45

Oriente

Tutte le spiagge dell’Isola delle Piume erano state sommerse. Tané e l’Anziano Vara avevano trascorso insieme molte ore, mentre l’isola tremava al punto da rendere impossibile persino leggere.

O meglio, impossibile per chiunque a eccezione dell’Anziano Vara. Poteva anche arrivare la fine del mondo, lui avrebbe sempre trovato il modo di continuare a leggere.

Dopo l’inondazione era calato un silenzio terribile, come se tutti gli uccelli della foresta avessero di colpo perso la voce. A quel punto i savi avevano iniziato a calcolare i danni del terremoto. Non c’erano state vittime, tranne due uomini precipitati dalle scogliere. Il mare non aveva restituito i loro cadaveri… ma un altro corpo era stato rinvenuto il giorno seguente.

Il corpo di un drago.

Al tramonto, Tané e l’Anziano Vara erano scesi ad ammirare il dio senza vita. Vara con la sua gamba di ferro faticava a percorrere i gradini e gli ci era voluto un po’ per raggiungere la spiaggia, ma siccome pareva più che determinato Tané gli era sempre rimasta accanto.

Attorcigliato sulla sabbia c’era un giovane esemplare di femmina seiikinese con le fauci spalancate dalla morte. Gli uccelli avevano già iniziato a becchettare le scaglie luccicanti, e dalle ossa si alzava una nebbiolina sottile. Lo spettacolo aveva fatto rabbrividire Tané, che a un certo punto, sopraffatta dal dolore, era stata costretta ad allontanarsi.

Non aveva mai visto la carcassa di un drago; era in assoluto la cosa più terribile su cui avesse posato gli occhi. Tutti quanti all’inizio avevano pensato che la giovane creatura fosse stata macellata a Kawontay, e i suoi resti abbandonati in acqua (al pensiero di Nayimathun, Tané si sentì male), ma il corpo era intatto, non mancavano né scaglie né zanne né artigli.

Gli dèi non annegavano. Loro e l’acqua erano una cosa sola. La conclusione cui gli Anziani giunsero alla fine fu che il drago era morto bollito.

Bollito nel suo stesso mare.

In natura non si era mai verificato nulla di simile. Era il più sinistro dei presagi.

Nemmeno impiegando tutte le loro forze i savi avrebbero potuto rimuovere il cadavere. Dovettero lasciarlo lì, a evaporare finché non fosse rimasto altro che un mucchio d’ossa iridescenti.

Ornamento di separazione

Il medico arrivò mentre Tané e altri tre savi spazzavano in silenzio il pavimento ingombro di foglie. Alcuni singhiozzavano piano. La vista del drago morto li aveva lasciati tutti molto scossi.

«Savia Tané» la chiamò l’Anziano Vara.

La ragazza lo seguì come uno spettro lungo i corridoi.

«Il medico è qui, finalmente. Potrebbe darti un’occhiata al fianco» disse Vara. «Moyaka è sapiente, conosce sia i rimedi seiikinesi che quelli mentesi.»

Tané si immobilizzò.

Moyaka. Aveva già sentito quel nome.

L’Anziano Vara le rivolse uno sguardo interrogativo. «Savia Tané, sembri tesa.»

«Non voglio vedere questo dottore. Per favore, savio Anziano Vara. Moyaka ha…» Una fitta di mal di stomaco le impedì di continuare. «Conosce un uomo che ha minacciato sia me che il mio drago.»

Rivedeva Roos sulla spiaggia. Il sorriso spietato mentre le suggeriva di mutilare Nayimathun se non voleva perdere tutto. Moyaka aveva ospitato quel mostro in casa sua.

«So che i tuoi ultimi giorni a Seiiki sono stati assai tristi, Tané» disse Vara in tono gentile. «E so anche quanto è difficile lasciarsi il passato alle spalle. Ma sull’Isola delle Piume non c’è altra scelta.»

Tané osservò il suo volto grinzoso. «Che cosa sai?» sussurrò.

«Tutto.»

«Chi altro lo sa?»

«Solo io e l’onorevole Sommo Anziano.»

