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Oriente

Scalzo e segnato dalle cicatrici del viaggio, lo straniero uscì dal mare, simile a uno spettro d’acqua. Avanzava come ubriaco nella foschia lattiginosa che avvolgeva Seiiki in una tela di ragno.

Secondo le antiche leggende gli spettri d’acqua erano destinati a vivere nel silenzio. Le loro lingue si erano prosciugate, insieme alla pelle, e non erano rimaste che alghe a coprire le ossa. Appostati nelle secche, aspettavano gli incauti per trascinarli nel cuore dell’Abisso.

Tané non aveva mai avuto paura di quelle storie, neanche da bambina. Ora, mentre fissava la figura nella notte, il suo pugnale splendeva davanti a lei, ricurvo come un sorriso.

E la figura le parlò, facendola trasalire.

Le nubi liberarono il chiarore lunare che avevano nascosto. Quanto bastava perché lei potesse vederlo per ciò che era. E lui lo stesso.

Non uno spettro, ma un forestiero. Ormai l’aveva visto, non poteva più tornare indietro.

Aveva capelli chiari come paglia, la barba fradicia, la pelle scottata dal sole. I contrabbandieri dovevano averlo consegnato al mare, costringendolo a raggiungere la riva a nuoto. Era evidente che non conosceva la lingua del posto, ma Tané sapeva abbastanza della sua da capire che le stava chiedendo aiuto e che voleva incontrare il Signore della Guerra di Seiiki.

Il cuore le tuonava nel petto. Non osava parlare, perché mostrare di conoscere la sua lingua significava creare un legame tra loro e tradirsi. Rivelare il fatto che si erano resi testimoni l’uno del crimine dell’altra.

Avrebbe dovuto osservare il ritiro. Rimanere al sicuro entro le mura della Casa di Mezzogiorno, pronta per dare inizio, purificata, all’alba più importante della sua vita. Ora invece era perduta, corrotta al di là di ogni redenzione. E solo per aver voluto tuffarsi in mare un’ultima volta prima del Giorno della Chiamata. Correva voce che il grande Kwiriki avrebbe favorito le temerarie pronte a infrangere il ritiro per inseguire le onde. Invece le aveva mandato quell’incubo.

La vita le aveva riservato troppe fortune.

Questo era il suo castigo.

Brandendo il pugnale, teneva a distanza lo straniero, che tremava di fronte alla minaccia di morte.

Un vortice di possibilità, una più terribile dell’altra, invase la mente di Tané. Consegnando il forestiero alle autorità, si sarebbe scoperto che aveva infranto la regola.

E questo rischiava di annullare la cerimonia della Chiamata. L’onorevole governatore della provincia seiikinese di Capo Hisan non avrebbe mai invocato gli dèi in un luogo esposto al contagio del morbo rosso. Potevano volerci settimane prima che la città fosse dichiarata fuori pericolo, e a quel punto l’arrivo dello straniero sarebbe stato interpretato come un cattivo presagio e l’opportunità di diventare cavalieri sarebbe passata alla successiva generazione di apprendisti. Per lei avrebbe significato perdere tutto.

Non poteva denunciarlo. E nemmeno abbandonarlo. Se davvero era affetto dal morbo rosso, lasciarlo vagare libero avrebbe costituito un pericolo per l’intera isola.

Non c’erano alternative.

Ornamento di separazione

Gli avvolse una striscia di garza attorno alla bocca per impedirgli di diffondere il contagio. Le tremavano le mani. Quando ebbe fatto, lo accompagnò dalla sabbia nera della spiaggia fino alla città, puntandogli la lama alla schiena e restandogli quanto più vicina le consentiva il coraggio.

Capo Hisan era un porto insonne. Guidò il forestiero attraverso i mercati notturni, i simulacri votivi intagliati nel legno di risacca, sotto i festoni di lanterne bianche e azzurre appesi in occasione del Giorno della Chiamata. Il prigioniero osservava tutto in silenzio. Il buio gli celava i lineamenti, ma Tané lo colpì di piatto con la lama per costringerlo ad abbassare la testa. Per tutto il tragitto si assicurò di tenerlo il più lontano possibile dagli altri.

Aveva avuto un’idea su come nasconderlo.

