23
Meridione
Il rampone si piantò nel ghiaccio e Lord Arteloth Beck avanzò a capo chino nel vento che ululava tra i Fusi. Sotto i guanti le sue dita erano rosse come se le avesse appena intinte nell’estratto di robbia e trasportava, buttata sulle spalle, la carcassa di un montone.
Per giorni le lacrime gli si erano ghiacciate sulle guance, ma ora pareva che il freddo gli fosse penetrato anche dentro: l’agonia del cammino rendeva quasi impossibile pensare a Kit. Sotto quell’aspetto, il Santo era clemente.
Calava la notte. Loth aveva la barba inamidata dalla neve. Attraversò un rigagnolo di lava che fuoriusciva da una fenditura nella roccia e strisciò dentro una caverna, dove piombò in un sonno disturbato. Recuperata un po’ di energia, si impose di accendere il fuoco con quel poco di legna che era riuscito a raccogliere. Sfregò le pietre focaie e soffiò per incoraggiare la fiamma. Poi, facendosi forza, si accinse a scuoiare il montone. Quando, la terza sera di viaggio, era stato costretto a spellare un animale per la prima volta in vita sua, innanzitutto aveva vomitato e poi pianto amaramente. Ormai però le sue mani erano avvezze ai gesti della sopravvivenza.
Una volta finito il lavoro, si fabbricò uno spiedo. All’inizio aveva temuto che i wyrm, vedendo il fuoco, gli si gettassero addosso come falene su una candela, ma fino a quel momento non era mai successo.
Si pulì le mani sulla neve appena fuori dalla caverna, quindi ne usò dell’altra per coprire il sangue e smorzare l’odore. Dentro il rifugio squartò l’animale, augurandosi che i nobili occhi del Cavaliere di Cortesia guardassero altrove. Quando ebbe mangiato ciò che poteva e messo da parte il resto, Loth bruciò la carcassa e rituffò le mani nei guanti. La vista dei propri polpastrelli rossi gli dava il voltastomaco.
Lo sfogo cutaneo occupava già tutta la schiena, o almeno l’impressione era quella: non aveva modo di sapere se il prurito fosse reale o soltanto frutto della suggestione. La Donmata Marosa era stata vaga sul tempo che restava da vivere una volta contratto il morbo, probabilmente perché voleva evitargli la triste conta dei giorni.
Sentendosi gelare, si sdraiò davanti al fuoco e usò la sacca come cuscino. Avrebbe dormito un paio d’ore prima di rimettersi in viaggio.
Raggomitolato sotto il mantello, consultò la bussola che teneva legata attorno al collo. La Donmata gli aveva detto di dirigersi a sudest fino ad arrivare al deserto. Sarebbe passato per la capitale dell’Ersyr, Rauca, e qui si sarebbe unito a una carovana diretta a Rumelabar, dove si trovava la vasta tenuta di Chassar uq-Ispad. Là, sotto la tutela dell’ambasciatore, era cresciuta Ead.
Già era un viaggio difficile, se in più voleva evitare il lazzaretto doveva muoversi in fretta. Non disponeva di una mappa, ma dentro la sacca aveva trovato un borsello pieno di soli d’oro e d’argento. Su entrambi i lati delle monete figurava l’effigie di Jantar lo Splendido, re dell’Ersyr.
Loth si rimise la bussola sotto la camicia. La febbre gli infiammava le meningi. Da quando le dita gli si erano arrossate, si svegliava sempre coperto di sudore. Sognava Kit, sepolto sotto un cumulo di detriti sanguinanti, imprigionato per sempre tra questo mondo e quell’altro. Sognava che Sabran moriva di parto e lui non poteva fare nulla per impedirlo. E sognava, chissà per quale motivo, la Donmata Marosa che ballava nel Palazzo di Ascalon prima di essere rinchiusa nella torre da quel re fantoccio che suo padre era diventato.
Si svegliò sentendo un fruscio all’ingresso della caverna. Rimase immobile in attesa, con le orecchie dritte.
