16.
«È un pezzo che ti aspettavo» disse il colonnello. «Mi sorprende, devo ammetterlo, che il cammino per venire da me ti costasse tanta fatica. Vieni, siedi qua con me alla scrivania».
«Come faceva a sapere che avevo intenzione di venire da lei?» chiese Proska. Era cosí stupito che scordò di sedersi.
«Questi sono dettagli» rispose il colonnello Swerdlow, «e se anche te lo dicessi, non ti cambierebbe nulla».
«Ma lei non può immaginare le mie intenzioni».
«Non le immaginiamo, dici bene, le conosciamo».
«E quindi sa anche perché sono venuto».
«Lo so, ma affinché tu non creda che ci manchi la disponibilità ad ascoltarti, racconta!».
Il colonnello si stava pulendo le unghie con un coltellino da tasca. La scrivania era sgombra. Swerdlow doveva essere stato in procinto di lasciare l’ufficio. Ma non dava l’impressione che la visita di Proska lo trattenesse da altre cose. Sembrava perfino contento che Proska fosse finalmente venuto da lui.
«Siediti, Proska, e raccontami quel che hai nel cuore. Non vuoi toglierti il cappotto?».
«No».
«E perché no? Intanto che sei qui, il cappotto può asciugare. Magari non asciugherà del tutto, ma abbastanza da sembrarlo. E poi senza cappotto uno parla piú liberamente».
«Lo tengo indosso» si ostinò Proska; sedette e tirò l’orlo sopra le ginocchia.
«Non hai molto da dirmi, è vero?».
«Sí».
«Sei venuto con una richiesta?».
«Sí» ripeté Proska, «sono venuto a chiedere spiegazioni».
Il coltellino scorreva sotto le unghie, raspando.
«Allora» disse il colonnello dopo un po’; raddrizzò il busto, chiuse il coltellino e lo buttò sulla scrivania. «Di tanto in tanto è cosa che va fatta». Sorridendo, proseguí: «Sotto le unghie si deposita il nero della tradizione, e siccome aumenta alla svelta e nessuno vuole portarne il peso, di quando in quando lo si gratta via. Lo sai perché tra le scimmie non c’è progresso? Perché non hanno ancora scoperto il significato rivoluzionario dell’igiene. Se l’avessero scoperto, oggi non starebbero dove stanno. Ma non intendo annoiarti con discutibili freddure. In questo momento hai l’aria di uno che non ha mai riso in vita sua. Che cosa volevi dirmi?».
«Tanto lo sa già, no?».
«Sembri preoccupato del fatto che io sappia quel che credi di sapere solo tu. Credimi, è l’unica possibilità di condurre una rivoluzione senza rischi. Se non sapessimo quel che sapete, se non avessimo idea di quel che volete, potremmo anche metterci sui fornelli e farci imbottire dalla nonna. Perché abbiamo rivalutato la coscienza dei singoli a vantaggio di una coscienza collettiva? Perché ci siamo dati tanto da fare per intrufolarci tra i vostri gangli? Perché abbiamo scavato nelle vostre vite come vermi nella terra? Perché ci siamo infilati come niente fosse nel vostro letto, a sudare insieme a voi sotto la stessa coperta? Ebbene: perché abbiamo capito che la rivoluzione può riuscire solo a una condizione. E tale condizione è che sappiamo quel che voi sapete, poiché il nostro sapere vale qualcosa solo se conosciamo qual è il sapere che voi portate sotto il cranio. Chi non è pronto ad andare a letto con la massa e, mentre ci va a letto, a restare freddo e registrarne i riflessi, è spacciato senza speranza».
Proska disse: «Tutto questo non mi interessa».
«Lo so» disse il colonnello, «che queste cose non ti interessano. Del resto neanche serve che te ne occupi. Tu sei un solitario, Proska, e puoi ringraziare di esserlo. Perché se non fossi stato un solitario non ti avremmo certo perdonato tanto spesso. Ma uomini come te ci servono. Per caso ti stupisce che io ti parli con tanta sincerità?».
«No».
