16
Oriente
Le ultime prove dell’acqua si susseguirono come avvolte nella foschia. Una notte dovettero nuotare controcorrente tra le rapide di un fiume. Poi ci fu il duello con le reti. Quindi dovettero dimostrare di aver imparato i segnali in codice dei cavalieri. A volte, tra una prova e la successiva trascorreva un giorno, altre molti giorni. Prima che Tané potesse rendersene conto, giunse il momento dell’ultima sfida.
La mezzanotte la colse ancora una volta nella sala dell’addestramento, intenta a spalmare olio di garofano sulla lama della spada. Il profumo dell’unguento le impregnava le dita. Aveva le spalle doloranti e il collo contratto come un tronco d’albero.
Il giorno seguente, quella lama avrebbe fatto la differenza tra vittoria e sconfitta; ora, ci vedeva il riflesso dei propri occhi iniettati di sangue.
La pioggia tamburellava sul tetto della scuola. Mentre tornava agli alloggi, Tané udì un risolino soffocato.
Trovò la porta del balcone aperta, e sbirciò fuori. Nel cortile sottostante, Onren e Kanperu sedevano circondati dagli alberi di pere, le teste chine su un gioco da tavolo e le dita intrecciate.
«Tané.»
Trasalì. Dumusa era affacciata sulla soglia della sua stanza, con indosso una veste leggera e una pipa in mano. La raggiunse sul balcone e seguì il suo sguardo.
«Non devi essere invidiosa» disse dopo un lungo silenzio.
«Io non…»
«Tranquilla. Anch’io ogni tanto invidio la facilità con cui sembrano affrontare la vita. Onren soprattutto.»
Tané nascose il viso dietro i capelli.
«Riesce bene in tutto,» commentò «con uno sforzo minimo…» Le parole le si bloccarono in gola. «Minimo.»
«Riesce bene perché ha fiducia nelle proprie capacità. Tu invece sembri convinta che possano sfuggirti tra le dita se solo molli la presa per un secondo» disse Dumusa. «Discendo da una stirpe di cavalieri. È una grande benedizione, e ho sempre voluto dimostrare di esserne all’altezza. Quando avevo sedici anni ho sacrificato tutto per studiare. Ho smesso di andare in città. Ho smesso di dipingere. Ho smesso di vedere Ishari. Non facevo altro che allenarmi, finché non sono diventata prima apprendista. Ho scordato cosa volesse dire possedere delle abilità. Al contrario, loro hanno posseduto me. Completamente.»
Tané fu scossa da un brivido.
«Ma…» ed esitò. «Non sembri provare ciò che sento io.»
Dumusa soffiò in aria un pennacchio di fumo.
«Col tempo ho capito» disse «che se sarò abbastanza fortunata da diventare cavaliere, dovrò rispondere appena Seiiki chiama. Non potrò contare su giornate intere di addestramento. Ricorda, Tané: per tagliare, una spada non ha bisogno di essere affilata tutti i giorni.»
«Lo so.»
Dumusa le lanciò uno sguardo penetrante. «E allora smettila di affilarla. E va’ a dormire.»
La prova finale avrebbe avuto luogo nel cortile. Tané fece colazione prima dell’alba e andò subito a prendere posto sugli spalti.
Poco tempo dopo la raggiunse Onren. Ascoltarono in silenzio il rombo remoto di un tuono.
«Allora,» disse infine Onren «ti senti pronta?»
Tané annui, ma poi scosse il capo.
«Anch’io.» Onren offrì il volto alla pioggia sferzante. «Sarai cavaliere, Tané. I Miduchi giudicano il rendimento complessivo delle prove dell’acqua, e tu te la sei cavata egregiamente.»
«Questa è la più importante» mormorò Tané. «Useremo soprattutto la spada. Se non riusciamo a vincere un duello adesso che siamo a scuola…»
«Sappiamo tutti quanto sei brava con la lama. Andrà benissimo.»
Tané si premette i palmi tra le ginocchia.
Gli altri cominciavano ad arrivare, e quando furono tutti presenti comparve anche il Generale dei Mari. Al suo fianco un servitore col compito di ripararlo dalla pioggia saltellava in punta di piedi tenendo l’ombrello.
«L’ultima prova è con la spada» annunciò il generale. «Chiamo per prima l’onorevole Tané, della Casa di Mezzogiorno.»
La ragazza si alzò.
«Onorevole Tané,» disse il generale «oggi combatterai contro l’onorevole Turosa, della Casa di Settentrione.»
Turosa scattò in piedi senza un attimo di esitazione.
«Si vince al primo sangue.»
