28

Meridione

Rauca, capitale dell’Ersyr, era il più grande insediamento rimasto in Meridione. Addentrandosi nel dedalo di stradine fiancheggiate da alte mura, Loth si lasciò trasportare dai sensi. Montagne di spezie di ogni colore dell’arcobaleno, giardini fioriti che profumavano l’aria, svettanti torri del vento decorate con vetri azzurri… non aveva mai visto niente del genere.

Nel mezzo della confusione cittadina, l’icneumone al suo fianco attirava molte meno occhiate del previsto: probabile che nell’Ersyr creature simili fossero assai più comuni che al Nord. Inoltre quello, a differenza dell’esemplare della leggenda, non pareva sapesse parlare.

Loth si teneva ai margini della folla. Nonostante il caldo, portava il mantello allacciato fino alla gola, e anche così avvertiva una morsa di panico ogni volta che qualcuno gli camminava troppo vicino.

Il Palazzo d’Avorio, residenza della Casata di Taumargam, incombeva sulle case sottostanti come un dio silenzioso. Intorno alle guglie volteggiavano stormi di colombi, incaricati di recapitare messaggi a ogni angolo della città. Le cupole scintillavano d’oro, d’argento e di bronzo, non meno lucenti del sole che riflettevano, e nel bianco immacolato delle mura i vani arcuati delle finestre ricordavano ricami in una stola di pizzo.

Proprio della Casata di Taumargam era ambasciatore Chassar uq-Ispad. Loth avrebbe voluto avvicinarsi al palazzo, ma l’icneumone pareva di tutt’altro avviso: lo condusse in un mercato coperto, in cui aleggiava un profumo dolce come budino.

«Non so davvero dove pensi di andare» biascicò Loth tra le labbra screpolate. Era certo che l’icneumone potesse capirlo. «Potremmo almeno fermarci a una fontana, signore?»

Avrebbe fatto meglio a risparmiare il fiato. Quando però passarono accanto a un venditore di fiasche da viaggio, vedendole colme d’acqua cristallina, Loth non riuscì a trattenersi. Sotto lo sguardo carico di disapprovazione dell’animale armeggiò con la sacca per prendere il borsello.

«Per favore» implorò esausto.

La creatura sbuffò, ma poi si sedette sulle zampe posteriori. Loth corse dal mercante e gli indicò la bottiglia più piccola, di vetro iridescente. L’uomo disse qualcosa nella sua lingua.

«Non parlo ersyri, signore» rispose desolato Loth.

Ma il commerciante sorrise, svelando la ragnatela di piccole rughe che gli circondava gli occhi. «Ah, siete inysh. Le mie scuse.» Come quasi tutti gli Ersyri aveva i capelli scuri e la pelle ambrata. «Fanno otto soli, prego.»

Loth esitò. Da uomo ricco, non si era mai trovato nella condizione di dover contrattare. «Sembra… molto costoso» azzardò, valutando il misero contenuto del borsello.

«Io e la mia famiglia siamo i migliori soffiatori di vetro di tutta Rauca. Se svendessi la merce, ne andrebbe del nostro buon nome.»

«Molto bene, allora.» Loth si asciugò la fronte, troppo accaldato per protestare. «Ho visto che qualcuno porta dei veli sul viso. Dove si comprano?»

«Non avete un pargh? Be’, è già tanto che non siate rimasto cieco per la sabbia.» Con uno schiocco di lingua dispiegò in aria un fazzoletto di tela bianca. «Ecco, ve lo regalo.»

«Troppo gentile.»

Loth allungò la mano. Era così terrorizzato che il morbo filtrasse anche attraverso i guanti che per poco non fece cadere il pargh. Dopo esserselo avvolto intorno alla faccia in modo da lasciare scoperti soltanto gli occhi, consegnò all’uomo una manciata di monete d’oro.

«Che l’alba splenda su di voi, amico mio» disse il mercante.

«E su di voi» rispose goffamente Loth. «Siete già stato molto generoso, ma chissà se posso chiedervi un ultimo favore. Vengo nell’Ersyr alla ricerca di Sua Eccellenza Chassar uq-Ispad, ambasciatore del re Jantar e della regina Saiyma. Credete che risieda a palazzo?»

«Ah, vi ci vorrà non poca fortuna. Sua Eccellenza è spesso all’estero» rispose il mercante con una risata. «In questo periodo dell’anno, tuttavia, lo troverete quasi di sicuro a Rumelabar.» Gli porse la bottiglia. «Le carovane partono all’alba dalle Colombaie.»

«E da lì posso anche inviare una lettera?»

«Be’, naturalmente.»

«Mille grazie. Vi auguro una buona giornata.»

Loth si allontanò e prosciugò il contenuto della fiasca in tre lunghe sorsate. Poi, ansante, si pulì la bocca.

«Le Colombaie» ripeté all’icneumone. «Suona bene, no? Mi ci porteresti, amico mio?»