«Non ti stupisce?».
«Mi stupisce un’altra cosa» disse Proska.
Premette cosí forte le dita contro il bordo della scrivania che le nocche sbiancarono.
«Ti stupisce che nel tuo ufficio gli impiegati cambino tanto spesso, non è vero?».
«Sí» disse forte Proska, «fate sparire tutti quelli che non vi stanno bene. Un bel mattino qualcuno non compare piú al lavoro, e nessuno sa che fine abbia fatto. Che cosa succede a quelli che non vi vanno a genio, eh?» Pensò a Zwiczos e strinse i denti guardando Swerdlow dritto in faccia. «Come si fa a lavorare con questi continui cambiamenti?».
Il colonnello aprí e richiuse il coltellino e passò la lingua sulla fila dei denti.
«Sta’ tranquillo. I cambiamenti rispondono esattamente al principio dinamico del progresso. L’acqua ferma ha un cattivo sapore. Preferisci bere da una pozzanghera imputridita o da un ruscello di montagna? Lo vedi?».
Proska tremava. Saltò in piedi e disse: «Entrate dentro di noi come un trapano, è vero, ma una volta che siete dentro ci avvelenate il sangue e ci mangiate dall’interno. Vi ho osservati abbastanza. L’ho capito dove volete portarci. A me non la fate mica».
Swerdlow lo guardò con gli occhi socchiusi e disse calmo: «Non ti agitare tanto. A te non ti abbiamo ancora cambiato. Vuol dire che di te ci fidiamo. E ci fidiamo di te nonostante tu non vada a nessun raduno e a nessun addestramento. E dire che proprio tu ne avresti un gran bisogno. Almeno capiresti perché il motore dev’essere pulito».
«Perché Mospfleger è stato arrestato?» chiese Proska freddo.
«Per bastanti motivi».
«Quali motivi?».
«L’hai capito che sappiamo piú di te?».
Proska tacque.
Il colonnello proseguí: «Allora l’hai capito. E non è possibile che anche nel caso di Mospfleger ne sapessimo piú di te? Non basta respirare per giudicare, Proska; respirare è certo un logico presupposto per giudicare, ma un presupposto tra molti. Io nei tuoi panni, dal momento che con ogni evidenza gli altri presupposti ti mancano, mi accontenterei di respirare e mi asterrei dal giudicare».
«Lo avete fatto sparire perché raccoglieva proseliti per un’organizzazione che è contro la guerra».
«Ogni organizzazione che viene fondata è una lancia nella carne dello Stato. Ma adesso taci. Mi hai già detto troppo. Ne avrò da rimuginarci sopra a lungo».
Il colonnello si alzò, raggiunse a piccoli passi la finestra e oscurò la stanza. Poi riprese posto dietro la scrivania e spiegò: «Non mi piace che mi vedano dalla finestra. Mi sento sempre cosí inerme. Ci credi?».
«Dio vede anche attraverso la tenda» disse Proska.
«Ecco, lo vedi? Davanti a lui non mi sono mai sentito inerme. Ha commesso un errore a crearci a sua immagine e somiglianza. E ne paga lo scotto, perché appena abbiamo un diverbio con lui, gli rigiriamo contro le sue stesse doti, quelle che lui ci ha dato. Non vorrei essere al suo posto. Ma non bisogna parlare di Dio a ogni occasione. Volevi sapere dove portiamo le persone che spariscono dall’ufficio?».
«Di voi non voglio saperne piú niente» disse Proska, si alzò e andò alla porta. «Fate pure quel che vi pare. Ho giocato sempre a carte scoperte, io, e le dico che...».
«Ssst» lo interruppe il colonnello. «Sta’ buono, adesso. Sei sovreccitato e stanco. Hai bisogno di riposarti; riposarti dal mondo. Va’ a casa, Proska. Chissà che cosa ti è preso. Buona notte».
