’essere, né tantomeno di rivolgergli la parola. Era bastato dare un’occhiata alle zanne, bianche e affilate come rasoi, per capire che poteva ridurlo a brandelli tanto quanto Fýredel.

Rumore di passi. Loth scivolò dietro una cassa stringendo la basilarda al petto.

Il sudore gli grondava sulla fronte. Non aveva mai ucciso nessuno, nemmeno la coccatrice. Malgrado ciò che aveva passato, era riuscito chissà come a mantenersi la coscienza pulita da quella specifica macchia… ma era pronto a tutto per sopravvivere. E per salvare il suo paese.

Quando comparve, Tané aveva il fiatone, barcollava come un’ubriaca ed era completamente fradicia. Senza dire una parola, si estrasse una chiave dalla cintola e aprì il primo lucchetto. Loth le diede una mano a sciogliere le catene.

Il drago si riscosse ed emise un brontolio cupo. Ordinando a Loth di imitarla, Tané fece un passo indietro lasciandogli lo spazio per sollevare il muso e stirarsi in tutta la sua formidabile lunghezza. Loth non se lo fece ripetere due volte. Per la prima volta, la bestia sembrava arrabbiata. Aveva le narici dilatate, gli occhi ardenti. Allargò le zampe per ritrovare l’equilibrio, quindi, con una potenza inaudita, schiantò la coda contro il fianco della nave.

La Missione sussultò. Per poco Loth non perse l’equilibrio mentre il pavimento gli tremava sotto i piedi.

Dal ponte provennero delle grida. Il drago ansimava. Se fosse stato troppo debole per rompere la chiglia, sarebbero morti lì.

Tané lanciò delle urla di incoraggiamento. Qualunque cosa disse, funzionò. Il drago si rimise in posizione, scoprì le zanne e diede un’altra sferzata di coda. Un’esplosione di schegge di legno. Ancora. Una cesta schizzò dall’altra parte della stiva. Ancora. Le voci dei pirati erano più vicine, i loro passi rimbombavano sulle scale. Con un ringhio, il drago si scagliò di peso contro la murata, colpendola energicamente con il cranio… e stavolta dalla spaccatura entrò un getto d’acqua. Tané corse dalla creatura e le montò sulla schiena.

Peccato mortale o morte certa. Il Cavaliere di Coraggio avrebbe suggerito la seconda, ma lui non aveva mai dovuto raggiungere l’Impero dei Dodici Laghi con la stessa fretta di Loth. Dicendo addio per sempre a Halgalant, imitò l’assassina adoratrice di wyrm. Tentò disperatamente di arrampicarsi sulla bestia, ma le scaglie erano scivolose come olio.

Tané gli allungò una mano. Con uno strano sapore salato in bocca, ci si aggrappò lasciandosi issare. Cercando un appiglio, fece del suo meglio per placare il panico montante. Era a cavallo di un wyrm.

«Thim» gridò poi. «Che ne sarà di Thim?»

Ma la domanda si perse nel frastuono degli artigli del drago che distruggevano la prigione. In preda al terrore, Loth si avvinghiò a Tané, che aveva abbassato la testa e si reggeva alla criniera umida in cui erano immersi. Con un’ultima spinta, la bestia uscì dalla crepa aperta nel fianco della Missione. Loth urlò mentre si tuffavano tra le onde.

Un rombo nelle orecchie. Sale sulle labbra. Una sferzata d’aria gelida. Qualcuno sparava sul ponte della Missione, le bocche da fuoco si stavano aprendo e Loth era a cavalcioni di un drago. La creatura scivolava flessuosa tra i cavalloni, schivando ogni proiettile. Tané gridava parole disperate, ancora appesa alla criniera.

Poi si librò in aria, come una piuma sollevata dal vento, le scaglie che grondavano acqua man mano che il mare si allontanava sotto di loro. Con le cosce doloranti per lo sforzo di rimanere aggrappato, Loth strinse le braccia intorno a Tané e osservò i pirati trasformarsi in granelli di sabbia.

«Santo, pietà» mormorò. «Donzella benedetta, proteggi il tuo umile servitore.»

Un lampo di luce attirò la sua attenzione verso ovest. Le vele della Colomba Nera bruciavano… poi all’improvviso comparve uno stormo di wyrm. L’Armata Draconica. Loth scrutò nel buio, il cuore impazzito.

C’era sempre un comandante.

Un lampo di fuoco annunciò la presenza del Grande dell’Ovest. Volteggiò sopra la Colomba Nera abbattendo uno degli alberi con un colpo di coda.