Udire quelle parole la fece sentire improvvisamente nuda. Nel profondo, aveva sempre sperato che la governatrice di Ginura non avesse rivelato a nessuno il motivo del suo esilio.

«Se sei sicurissima di non voler vedere Moyaka,» proseguì Vara «dimmelo, e ti riporto nella tua stanza.»

Il cerusico era l’ultima persona che Tané avesse voglia di incontrare, ma d’altra parte non intendeva mettere in imbarazzo l’Anziano comportandosi come una bimba capricciosa.

«Va bene, lo vedrò» disse.

«La vedrò» la corresse il vecchio.

Nella stanza adibita a sanatorio, accanto a una fontana gorgogliante, li attendeva una robusta donna seiikinese. Tané non l’aveva mai incontrata prima, ma era palese che fosse parente del dottor Moyaka di Ginura.

«Buongiorno, onorevole savia.» La donna si inchinò. «So che avete una brutta ferita su un fianco.»

«Una cicatrice» spiegò l’Anziano Vara, mentre Tané si limitava a rispondere all’inchino. «Un gonfiore che ha sin da bambina.»

«Capisco.» La sapiente Moyaka indicò le stuoie su cui erano stati sistemati una coperta e un poggiatesta. «Apritevi la tunica per favore, onorevole savia, e sdraiatevi pure qui.»

Tané fece come richiesto.

«Dimmi, Purumé,» disse Vara rivolto alla dottoressa «a Seiiki ci sono stati altri attacchi della Flotta dell’Occhio di Tigre?»

«Non dalla notte in cui sono venuti a Ginura, per quanto ne so» rispose mestamente Moyaka. «Ma torneranno presto. La Dorata Imperatrice è implacabile.»

Tané dovette fare uno sforzo immenso per non sottrarsi al suo tocco. L’escrescenza sul fianco faceva ancora male.

«Ah, eccola qui.» Moyaka accarezzò il gonfiore col dito. «Quanti anni avete, onorevole savia?»

«Venti» rispose piano Tané.

«E questa c’è sempre stata?»

«Fin da quando ero piccola. Secondo la mia istruttrice, anni fa devo essermi rotta una costola.»

«Vi fa male?»

«Ogni tanto.»

«Mmh.» Moyaka saggiò la protuberanza con la punta delle dita. «A sentirla così si direbbe semplicemente un’escrescenza ossea, niente di cui preoccuparsi, ma per sicurezza farei una piccola incisione.» Aprì una borsa di pelle. «Volete qualcosa per il dolore?»

La vecchia Tané avrebbe rifiutato, ma dal giorno dell’arrivo sull’isola l’unica cosa che desiderava era proprio non sentire niente. Dimenticarsi di se stessa.

Uno dei savi più giovani portò del ghiaccio dalle grotte, avvolto in una pezza di lana per non farlo sciogliere. Moyaka preparò l’anestetico, quindi lo diede a Tané perché lo inalasse con una pipetta. Il fumo le bruciava la gola. Quando raggiunse il petto, la ragazza si sentì invadere da una profonda e dolce sensazione di sollievo: il suo corpo era per metà di piuma e per metà di pietra, sprofondava mentre i pensieri si libravano in aria.

Il peso della vergogna evaporò. Per la prima volta dopo settimane, le parve di riuscire a respirare.

Moyaka le premette il ghiaccio contro il fianco fino a farlo diventare quasi insensibile, quindi scelse uno strumento, lo sterilizzò nell’acqua bollente e fece scivolare la punta sotto la protuberanza.

Tané avvertì una sofferenza ovattata. Nulla più di un’ombra di dolore. Premette i palmi sulle stuoie.

«Stai bene, piccola?» le chiese l’Anziano Vara.

Non vedeva più un solo uomo, ma tre. Tané annuì e il mondo parve annuire con lei. Moyaka aprì i lembi di pelle.

«Be’, è…» Esitò. «Strano. Molto strano.»

Tané provò a sollevare la testa, ma aveva il collo molle come un filo d’erba. L’Anziano Vara le mise una mano sulla spalla. «Di cosa si tratta, Purumé?»