Proska lasciò la stanza senza dire un’altra parola. Si fermò un po’ stordito sul pianerottolo delle scale, dove gli parve di sentire dei brevi clac metallici. Quindi scese piano le scale, passò il controllo senza problemi e raggiunse la strada. La pioggia cadeva ancora, sottile come refe. Proska si avvolse stretto nel suo cappotto e prese una direzione qualsiasi, tanto per allontanarsi da quel palazzo. Ma ovunque si rivolgesse e per quanto svelto camminasse, il palazzo non lo lasciava, in qualunque direzione si muovesse non riusciva a superare una certa distanza: arrivato a un determinato limite non era piú in grado di proseguire e si ritrovava costretto a fare dietrofront, come se fosse una particella nel campo di influenza di un elettromagnete, impossibilitata a uscire da quell’ambito delimitato. Decise di andare a bere nella sua birreria abituale. Una birra o un’acquavite di patate, qualcosa. Nella birreria lo conoscevano bene, lo conoscevano persino i gatti. Quando mangiava lí si mettevano a elemosinare ai suoi piedi. Lo seguivano attenti portare il cucchiaio alla bocca, spingendo quell’impudenza innocente al punto di farlo arrabbiare tanto che finiva per gettargli qualcosa sull’assito. In quel modo lo lasciavano mangiare in pace qualche istante.
Quando Proska entrò, l’oste trasalí e lo condusse in una stanza sul retro. Era una camera piccola dalle pareti spoglie, in un angolo c’era un tavolo e sul tavolo della birra. Al tavolo sedeva Kunkel, quello dell’ufficio di Proska.
«Buona sera» disse Kunkel.
Proska, turbato, fece un cenno di saluto con la testa. L’oste chiuse la porta.
«Che ci fai tu qui?» chiese Proska. «Ci vieni spesso?».
«No».
«Sei venuto per me?».
«Sí. Sono contento di averti trovato. Siamo usciti a cercarti o ad aspettarti da qualche parte in tre. Fabrun si è messo davanti alla latteria poco prima di casa tua, Kroogmann è alla stazione e io, come vedi, ti attendevo qui».
«Che significa?» domandò Proska. «Perché mi date la caccia? Che volete da me?».
Kunkel sussurrò: «Devi sparire».
«Cosa?».
«Devi tagliare la corda piú presto che puoi. Ti stanno aspettando a casa. Li ho notati entrare io stesso. Finora non li hanno ancora visti uscire».
«Sei sicuro che stiano aspettando proprio me?» chiese Proska. «Nella casa vive anche altra gente. Tu come fai a saperlo?».
«Stanne certo, Proska, aspettano proprio te. Non conosco nessuno piú nel mirino di te».
«Non mi dici niente di nuovo. Siamo tutti nel mirino. Arrivo proprio ora da un incontro con Swerdlow».
«E che cosa intendi fare?».
«Posso fare una cosa soltanto».
Kunkel gli spinse davanti un pacchettino, prese la mano di Proska, la strinse e disse: «Chissà che presto non ci rivedremo. Addio».
Quindi lasciò impassibile la stanza.
Prima di mezzanotte la pioggia smise di colpo e il vento calò. Proska non se ne rese nemmeno conto. Nel vivaio gli abeti erano piantati fitti, e appena toccava un ramo subito gli schizzavano addosso le gocce rimaste sospese sugli aghi. Avanzava molto lentamente.
I giovani alberi erano una spanna piú alti di lui, lo tolleravano malvolentieri in mezzo a loro.
Tra le piante c’era un’afa insolita per la stagione. L’afa si schiacciava a terra, e quando a intervalli regolari Proska si acquattava ad ascoltare, quando scendeva in ginocchio a riposare e tendeva l’orecchio nell’oscurità, gli spirava addosso ed era come se la terra gli alitasse in piena faccia, senza riguardo. Era un fiato che gli arrivava da tutte le direzioni, non poteva scansarlo. Aveva la camicia e le mutande appiccicate al corpo, le dita gonfie e sentiva martellare all’impazzata dietro le tempie.