Rumore di artigli contro la roccia. Il fuoco si era ridotto a un cumulo di brace, ma la luce era abbastanza per indovinare la mostruosità.
Piumaggio bianco osso, zampe ricoperte di squame rosa e culminanti in tre artigli. Una cresta carnosa sopra il becco. Loth non aveva mai posato gli occhi su una creatura tanto orrenda, tanto sbagliata. Invocò il Cavaliere di Coraggio, ma si sentì sprofondare in un baratro di terrore.
Una coccatrice.
La bestia emise un verso gutturale che le fece vibrare i bargigli. I suoi occhi erano bolle di sangue incastonate nel cranio. Immobile nell’oscurità, Loth osservò le ali lacere e insanguinate, le piume incrostate di sporcizia della creatura intenta a leccarsi le ferite con la lingua viscida.
Loth, i gesti rallentati dalla paura, si sistemò lo spallaccio della sacca sul petto e impugnò il rampone. Mentre la bestia era ancora impegnata a pulirsi le piaghe, sfoderò la spada e avanzò strisciando contro le pareti verso l’ingresso della caverna.
La coccatrice sollevò il muso di scatto, quindi, con uno strepito assordante, si drizzò sulle zampe. Ma Loth non si fermò: balzò oltre la coda del mostro e corse come mai in vita sua fuori dalla caverna e giù per il versante della montagna, con le suole che scivolavano sul ghiaccio. Nella foga perse l’equilibrio e cadde, ma fece attenzione a non farsi sfuggire la sacca, nemmeno fosse stata la mano tesa del Santo.
Un paio di artigli gli si piantarono nelle spalle. Gridò come un disperato sentendo il terreno mancargli da sotto i piedi. La spada gli sfuggì di mano, ma riuscì a salvare il rampone.
La coccatrice si alzò in volo sopra il dirupo, col corpo che pendeva per via dell’ala rotta. Loth si dimenò e scalciò fino a capire, nella nebbia del panico, che la creatura era l’unica cosa tra lui e un precipizio fatale. A quel punto si lasciò trascinare a peso morto, regalando alla bestia un grido di trionfo.
Planarono sbandando verso terra. Nell’istante in cui la bestia allentò la presa intorno alle sue spalle, Loth si liberò e cadde giù. L’impatto risuonò in ogni osso del suo corpo.
La coccatrice l’aveva portato sulla cima di una bassa montagna. Loth, che ormai respirava a fatica, avanzò carponi con l’aiuto del rampone da ghiaccio. Più di una volta aveva accompagnato Sabran nelle sue battute di caccia a cavallo, ma non gli era mai capitato di essere la preda.
Una squamosa coda bianca lo colpì in pieno petto, mandandolo a sbattere la testa contro uno spunzone di roccia; gli addominali gli si contrassero per il dolore, ma riuscì a mantenere la presa sull’arma.
Sarebbe morto su quella montagna, se così voleva il destino; ma avrebbe trascinato anche il mostro nell’oltretomba.
Sollevò il rampone, ancora intontito dal colpo. La coccatrice raspò per terra e arruffò le piume del collo prima di gettarglisi addosso. Loth scagliò il rampone come una lancia, ma la bestia riuscì a schivare il colpo. La sua unica arma si perse nel baratro.
Una seconda sferzata scaraventò Loth pericolosamente vicino al precipizio. La coccatrice si gettò su di lui con una raffica di strepiti gorgoglianti e stridii di artigli. Loth si raggomitolò su se stesso stringendo i denti al punto da farsi male, mentre un liquido caldo gli inzuppava i pantaloni.
La coccatrice gli si abbatté sulla schiena, colpendo il mantello con il becco fino a ridurlo a brandelli. Sentendosi vincere dalla disperazione, Loth scandagliò la memoria in cerca di un barlume di gioia cui aggrapparsi. Il primo bel ricordo risaliva al giorno della nascita di Margret, una bimbetta adorabile, con gli occhi enormi e le mani minuscole. Poi gli tornarono alla mente tutti i balli con Ead alle Feste del Sodalizio; le battute di caccia con Sabran, dall’alba al tramonto; i pomeriggi in biblioteca con Kit che gli recitava le sue poesie ad alta voce.