Collegata al capo sorgeva un’isola artificiale. Nota come Orisima, rappresentava una curiosità per la gente del luogo. L’avamposto era stato costruito per alloggiare un manipolo di mercanti ed eruditi del Libero Stato di Mentendon. A parte i Lacustrini, sulla sponda opposta del capo, soltanto ai Mentesi era stato concesso di commerciare a Seiiki dopo che l’isola si era chiusa al resto del mondo.

Orisima.

Era lì che avrebbe portato il forestiero.

Il ponte illuminato che conduceva all’avamposto mercantile era sorvegliato da guardie. A pochi Seiikinesi era concesso di entrare, e lei non era tra questi. L’unico altro modo di superare la recinzione era la chiusa che si apriva una volta all’anno per ricevere le merci dalle navi mentesi.

Tané guidò il forestiero fino al canale. Non poteva introdurlo personalmente a Orisima, ma conosceva qualcuno che sarebbe stato in grado di farlo. Una donna che avrebbe saputo esattamente dove nasconderlo sull’isola.

Ornamento di separazione

Era trascorso molto tempo dall’ultima volta che Niclays Roos aveva ricevuto visite.

Si stava concedendo un goccio di vino, una piccola parte della sua misera razione quotidiana, quando sentì bussare alla porta. Il vino era uno dei pochi piaceri che gli erano rimasti al mondo, e in quel momento, immerso negli effluvi del suo aroma, pregustava il lusso squisito del primo sorso.

Ed ecco che lo interrompevano. Ma certo. Con un sospiro si issò dalla sedia, gemendo per la fitta di dolore alla caviglia. Ci mancava solo la gotta.

Un altro colpo alla porta.

«Allora, la finite?» brontolò.

La pioggia tamburellava sul tetto mentre lui cercava a tentoni il bastone. Pioggia dei pruni, così la chiamavano in quel periodo dell’anno i Seiikinesi, quando banchi d’aria pesante gravavano sulla terra e i frutti si gonfiavano sugli alberi. Imprecando sottovoce, zoppicò sulle stuoie e socchiuse appena la porta.

Fuori, al buio, c’era una donna. Indossava una veste ricamata con fiori di sale e i lunghi capelli scuri le ricadevano sui fianchi. Non poteva essere stata solo la pioggia a ridurla in quello stato.

«Bentrovato, sapiente dottor Roos» disse.

Niclays la rimproverò con lo sguardo. «Non gradisco visite a quest’ora. Né a nessun’altra.» Sarebbe stato opportuno inchinarsi, ma non aveva motivo di fare buona impressione sulla sconosciuta. «Come sapete il mio nome?»

«Me l’hanno detto.» Non sarebbe arrivata alcuna ulteriore spiegazione. «Ho accompagnato un vostro conterraneo. Si fermerà qui con voi questa notte e domani al tramonto passerò a riprenderlo.»

«Un mio conterraneo.»

La visitatrice si voltò. Da un albero poco distante si staccò una sagoma.

«I contrabbandieri l’hanno portato a Seiiki» disse la donna. «Lo scorterò domani dall’onorevole governatore.»

Non appena la figura entrò nello spazio illuminato della casa, Niclays si sentì gelare il sangue.

Sulla soglia apparve un uomo dai capelli dorati, grondante quanto la donna. Un uomo che non aveva mai visto a Orisima.

L’avamposto ospitava venti persone. Le conosceva tutte di nome e di aspetto. E non erano attese navi da Mentendon prima di fine stagione.

Inspiegabilmente questi due erano passati inosservati.

«No.» Niclays la fissò. «Per il Santo, donna, volete coinvolgermi in un’operazione di contrabbando?» Armeggiò con la porta. «Non posso nascondere un clandestino. Se qualcuno scoprisse…»

«Una notte.»

«Una notte, un anno… ci mozzerebbero comunque la testa. Addio.»

Fece per chiudere la porta ma lei infilò il gomito nello spiraglio.

«Se accettate,» la donna adesso era così vicina che Niclays poteva sentirne l’alito «vi darò dell’argento. Tutto quello che riuscite a portare.»

Niclays Roos esitò.

L’argento era un’offerta allettante. Da sbronzo aveva giocato una partita a carte di troppo, e ora doveva alle guardie più di quanto sarebbe stato in grado di guadagnare in una vita intera. Finora era riuscito a tenere a bada le minacce promettendo il carico di preziosi della prossima nave da Mentendon, ma sapeva fin troppo bene che, una volta attraccata, a bordo non ci sarebbe stato un singolo pulciosissimo gioiello. Non per quelli come lui, almeno.