Dopo il vivaio lo aspettava un campo arato di terra molle, fertile. Si buttò nel primo solco. Ascoltò il cuore battere contro il suolo. Tastò il piccolo vallo con la mano, poi sollevò la testa, sostenne il busto e spiò avanti. Insperatamente uscí la luna, guardò giú e se ne andò. Tutto sgombro... venti metri senza una sentinella. Avanti, solco dopo solco, salto dopo salto. Sostando fra un balzo e l’altro, fermo ad ascoltare. In alcuni solchi c’era qualche dito d’acqua. Nuvole basse, cielo basso. Proska spiccò un altro salto, e ancora in volo si accorse che là dove stava per atterrare c’era già qualcuno. Si girò di lato, con uno strappo cambiò direzione mentre era ancora sospeso e invece di cadere addosso a quello acquattato sotto di lui gli finí sulle gambe. Proska capí subito che non era una sentinella. Era una donna. Che lanciò uno strillo sommesso perché Proska le aveva colpito lo stinco con uno stivale.
«Zitta» le disse tra i denti. La donna tacque e guardò concentrata avanti. Aveva accanto uno zaino fradicio e sporco di terra.
«C’è qualcuno?» chiese Proska sottovoce.
«Sono in due. Si incontrano poco prima del prato e poi si dividono. Ogni tre minuti».
«Quindi?».
«Tra poco si rincontrano. Una volta che si sono divisi, è il momento».
Restarono muti nel solco, uno accanto all’altra, e quando le sentinelle si avvicinarono al punto di incontro, loro abbassarono le teste. Proska le sfiorava con la faccia i pantaloni della tuta sportiva. Si sentí un po’ piú sicuro di prima.
La luna saltò fuori ancora una volta da dietro una nuvola.
«Questa non ci voleva» sussurrò la donna.
Lui sollevò la testa per controllare quanto ci avrebbe messo la nuvola successiva a nascondere la luna, ma nel frattempo era già sparita.
Le sentinelle si incontrarono. Scambiarono qualche parola. Avevano le carabine appoggiate sui fianchi. Proska pensò: “Senza sicura, pronte a sparare. Ragazzini”.
Sussurrò: «Lo zaino glielo prendo io, saremo piú veloci».
Lei rispose sottovoce: «No. Ce la faccio. Non è troppo pesante».
Proska intuí che lei stava mentendo, allungò una mano e afferrò una delle cinghie. La tirò cauto.
«È troppo pesante per lei. Con quello non riesce a correre». La donna si accorse che lui aveva la mano sulla sua roba e tirò lo zaino piú vicino. Se lo tenne spasmodicamente stretto.
«Lo porto io» insistette Proska. «Altrimenti di là non ci arriviamo».
«Peggio per me» disse lei. «Se mi tocca lo zaino mi metto a strillare. Non mi importa piú niente».
«Non glielo voglio mica portar via».
«Allora me lo lasci e basta».
Proska capí di non poter vincere la diffidenza della donna. Piuttosto che affidargli lo zaino si sarebbe fatta catturare dalle sentinelle.
“È inutile. Si metterebbe a strillare anche se cercassi di aiutarla mentre corriamo... che se lo porti da sola, questo coso... le sentinelle...”
Le sentinelle si separarono. Ripartirono in direzioni opposte, lentamente. Pochi passi dopo, il buio le aveva già fatte sue. Nella loro presenza invisibile le due sentinelle erano cosí enormi che a un tratto diventarono quattro, otto, sedici, trentadue. Alla luce del giorno due sentinelle sono due sentinelle; nel buio si moltiplicano.
«Adesso!» esclamò la donna.
«Non ancora» la fermò Proska.
Lei ubbidí. Restò distesa accanto a lui, pronta a saltare in piedi al suo segnale.
Proska prese in mano una zolla di terra, la schiacciò e comandò: «Via!».