«Finché non lo rimuovo non posso esserne certa,» rispose lei perplessa «ma… insomma, pare quasi…»

La conclusione della frase andò perduta in un frastuono tremendo che veniva da fuori.

«Un altro terremoto» commentò Vara. La sua voce suonava lontanissima.

«Non sembrava affatto un terremoto.» Moyaka si irrigidì. «Grande Kwiriki, salvaci…»

Un bagliore illuminò la finestra. Il pavimentò tremò e si udì un grido: Fuoco! L’istante dopo, la stessa voce lanciò un urlo da far tremare i polsi prima di essere brutalmente messa a tacere.

«Sputafuoco.» L’Anziano scattò in piedi. «Svelta, Tané. Dobbiamo rifugiarci nella gola.»

Sputafuoco. Ma erano secoli che non se ne vedeva uno in Oriente…

Il vecchio si fece passare un braccio di Tané intorno alle spalle ossute e la sollevò dalle stuoie. Lei ondeggiò. Aveva la mente annebbiata, non riusciva ancora a controllare i movimenti. Scalza e intorpidita seguì Vara e Moyaka lungo il corridoio che conduceva alla sala da pranzo, e oltre la porta da cui si usciva in cortile. Molti altri savi correvano a rifugiarsi nella foresta.

Nell’aria intorno a Tané si mescolavano gli odori di pioggia e fuoco. L’Anziano Vara indicò il ponte.

«Attraversalo. Dall’altra parte c’è una grotta… aspettaci lì, scenderemo insieme» disse. «Io e Moyaka dobbiamo assicurarci di non aver lasciato indietro nessuno.» Quindi le diede una spinta. «Vai, Tané. Corri!»

«Tenete premuto sulla ferita!» le gridò dietro Moyaka.

Tané aveva la sensazione di muoversi in un mondo sommerso: anche quando si mise a correre a perdifiato, le parve semplicemente di fluttuare.

Dal ponte si vedeva l’Eremo di Sottovento. Tané ci era quasi arrivata quando un’ombra calò su di lei. Un calore improvviso le risalì lungo la schiena. Provò ad accelerare, ma barcollava per la stanchezza e a ogni passo la ferita perdeva più sangue. Il dolore bussava implacabile contro le pareti del bozzolo entro cui l’anestetico l’aveva foderata.

Il ponte attraversava la gola nei pressi delle Cascate di Kwiriki. Un Anziano stava già conducendovi un gruppetto di savi. Tané arrancò verso di loro stringendosi il fianco.

Oltre il ponte si apriva il mortale strapiombo del Sentiero dell’Anziano. Le cime degli alberi spuntavano da un mare di nebbia.

Dal cielo calò un’altra ombra. Tané provò a lanciare un grido di avvertimento agli altri savi, ma al posto della lingua aveva un rotolo di stoffa. Una palla di fuoco si abbatté sul tetto del ponte, che qualche istante dopo venne ridotto a un’esplosione di schegge da un colpo di coda spinata. Sotto di lei, il legno gemette e si spaccò. Tané si fermò di botto, rischiando di caderci sopra. Fissò impotente la struttura che tremava, con uno squarcio aperto nel mezzo. Un terzo sputafuoco distrusse uno dei pilastri reggenti e il gruppo di figurine senza volto gridò terrorizzato scivolando nel baratro.

Le fiamme non risparmiavano né carne né legno: crollò un’altra sezione di ponte, simile a un ciocco rimasto troppo a lungo nel camino. Le ali delle creature alzavano refoli ululanti di vento.

Doveva saltare, non c’era altra scelta. Tané, con il fumo che le faceva lacrimare gli occhi, corse verso il ponte proprio mentre gli sputafuoco si preparavano per un secondo attacco.

Ma prima di riuscire a raggiungere lo squarcio tra le assi, le ginocchia le cedettero. Rotolò per attutire la caduta, con la pelle che si dilaniava come carta bagnata. Si strinse il fianco, singhiozzando di dolore… e dal rigonfiamento scivolò fuori qualcosa, qualcosa che aveva portato cucito dentro il corpo per tutti quegli anni. Fissò l’oggetto, scossa dai tremiti.

Una gemma. Coperta di sangue, non più grande di una castagna. Un frammento di stella imprigionato nella pietra.