Si incamminarono ai lati opposti del cortile per prendere le spade. Quindi, con gli occhi fissi in quelli dell’avversario e le lame sguainate, si ricongiunsero al centro.
Gli avrebbe dimostrato lei di cosa era capace la feccia.
Gli inchini furono rapidi e legnosi. Tané impugnò la spada con entrambe le mani. Vedeva solo Turosa, i suoi capelli gocciolanti, le narici dilatate.
Al segnale del Generale dei Mari, Tané si scagliò sull’avversario. Le loro lame si incrociarono. Il viso di Turosa era tanto vicino al suo che poteva sentirne il fiato e inalare l’odore pungente del sudore che gli impregnava la tunica.
«Quando sarò il comandante dei cavalieri» sibilò il ragazzo «farò in modo che nessun plebeo si avvicini mai più a un drago.» Clangore di spade. «Tra poco te ne tornerai nella topaia in cui ti hanno pescata.»
Tané tentò un affondo, e lui parò il colpo a meno di una spanna dal petto.
«Ricordami,» continuò a voce bassa «da dov’è che vieni di preciso?» Spinse via la sua spada. «Ce l’hanno un nome quei cumuli di merda che considerate villaggi?»
Se sperava di infastidirla insultando una famiglia che non aveva mai conosciuto, avrebbe dovuto attendere un migliaio d’anni.
Si avventò su di lei. Tané schivò il colpo e il duello ebbe inizio sul serio.
La danza con le spade di legno non contava. Qui non c’era alcuna lezione da imparare, nessuna abilità da perfezionare. Alla fine, il confronto fu rapido e brutale come l’estrazione di un dente.
Il mondo di Tané si ridusse a un torrente di pioggia e metallo. Turosa saltò. Tané scartò, deviando il suo fendente, e lui cadde accovacciato. Fu di nuovo su di lei prima di darle il tempo di respirare, con la spada lampeggiante come un pesce tra le onde. Rispose a ogni attacco, finché lui fece una finta e le sferrò un pugno sotto il mento. Un violento calcio nello stomaco la costrinse a terra.
Era una finta facilissima da prevedere, ma la stanchezza aveva avuto la meglio. Intravide, attraverso la cortina di pioggia, il Generale dei Mari che la osservava col volto privo di emozione.
«È giusto così, paesana» sogghignò Turosa. «Stattene per terra. Il posto della feccia.»
Come un condannato in attesa dell’esecuzione, Tané abbassò il capo. Turosa la studiò dall’alto, indeciso su dove colpirla per farle più male. Un passo ancora e fu a portata.
E qui Tané sollevò la testa di scatto, e slanciò le gambe verso Turosa costringendolo a fare un saltello per evitarle. Si diede la spinta e volteggiò come un uragano ritrovandosi di nuovo in piedi. Turosa riuscì a respingere il primo attacco, ma la mossa l’aveva colto di sorpresa, glielo si leggeva negli occhi. Il suo gioco di piedi si fece goffo sulle lastre di pietra bagnata, e quando la lama avversaria tornò ad abbattersi su di lui, fu troppo lento a sollevare il braccio per pararla.
Un graffio, sottile come un filo d’erba, si disegnò sulla mascella di Turosa.
Meno di un secondo dopo la sua spada squarciò la spalla di Tané. La ragazza trasalì mentre lui barcollava via, il volto contratto in un ringhio schiumante.
Gli altri guardiani allungarono il collo per osservare la scena. Tané, ansimando, non perdeva di vista l’avversario.
Se non era riuscita a farlo sanguinare, il combattimento era perso.
Lentamente, dal graffio sulla guancia di Turosa fuoriuscì un rivoletto color rubino. Fradicio e tremante, il ragazzo si portò un dito al volto e trovò la macchia, accesa come un bocciolo di mela cotogna.
Il primo sangue.
«Onorevole Tané della Casa di Mezzogiorno,» annunciò il Generale dei Mari, e lo fece sorridendo, «la vittoria è vostra.»
Non aveva mai udito parole più dolci.
Quando si inchinò, il sangue le sgorgò dalla spalla come rame fuso. Il volto di Turosa era una maschera di rabbia. Era caduto nel tranello, un tranello che non avrebbe ingannato nessuno, perché aveva sottovalutato l’avversaria. Mentre lui la fissava, Tané comprese finalmente che non l’avrebbe mai più chiamata “feccia plebea”: quell’appellativo avrebbe dimostrato che la feccia poteva essere migliore del vino più pregiato.
L’unico modo per salvarsi la faccia era trattarla da pari.
Uno squarcio di luce si aprì nel cielo mentre il rampollo di cavalieri si inchinava davanti a lei, più profondamente di quanto Turosa avesse mai fatto.