Saltarono in piedi e si misero a correre piegati sopra i solchi, sempre pronti a buttarsi a terra, pestarono nell’acqua, scivolarono e si ritirarono su; lui davanti: senza bagagli, forte e deciso, lei dietro: disperata, barcollante, con il peso dello zaino sulla schiena. Quando la distanza fra loro si faceva troppo grande lui si fermava impaziente, girava indietro la testa e a grandi gesti la spronava a raggiungerlo. Arrivarono al prato: pali marci e triplo filo di ferro. Proska si arrampicò sul filo piú in alto – i pali si inclinarono verso di lui – e saltò. Si sollevò un suono cigolante, rugginoso. Proska schiacciò a terra con il piede il filo piú basso, con le mani tirò quello di mezzo verso l’alto e disse: «Su, presto, passi».
Mentre lei si intrufolava tra i fili, lui girava la testa a destra e a sinistra scandagliando l’oscurità con lo sguardo in cerca delle sentinelle. Presto sarebbero state di ritorno. Che fossero già lí vicino? Stavano guardando lui e la donna darsi tanta pena per niente? Proska lasciò cadere il filo, prese per la mano la donna e la strattonò sul prato. “Le sentinelle dovrebbero incontrarsi tra pochissimo... non scappare subito... meglio stendersi a terra... ancora quattro passi... ora”.
Si buttò a terra e tirò giú con sé la donna. Finí distesa per metà su di lui, tremava. Il suo respiro gli scavava attraverso i vestiti. Proska contò fino a novanta e sperò in Dio. Non poteva vedere il punto in cui le sentinelle si incontravano, l’angolo di visuale era troppo ristretto. Dopo aver contato fino a novanta puntò le mani, si sollevò e ansimò: «Presto, attraversiamo il prato».
Superarono il prato e raggiunsero un bosco di alberi alti e solenni. Attraversarono il bosco e a un tratto si trovarono su una scarpata. L’orizzonte schiariva, il giorno prometteva di sorgere. Nella foschia del mattino fiammeggiava lontano l’occhio rosso di un cartello. Ai loro piedi correva una strada. Proska disse: «Ce l’abbiamo fatta. La strada è questa. Abbiamo avuto fortuna. Ho contato fino a novanta perché credevo che a quel punto le sentinelle sarebbero state lontane abbastanza. Non mi sbagliavo. Lei dove ha intenzione di andare?» .
La donna rispose: «Nel prossimo paese. Da mio marito. Non è lontano da qui. Probabilmente mi sta venendo incontro».
«Dice cosí perché ha paura di me?».
«No. Mio marito mi aiuterà a portare lo zaino, ho preso i manoscritti e gli appunti che aveva ancora di là. Non è rimasto altro».
«È per questo che ha passato il confine?» chiese Proska.
«Gli servono queste carte. Gli hanno appena offerto una cattedra in università».
Parlava in tono sempre piú sommesso, alla fine la voce soffocò, lei si sedette sullo zaino e pianse.
Proska discese la scarpata e si incamminò verso la stazione. Per strada incontrò un uomo, gli si parò davanti e disse: «Sua moglie è là dietro. È andato tutto bene».
Il treno diretto a nord partí puntuale.
La grande locomotiva fermò puntuale sotto la cupola di vetro della stazione centrale. Soffiò a sbuffi denso fumo nero contro il tetto trasparente; dalle fiancate roventi sgocciolò sui binari. Un uomo con un oliatore le andò vicino, svitò qualche tappo, cercò le imboccature con le dita e accostò l’attrezzo.
Proska scese. Si ritrovò subito nella fiumana dei passeggeri diretti all’uscita. L’onda lo trascinò su per le scale e quando all’improvviso si ritrovò nell’atrio polveroso quasi si spaventò. Non era piú incuneato tra spalle calde; la fiumana l’aveva perso, abbandonato.
Non c’era nessuno che lo conoscesse, nessuno che reclamasse di parlare con lui, nessuno che mostrasse interesse, che si accorgesse della sua presenza.
“In qualche modo andrò avanti… mi troverò un lavoro... andrà tutto a posto...”
Pervaso da fiducia e speranza, passò piano fra i banchetti dei venditori nell’atrio, lesse i cartellini dei prezzi e le scritte su vasi e scatole. Poi si fermò davanti a un muro a cui era appesa una tavola nera.