Un grido diverso squarciò l’aria, e Loth si sentì finalmente libero dalla presa degli artigli. Spalancò gli occhi per vedere la coccatrice che barcollava come un gigante ubriaco: stava combattendo contro un altro essere, ricoperto di pelo a differenza di lei che era tutta piume e scaglie. La bestia draconica guaì, strillò, mulinò la coda ma i suoi sforzi furono vani: il nuovo arrivato le squarciò la gola.
La coccatrice si accasciò a terra, ridotta a una carcassa sanguinante che il vincitore scagliò giù dal precipizio con un latrato.
Quando finalmente si fermò, Loth riuscì a vedere meglio il suo salvatore. Aveva le fattezze della mangusta, la coda lunga e piatta, il manto color ontano che si schiariva fino a diventare bianco vicino alle zampe e al muso… ma era immenso, grande quanto un orso del Nord. Il sangue rappreso gli insozzava le guance.
Un icneumone, il mortale nemico dei wyrm. Di loro si narrava in numerosissime leggende inysh, ma Loth non si sarebbe mai immaginato che esistessero ancora.
Il Santo ne aveva incontrato uno sul tragitto da Inys verso Lasia e la creatura aveva portato la Donzella in groppa quando era troppo stanca per proseguire.
L’icneumone si ripulì le zanne dal sangue. Appena vide l’uomo, le scoprì.
Aveva gli occhi tondi, color ambra, simili a quelli di un lupo ma circondati da cerchi di pelle scura. La punta della coda striata di bianco. Al momento, il muso era coperto qua e là di brandelli sanguinolenti di piume. Si avvicinò a Loth con movimenti incredibilmente agili considerata la mole e si mise ad annusargli il mantello.
Loth sollevò incerto una mano. Appoggiando il naso sul guanto, l’icneumone ringhiò. Doveva sentire la puzza del morbo, identica a quella del suo millenario nemico. Loth rimase immobile, col fiato caldo dell’animale sulla guancia. Dopo qualche secondo, l’animale si accucciò sulle zampe anteriori ed emise un verso.
«Che succede, amico?» chiese Loth. «Cosa vuoi che faccia?»
L’icneumone, ci avrebbe giurato, sospirò. Quindi gli spinse il muso sotto il braccio.
«No. Sono malato.» La stanchezza gli impastava la voce. «Stammi lontano.»
In quel momento gli venne in mente che non aveva mai sentito di un animale contagiato dalla peste draconica. La pelliccia dell’icneumone emanava calore, ma un calore sano, animale, nulla a che vedere col fuoco cocente dei wyrm.
Sentendosi rinascere, Loth si caricò in spalla la sacca. Strinse le dita sulla folta pelliccia dell’icneumone e gli saltò in groppa.
«Dovrei raggiungere Rauca» disse. «Se tu volessi mostrarmi la via…»
L’animale latrò prima di lanciarsi di corsa giù per la montagna, le zampe rapide e leggere come il vento. Loth sussurrò una preghiera di gratitudine alla Donzella e al Santo; ormai era certo che fossero stati loro a porre l’animale sul suo cammino, un cammino che aveva tutta l’intenzione di seguire fino alla fine.
All’alba, l’icneumone si arrestò in cima a uno sperone di roccia. Loth fu colto dal profumo di fiori e terra scaldata dal sole. Davanti a lui si estendevano le polverose colline pedemontane dei Fusi, e al di là di quelle, a perdita d’occhio, un deserto di sabbia dorata. Poteva sembrare un miraggio, ma Loth sapeva che era reale.
Contro ogni previsione, stava finalmente osservando il Deserto dei Sogni Irrequieti.