15.

All’inizio, i colleghi nell’ufficio di Proska cambiavano molto in fretta. C’era un va e vieni continuo e felpato; uno arrivava, svolgeva per un po’ il suo lavoro, poi un’ombra lunga iniziava a cadere su di lui finché da un giorno all’altro spariva. Solo Proska restava. A lui era concesso. Quando la sera sbucava da dietro la sua porta doppia, passava a salutare ciascuno con grande scrupolo, non sapendo se il mattino dopo l’avrebbe ritrovato ancora. Non aveva il potere di intervenire, non sapeva nemmeno chi fosse il responsabile delle sostituzioni, però avvenivano per cui qualcuno che le disponeva doveva esserci. Con il passare del tempo Proska sviluppò la capacità di capire chi sarebbe stato il prossimo a sparire, le persone in questione avevano la loro sorte scritta in faccia, come uno stigma, inequivocabile. Lui si sbagliava assai di rado. E la volta che sbagliava aveva la sensazione non che la sua profezia fosse errata, ma che l’ufficio responsabile delle sostituzioni avesse revocato all’ultimo momento la propria decisione. Per quale motivo, lui certo non lo sapeva. Non che gli fosse indifferente, ma proprio non vedeva come avrebbe potuto scoprirlo. A volte pensava che ci fosse lo zampino del colonnello, solo che non ne aveva alcuna prova. Proska se ne stava seduto dietro la sua porta doppia e rifletteva. Si lambiccava il cervello con le ipotesi piú assurde, eppure nessuno dei volubili risultati delle sue riflessioni portava mai a qualcosa. Non trovavano mai conferma, e la sua inquietudine cresceva. Cresceva nonostante lui personalmente non avesse alcunché da lamentare. La porta doppia gli segnalava quando qualcuno stava per entrare nel suo ufficio, cosí non era mai colto di sorpresa. Appena sentiva abbassare la prima maniglia aggiustava espressione, riponeva svelto tutto quel che non aveva a che spartire con il lavoro e a quel modo si faceva sempre trovare preparato.

Chi gli portava qualcosa da firmare o richiedeva una valutazione evitava qualsiasi tentativo di entrare in confidenza, restava in torpida subordinazione finché lui comunicava la sua decisione, e non si permetteva di offrire consigli che lui del resto nemmeno si aspettava. Quando Proska era di nuovo da solo cominciava a rimuginare, pensava afflitto a Wanda, si chiedeva di continuo perché lei non avesse risposto a tutte le lettere che lui nel frattempo le aveva scritto. Pensava che forse c’era al mondo un figlio suo, e cercava di immaginarsi che aspetto avesse. Proska tornava nella palude, veniva colto da una nostalgia strisciante del fortino e del vecchio fiume. “Wolfgang, Zwiczosbirski, Maria… se Maria sapesse… se venisse a sapere che Rogalski l’ho… prima o poi lo scoprirà... il passato non è clemente fino a questo punto... il passato ritorna... riporterà a galla il mio segreto... niente viene dimenticato... le parole che abbiamo detto nella pioggia, i nostri movimenti, gli sguardi, i pensieri, tutto... non c’è profondità abbastanza profonda perché il tempo non riesca a riportarla in superficie... Stare qua e respirare e aspettare... respirare... aspettare... quasi tutti vengono sostituiti... sostituiranno anche me... ma dopo cosa accade?... Non è che dopo possono lasciarmi andare... Perché uno gli sta bene e un altro lo fanno sparire?... Giovedí hanno arrestato Mospfleger perché in una birreria ha fatto proselitismo per l’organizzazione degli obiettori di coscienza... Stamattina mancava Jupp... non l’avevo nemmeno salutato come si deve... Che trattengano loro le lettere che mando a Wanda?... Avamposto, ha detto il colonnello...”

Con una decisione improvvisa, Proska aprí il cassetto e ci buttò dentro tutto quello che aveva sopra la scrivania.

Si avvolse la sciarpa intorno al collo, infilò il cappotto e aprí la porta doppia. Le persone nell’anticamera sollevarono stupite la testa, non avevano mai visto Proska cosí; la sua cupa determinazione li disorientò, e si misero a scartabellare svelti tra i fogli che avevano davanti. Era la prima volta che lasciava l’ufficio durante l’orario di lavoro. Gli altri conoscevano il passato recente di Proska e per questo lo rispettavano. Ma nessuno di loro sapeva che cosa facesse di preciso dietro la sua porta doppia; non avevano la minima idea di che ruolo ricoprisse, perché non prendeva parte agli addestramenti né lo si incontrava ai raduni o alle manifestazioni. Di certo talvolta si stupivano che nonostante ciò resistesse ancora al suo posto. Se lo spiegavano solo con il suo passato.

«Kunkel» ordinò Proska, «vai al telefono. Se suona, tu alzi il ricevitore e dici che torno presto».

«Va bene» disse Kunkel. «Avrei qui ancora due firme...».

«Dopo» disse Proska. «Facciamo tutto dopo».

E uscí dall’ufficio.