A sinistra un cartello: Assassino, e sotto: Ricompensa. E di fianco: Avvisi, avvertimenti, appelli, richieste, indicazioni, ricerche. Cane alano scappato. A chi fornisce... Ho perduto un bracciale d’argento, per l’onesto che...
Una locomotiva in transito fece tremare l’atrio della stazione. Il pavimento vibrò e la vibrazione proseguí anche nel corpo di Proska. Diede una scorsa agli avvisi delle autorità e dei privati. Ci scivolò sopra con lo sguardo, poco convinto. “Obbligo di denuncia... La vaccinazione dei bambini in età scolare si tiene il… Le esche per la derattizzazione... di sicura efficacia, molte lettere di ringraziamento... dimostrazione su richiesta... in conformità alla Comunicazione del LDJ/IIIC e del Comitato di quartiere del VDB, tutti i membri hanno...”
All’improvviso Proska trasalí come se qualcuno l’avesse chiamato dal cielo. Sussultò come se l’avesse colpito un fulmine. Si inclinò leggermente da una parte, dal cervello gli drenò tutto il sangue; chiuse gli occhi e di colpo li riaprí. Mormorò un nome e si voltò di scatto temendo che un estraneo potesse averlo sentito. Ma lí vicino non c’era nessuno. Era rimasto quasi solo nel vasto atrio. Sul bordo della bacheca era appeso un annuncio:
Cerco mio marito
Kurt Rogalski
visto l’ultima volta a Sybba / Prussia Orientale.
Chi dispone di informazioni
è pregato di rivolgersi a Maria Rogalski,
domicilio temporaneo a...
«Chi dispone di informazioni» lesse Proska sottovoce.
Solo tu, Proska. Solo tu sai che cosa gli è accaduto. Quello che è successo lo hai causato tu. Non esiste atto senza conseguenze, tu hai agito come pensavi fosse necessario agire. Non sei rimasto con le mani in mano. Spronato dalla tua coscienza: sempre avanti. Dietro si agisce in maniera inessenziale. L’essenziale avviene sempre davanti. Maria, tua sorella, cerca suo marito. Lo hai ucciso tu. Tutti hanno visto che è stato lui a mettersi sulla traiettoria del proiettile. Ma è stato il tuo dito a piegarsi, è stata la tua spalla a parare il contraccolpo.
Maria vuole certezze. Solo tu gliele puoi dare, Proska. Devi dargliele. Soffrine le conseguenze, ma non dimenticare di agire. Non devi scriverle subito, non lo pretenderà. Ma prima o poi devi farlo. Una volta che saprai dove dormire, una volta che avrai trovato dove poter stare da solo con te stesso e le tue lunghe giornate, una volta che saprai che tutte le strade desiderano essere percorse fino in fondo: allora, Proska, dovrai scriverle. Lo farai. Devi. Ormai ti conosciamo troppo bene.
Proska aprí gli occhi e si scosse come per scrollarsi le ultime gocce di ricordi che gli erano rimaste ancora attaccate addosso. Aveva impiegato mesi a trovare la forza per scrivere a sua sorella. Ora la lettera era dentro la buca, dall’altra parte della strada, una confessione con regolarmente regolare affrancatura, grazie al francobollo prestato dal vecchio farmacista che per dimenticare non esita a drogarsi.
“Che cosa dirà dopo averla letta?... Che cosa mi risponderà, se mai lo farà?”
Guardò il postino avvicinarsi alla buca delle lettere, lo osservò aprire lo sportello sul fondo e rovesciare con indifferenza le buste in un sacco di tela impermeabile, salire in bicicletta e ripartire. La croce dei battenti della finestra gettava nella stanza un’ombra netta. Le rondini volavano basse.
E venne il giorno in cui il postino salí la scala ripida che portava da Proska.
«Per lei» disse, e se ne andò.
Proska si precipitò alla finestra e con le dita tremanti mise la lettera sotto la luce. Era la sua lettera a Maria! Qualcuno aveva scritto sul retro con una matita copiativa: «Non recapitabile. Destinatario trasferito a indirizzo sconosciuto».