Il ragazzino in lui fremeva per accettare la proposta, anche soltanto in nome dell’avventura. Prima che il Niclays più vecchio e saggio potesse intervenire, la donna si allontanò.

«Tornerò domani sera» disse. «Fate in modo che nessuno lo veda.»

«Un attimo» sibilò lui, furibondo. «Voi chi siete?»

Ma era già sparita. Niclays lanciò un’occhiata furtiva in strada poi, con un grugnito, tirò dentro casa lo straniero dall’aria spaventata.

Era una follia. Se i suoi vicini avessero scoperto che dava asilo a un clandestino, l’avrebbero consegnato alla furia del Signore della Guerra, non certo noto per la sua misericordia.

Eppure ormai c’era dentro.

Niclays sprangò la porta. Nonostante il caldo, il nuovo arrivato tremava sulle stuoie. Aveva la pelle olivastra bruciata attorno agli zigomi, gli occhi azzurri incrostati di salsedine. Tanto per fare qualcosa, Niclays prese una coperta che aveva portato da Mentendon e l’allungò all’uomo, il quale la prese senza una parola. Faceva bene ad avere paura.

«Da dove vieni?» chiese brusco.

«Scusate» sussurrò quello. «Non capisco. Parlate seiikinese?»

Inysh. Era da un pezzo che non sentiva quell’idioma.

«Non era seiikinese» disse Niclays passando all’altra lingua. «Era mentese. Pensavo fossi di laggiù.»

«No, signore. Vengo da Ascalon» rispose timidamente lo straniero. «Posso domandare il vostro nome, dal momento che siete tanto gentile da ospitarmi?»

Tipico degli Inysh. Prima i convenevoli. «Roos» disse Niclays tra i denti. «Dottor Niclays Roos. Mastro cerusico. L’uomo di cui stai mettendo in pericolo la vita con la tua presenza.»

Il giovane lo fissò.

«Dottor…» ripeté esitante. «Dottor Niclays Roos?»

«Congratulazioni, figliolo. L’acqua di mare non ti ha danneggiato l’udito.»

L’ospite sospirò con un brivido. «Dottor Roos,» disse «questo è intervento divino. Il Cavaliere di Sodalizio ha scelto di condurmi proprio a voi tra tutti…»

«A me?» Niclays si accigliò. «Ci conosciamo?»

Frugò tra i ricordi dei suoi giorni a Inys, ma era certo di non aver mai visto quell’uomo. A meno di non essere stato ubriaco, chiaramente. Si era ubriacato spesso a Inys.

«No signore, un amico mi ha fatto il vostro nome.» L’uomo si asciugò il viso con la manica. «Ero certo che sarei morto in mare, ma questo incontro mi riporta alla vita. Sia lode al Santo.»

«Il tuo santo non ha potere in questo luogo» borbottò Niclays. «Ora, ti spiace dirmi il tuo nome?»

«Sulyard. Mastro Triam Sulyard, signore, per servirvi. Ero scudiero a corte di Sua Maestà Sabran Berethnet, regina di Inys.»

Niclays digrignò i denti. Quel nome gli risvegliò nel petto un furore ardente.

«Uno scudiero.» Si sedette. «Sabran si è forse stancata di te, come di tutti i suoi sudditi?»

Sulyard parve stizzirsi. «Non osate insultare la mia regina, o io…»

«O tu cosa?» Niclays lo squadrò da sopra le lenti. «Dovrei chiamarti Triam lo Stolto. Hai idea di cosa fanno agli stranieri qui? Sabran ti voleva forse condannare a una morte particolarmente atroce?»

«Sua Maestà non sa che mi trovo qui.»

Interessante. Niclays gli versò una coppa di vino. «Ecco» disse seccato. «Tutto d’un fiato.»

Sulyard lo trangugiò.

«Ora, mastro Sulyard, ascoltami bene» proseguì Niclays. «In quanti ti hanno visto?»