L’animale lo accompagnò in quello che aveva tutta l’aria di essere il cuore pulsante del mercato: un affollamento di bancarelle con sacchi di rose disidratate, ciotole stracolme di zucchero di canna e bricchi fumanti di tè allo zafferano. Ora che ne uscirono, il sole era scomparso oltre l’orizzonte e ovunque per strada brillavano lanterne di vetro colorato.

Era impossibile non trovare le Colombaie. La piazza circondata da mura che collegavano le quattro torri a forma di alveari era interamente ricoperta di piccole piastrelle rosa e quadrate. Loth intuì quasi subito che quella per la posta diretta a Occidente era la prima, quindi si addentrò nel fresco della struttura a nido d’ape che dava rifugio a migliaia di candidi colombi delle rocce.

L’ultima notte trascorsa a Cárscaro aveva scritto una lettera a Margret, ed escogitato un modo per evitare la censura di Combe. Consegnò busta e monete a un guardiano, facendosi promettere che il messaggio sarebbe partito entro l’alba.

Sfinito, Loth si lasciò guidare dall’icneumone fuori dalla colombaia, verso un edificio con le stesse finestre intarsiate del Palazzo d’Avorio. La donna al bancone non sapeva una parola di inysh, ma grazie a una bizzarra coreografia di gesti e sorrisi, Loth riuscì a farsi dare una stanza per la notte.

L’icneumone aspettava fuori; Loth andò a salutarlo con una grattata in mezzo alle orecchie.

«Ci rivedremo, amico mio» gli sussurrò. «Godrò della tua compagnia in un altro deserto.»

In tutta risposta l’animale emise un breve latrato. L’ultima cosa che Loth vide di lui fu la lunga coda che scompariva dietro un angolo, in un vicolo.

Proprio lì accanto notò una donna. Stava appoggiata a un pilastro, a braccia conserte, e aveva il viso coperto da una maschera di bronzo. Indossava pantaloni ampi, infilati dentro stivali aperti sulle dita, e una giacca di broccato stretta alla cintura. Qualcosa nel suo sguardo lo turbava, dunque girò i tacchi e tornò dentro la locanda.

Gli diedero una piccola stanza affacciata su un cortile con una vasca circondata da alberi di limoni dolci. Inalandone il profumo stucchevole, si sentì invadere da una sorta di stordimento. Si sedette sul letto sconosciuto, affondando nella pila di cuscini di seta viola con il solo desiderio di dormire.

Invece, si mise in ginocchio accanto alla finestra e pianse per Kitston Glade.

Ornamento di separazione

Quando non ebbe più lacrime da versare, il Santo gli concesse il dono del sonno. Si svegliò alle prime ore del mattino, dolorante, con gli occhi gonfi e la vescica che reclamava attenzioni. Dopo essersi liberato tornò in camera arrancando nel corridoio buio.

Il ricordo di Kit tornò a lacerargli il petto. Come un crepaccio senza fondo, il dolore risucchiava qualunque pensiero positivo.

Fuori, i colombi erano andati a riposarsi. Le cupole splendenti del Palazzo d’Avorio assorbivano la luce scintillando come candele, mentre sopra di loro le stelle erano ferite aperte nell’oscurità.

Quello non era l’Occidente: era una terra lontana da Virtudom, dove si adorava un falso profeta. Ead una volta aveva ammesso che da ragazzina trovava affascinanti gli insegnamenti del Cantore dell’Alba, ma lui ne era sempre stato inorridito. Non poteva immaginare di dover vivere al di fuori della confortante struttura delle Sei Virtù, ed era contento che Ead si fosse convertita appena giunta a corte.

Una brezza leggera gli rinfrescava la pelle. Avrebbe dato qualunque cosa per un bel bagno, ma temeva che il morbo si propagasse anche in acqua. Al mattino, per sicurezza, avrebbe bruciato le lenzuola e poi ripagato il danno alla proprietaria.

Il prurito gli incendiava la schiena e i guanti che portava costantemente per coprire la pelle squamata prima o poi avrebbero iniziato a destare sospetti. Pregò che Chassar uq-Ispad avesse davvero una cura.

Morire in quel modo non avrebbe avuto senso, non dopo che il Cavaliere di Sodalizio l’aveva graziato ponendo l’icneumone sul suo cammino.

Sprofondò nuovamente in un sonno senza sogni, da cui si destò all’improvviso.

Braccia e gambe erano scosse da un tremore incontrollabile e si sentiva divorato dalla febbre. Ma non era stato quello a svegliarlo. Cercò d’istinto la spada, prima di ricordarsi di averla perduta.

«Chi è là?» Aveva le labbra secche, salate. «Ead?»

Qualcosa si mosse nella penombra. Lo scintillio di una maschera di bronzo, e poi su Loth calò il buio.

Il priorato dell’albero delle arance
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