Non c’era tempo per la meraviglia. Un nuovo stormo di sputafuoco si stava radunando. Indebolita dalla sofferenza, Tané nascose la gemma tra le dita. Mentre avanzava sul ponte a passi sempre più incerti, qualcosa spaccò le assi del tetto atterrando dritto di fronte a lei.

Tané si trovò faccia a faccia con un incubo.

Aveva le fattezze e l’odore di ciò che rimane dopo un’eruzione vulcanica. Al posto degli occhi due tizzoni ardenti. Scaglie nere come cenere. A contatto con la sua pelle la pioggia evaporava sibilando. Due zampe possenti, sproporzionate rispetto al resto del corpo, e ali culminanti in uncini crudeli… e che ali. Le ali di un pipistrello. La coda che spuntava da dietro, invece, era da lucertola. Persino così, con la testa abbassata, torreggiava su di lei, le zanne scoperte e incrostate di sangue.

Tané tremava sotto il suo sguardo. Non aveva né spada né alabarda. Nemmeno un pugnale da infilargli nell’occhio. Un tempo forse avrebbe pregato, ma nessun dio prestava attenzione ai cavalieri caduti in disgrazia.

Lo sputafuoco lanciò un grido di sfida. Mentre una sfera di luce risaliva la gola della creatura, Tané fu attraversata dalla distaccata consapevolezza di stare per morire. L’Anziano Vara non avrebbe trovato altro che i suoi resti fumanti, e quella sarebbe stata la fine.

Non aveva paura. I cavalieri di draghi affrontavano la morte ogni giorno, conosceva fin da bambina i rischi che avrebbe dovuto correre una volta unitasi al Clan Miduchi. Soltanto un’ora prima avrebbe persino accolto con sollievo quella fine: sempre meglio che lasciarsi consumare dalla vergogna.

Eppure, quando l’istinto le suggerì di tendere in avanti la gemma, di combattere la bestia con l’unica arma che aveva, lei obbedì.

Rovente di un candido gelo contro il palmo della sua mano, quando la puntò contro lo sputafuoco la pietra emise un raggio di luce accecante.

Era come avere la luna stretta in pugno.

La creatura si ritrasse con un grido. Sollevando le ali per schermarsi il muso dal bagliore, emise un richiamo disperato, ancora e ancora, come un corvo che accolga il crepuscolo.

Il cielo rimbombò di echeggianti risposte.

Tané fece un passo avanti, sempre tendendo la gemma sollevata davanti a sé. Con un’ultima occhiata piena d’odio, lo sputafuoco ruggì così forte da scompigliarle i capelli, quindi si alzò in volo. Mentre virava verso il mare, lo stormo dei suoi simili lo seguì scomparendo dietro di lui nella notte.

L’estremità opposta del ponte precipitò nella gola, da cui si innalzò una nuvola di cenere. A Tané bruciavano gli occhi. Indebolita dal dolore al fianco, si trascinò di nuovo verso l’Eremo di Sottovento. Aveva metà della tunica completamente zuppa di sangue.

Seppellì la gemma in cortile: qualunque cosa fosse, doveva tenerla nascosta. Come d’altra parte aveva fatto fino a quel momento.

Il tetto del sanatorio era crollato. Cercò la borsa di Moyaka tra le stuoie fradice e la trovò rovesciata in un angolo. Sul fondo c’erano un rotolo di corda di budello e un ago ricurvo.

La pipetta invece era andata in frantumi. Quando Tané sollevò il braccio destro, dal taglio sul fianco uscì un fiotto di sangue.

Con dita tremanti fece passare il filo nella cruna dell’ago. Pulì la ferita meglio che poté, ma i lembi erano troppo sporchi, e poi solo a toccarla le si annebbiava la vista. Con la testa che le girava e la bocca asciutta, frugò di nuovo nella borsa di Moyaka fino a trovare una boccetta color ambra.

Il peggio doveva ancora venire. Doveva rimanere sveglia ancora per un po’. Nayimathun e Susa avevano sofferto per colpa sua. Adesso toccava a lei.

L’ago perforò la carne.

Il priorato dell’albero delle arance
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