«Mi hanno fatto nuotare fino a riva. Ho raggiunto una spiaggia. La sabbia era nera.» Sulyard continuava a tremare. «Mi ha trovato una donna, che mi ha condotto in città minacciandomi con un coltello. Sono rimasto da solo in una stalla… poi è arrivata un’altra donna che mi ha intimato di seguirla. Mi ha riportato in mare e insieme abbiamo nuotato fino a un pontile. In fondo c’era una chiusa.»

«Ed era aperta?»

«Sì.»

La donna probabilmente conosceva una delle guardie. Doveva averla convinta a lasciare aperto il passaggio.

Sulyard si stropicciò gli occhi. I giorni in mare lo avevano segnato, ma ora Niclays si accorse che era solo un ragazzo, a malapena di vent’anni.

«Dottor Roos,» disse «sono qui per svolgere un compito della massima importanza. Devo conferire con…»

«Ti fermo subito, mastro Sulyard» tagliò corto Niclays. «Non mi interessa il motivo per cui sei venuto.»

«Ma…»

«Qualunque siano le tue ragioni, sei giunto qui senza il consenso delle autorità. Una follia. Se il Sovrintendente dovesse trovarti e trascinarti a un interrogatorio, voglio poter dire in tutta onestà di non avere la minima idea del motivo per cui ti sei presentato alla mia porta nel bel mezzo della notte pensando di essere il benvenuto a Seiiki.»

Sulyard trasalì. «Il Sovrintendente?»

«Il funzionario seiikinese a capo di questa discarica galleggiante, per quanto lui si ritenga un semidio. Sai almeno dove ti trovi?»

«Orisima, l’ultimo avamposto mercantile occidentale in Oriente. È il trovarmi qui che mi fa sperare di essere ricevuto dal Signore della Guerra.»

«Ti assicuro» disse Niclays «che per nessuna ragione Pitosu Nadama riceverà un clandestino alla sua corte. Ciò che invece farà, se dovesse metterti le mani addosso, sarà giustiziarti.»

Sulyard non rispose.

Niclays valutò per un momento di dire al giovane che la sua soccorritrice sarebbe tornata, forse per consegnarlo alle autorità. Decise di non farlo. Sulyard avrebbe potuto farsi prendere dal panico e tentare la fuga, ma per andare dove?

L’indomani. L’indomani se ne sarebbe andato.

In quel momento, Niclays udì delle voci dalla strada. Un frastuono di passi sui gradini di legno delle case vicine. Un brivido gli strizzò lo stomaco.

«Nasconditi» disse, afferrando il bastone.

Sulyard si acquattò dietro un paravento. Con mano tremante, Niclays dischiuse la porta.

Secoli addietro, il primo Signore della Guerra di Seiiki aveva firmato il Grand’Editto e precluso l’isola a chiunque non fosse lacustrino o mentese, per proteggere il suo popolo dalla peste draconica. La quarantena era rimasta in vigore anche dopo l’estinzione del morbo. Chiunque fosse giunto senza permesso sarebbe stato condannato a morte. Insieme a chiunque gli avesse dato asilo.

In strada non c’era traccia delle guardie, ma dal vicinato si era radunata una piccola folla. Niclays si unì agli altri.

«In nome di Galian, cosa sta succedendo?» domandò al cuoco, che fissava il cielo con la bocca tanto spalancata da rischiare di inghiottire le falene. «Per il futuro, ti sconsiglio di adottare nuovamente quest’espressione, Harolt. La gente potrebbe scambiarti per un idiota.»

«Guarda, Roos» balbettò il cuoco. «Guarda!»

«Meglio per te che sia…»

Quando la vide, però, le parole gli morirono in gola.

Una testa enorme torreggiava sulla palizzata di Orisima. Apparteneva a una creatura fatta di gemme e acqua di mare.

Nubi di vapore si levavano dalle sue scaglie, pietre di luna tanto splendenti da apparire soffuse di luce propria. Su ciascuna scintillava una miriade di gocce simili a diamanti. I suoi occhi erano stelle di fuoco e le sue corna, rilucenti nel pallore lunare, argento vivo. La creatura fluttuò oltre il ponte con la grazia di un nastro di seta e si librò in cielo leggera e silenziosa come un aquilone.

Un drago. Mentre il primo si levava al di sopra di Capo Hisan, altri emergevano dalle acque, sollevando una fresca foschia. Niclays si portò una mano al cuore impazzito.

«E questi» mormorò «cosa accidenti ci fanno qui?»

Il priorato dell’albero delle arance
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