Valeysa. Fiamma della Disperazione. L’aveva detto Harlowe che era vicina. Le sue scaglie, roventi come tizzoni, sembravano nutrirsi del fuoco che ora dilaniava la flotta. Mentre i suoi seguaci sciamavano sopra la Missione che rollava in balia dei flutti, il grido di Valeysa risuonò fin dentro le ossa di Loth.

Tané incitò il drago a proseguire. La Rosa Eterna era in vista; se fossero scesi ora, Valeysa li avrebbe notati di sicuro, ma tirare dritto significava abbandonare Thim al proprio destino. Quando la creatura si esibì in un tuffo sinuoso, Loth ebbe la certezza che lo stomaco gli si sarebbe rivoltato.

Thim era sulla coffa di vedetta. Vedendoli arrivare, si arrampicò ancora più in alto, fin sulla cima dell’albero maestro, dove rimase acquattato in bilico. Passandogli accanto, il drago lo cinse con la coda e il cannoniere, con le gambe a penzoloni nel vuoto, lanciò un urlo sentendosi sollevare in volo sopra la Rosa Eterna.

Il drago si diresse di nuovo verso l’alto, al riparo della cappa di nuvole. Sembrava che nuotasse nell’aria. Thim riuscì a fatica ad arrampicarglisi sulla schiena, usando le scaglie come appigli. Quando gli fu vicino, Loth lo aiutò a issarsi sul collo.

Poi udì uno stridio da pelle d’oca e si accorse della viverna che li inseguiva sputando lingue di fuoco.

Il drago la degnò dell’attenzione che avrebbe potuto riservare a una mosca. La fiammata successiva gli arrivò talmente vicina che Loth sentì la puzza di zolfo. Thim caricò la pistola e sparò contro la viverna, che stridette ma non smise di seguirli. Loth chiuse gli occhi. L’alternativa era tra sfracellarsi al suolo e finire arrostito come un’anatra.

Prima che accadesse una di queste due cose, si alzò dal nulla un vento furioso che per poco non li disarcionò tutti quanti. Il rumore era assordante. Appena gli fu possibile socchiudere un occhio, Loth si accorse che il drago sputava vento, proprio come le creature draconiche facevano col fuoco. I suoi occhi scintillanti avevano il colore della volta celeste. Dalle narici gli uscivano nubi di vapore e gocce d’acqua gli imperlavano le scaglie prima di rovesciarsi in basso come pioggia.

Il wyrm gridò di rabbia. Con la pelle fumante spalancò le fauci, ma il fuoco gli rimase bloccato in gola… e poi, alla fine, il vento gli piegò le ali facendolo colare a picco verso l’acqua.

Loth faticava a respirare a causa degli schiaffi della pioggia. Un lampo di luce li colpì mentre il drago penetrava nelle nuvole, vittorioso, avvolgendosi nella nebbia man mano che saliva.

Fu in quel momento che Tané scivolò di lato. Vedendola cadere, l’istinto benevolo di Loth prese il sopravvento e gli fece allungare una mano. Le sue dita afferrarono la tunica della ragazza all’ultimo secondo. Il drago sbuffò. Col fiato corto, Loth trascinò Tané di nuovo in groppa mentre Thim cingeva entrambi con un braccio.

Tané era priva di sensi, la testa le ciondolava a destra e sinistra. Loth si assicurò che la scatola fosse ancora legata alla sua cintura; se si fosse slacciata ora, la gemma sarebbe andata perduta per sempre in fondo al mare.

«Spero tu sappia comunicare con i draghi» gridò a Thim. «Puoi dirgli dove andare?»

Nessuna risposta. Quando si voltò verso di lui, si accorse che era incantato a contemplare il cielo.

«Sto cavalcando un dio» disse con voce sognante. «È un onore che non merito.»

Almeno c’era qualcuno che in quell’incubo leggeva una benedizione. Loth si fece forza e tentò di rivolgersi direttamente alla creatura.

«Piacere di conoscerti, potente drago dell’Est» urlò per sovrastare il fischio del vento. «Non so se riesci a capirmi, ma io devo assolutamente parlare con l’imperatore dei Dodici Laghi. È una questione della massima importanza. Potresti portarci al suo palazzo?»

Un gorgoglio risalì lungo il corpo del drago.

«Tieni stretta Tané» rispose la creatura in inysh. «E sì, figlio dell’Ovest, vi porterò alla Città dei Mille Fiori.»

Il priorato dell’albero delle arance
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