Nel lungo corridoio piastrellato c’erano alcune panche, e sopra le panche sedevano le persone che volevano accedere al reparto di Proska, e quando passò di fronte a loro con i passi che riecheggiavano e il corpo proteso avanti, il mormorio si spense e tutti gli occhi puntarono su di lui. Le pratiche di quella gente dipendevano da lui, e loro sembravano averne il sentore. Il suo cappotto svolazzante sfiorava un ginocchio a uno e toglieva il respiro di bocca a un altro. Proska non si voltò verso nessuno. Fino ad allora, la sua anticamera gli aveva risparmiato ogni contatto diretto. Non aveva mai attraversato prima il corridoio strapieno e in quell’istante si ripromise per il futuro di trattare lui stesso con le persone in attesa. Questo gli avrebbe impedito di continuare a seguire i suoi pensieri come era accaduto fin lí, d’altro canto però un po’ di distrazione gli avrebbe fatto bene.

Quando si fermò un istante sulle scale ad abbottonarsi il cappotto, Proska sentí che in corridoio il mormorio tornava ad animarsi: un rigagnolo senza nome. Gli colpiva l’orecchio come un rullo di tamburi lontano. Scese le scale a balzi, passando davanti a giganteschi manifesti, striscioni, moniti, superò svelto la gabbia di vetro del portiere voltando la faccia dall’altra parte e scese in strada.

Fuori pioveva, Proska sollevò il bavero e attraversò una piazza solitaria.

Era un pomeriggio d’autunno cupo e freddo. Il sole non si faceva vedere da giorni. L’aria era particolarmente greve, sembrava che i polmoni la assorbissero controvoglia. La caligine che normalmente restava solo un po’ sopra le fabbriche prima di essere spinta via dal vento resisteva ostinata in città. Si infilava nei pori, nelle narici, ne sentivi il sapore sulla lingua.

Proska attraversò i giardini pubblici. In lungo e in largo non si vedeva anima viva. Rallentò il passo e chi non lo conosceva avrebbe detto che cercasse di andare in due direzioni diverse insieme, perché trottava qualche metro avanti, poi a un tratto scartava a lato, ma di lí a poco tornava sul prolungamento del tratto di partenza. Continuò cosí finché ebbe i giardini alle spalle, e a quel punto era anche già alla stazione. “Il colonnello sarà piú bendisposto se arrivo da lui poco prima che stacchi dal lavoro... a quest’ora potrei distoglierlo da qualche occupazione importante... speriamo che non stia trascorrendo proprio adesso le vacanze da qualche parte sul lago Ladoga... credo che venga da là... se vado da lui fra un’ora è perfetto... prima no... prima è escluso”.

Nell’atrio della stazione c’era una quantità di donne esagerata, alcune con i bambini per mano. Guardavano in su verso l’orologio e poi in giú il marciapiede. La banchina era coperta di pozzanghere che la pioggia andava ingrossando. A parte i ferrovieri che erano dentro la casupola dei bigliettai e un anziano che teneva stretto un bastone, Proska era l’unico uomo nell’atrio. Si infilò una sigaretta tra le labbra e l’accese, lo guardavano tutti. Lui finse di non accorgersene, camminò fino davanti a un manifesto rosso e prese a pretesto di voler leggere le parole scritte in nero. In quel modo, sperava, gli avrebbero risparmiato i loro sguardi. Invece sentí i loro occhi, piú penetranti di prima, puntati sulla schiena del cappotto. Allora si girò e chiese alla donna che gli stava piú vicina: «Perché aspettate tutte qua? C’è un raduno? Perché non siete a casa, a quest’ora? I mariti vorranno ben trovare la cena, quando rientreranno dal lavoro. Io vorrei senz’altro che mia moglie...». La voce si fece incerta, sottile. Si rese conto che la sua goffa giovialità era fuori posto. Ma ormai, come poteva battersela in ritirata? Il vecchio lo stava squadrando con diffidenza, un bigliettaio allungò il collo e le altre donne avanzarono impercettibilmente verso di lui circondandolo a semicerchio.

In quella una voce gridò da sotto un commutatore: «Arriva! Da Sangsdorf lo hanno già annunciato!».

Le donne tesero come elettrizzate le orecchie, quindi si riversarono vociando con i loro bambini oltre la barriera d’accesso. Il vecchio si accodò zoppicando sopra la banchina.

«Che cosa succede qui?» chiese Proska al bigliettaio.

«Vada là avanti e lo vede da solo, che cosa succede».

«Sembra quasi che stia arrivando Lui in persona».

«Di chi parla?» chiese il bigliettaio.

Ma Proska era già andato oltre e aveva raggiunto la banchina. Girò bruscamente la testa nella direzione in cui guardavano tutti. Ormai era lí, e se gli altri aspettavano qualcosa, l’avrebbe fatto anche lui. Era pronto. La fissità ipnotica delle donne si trasmise anche a lui. Aveva gli occhi rivolti sulla curva a gomito della massicciata, dietro a cui spariva il doppio nastro lucido dei binari. La sorpresa incombeva minacciosa da là. Minacciosa? Si appoggiò contro un cartellone smaltato con la scritta “Non ci vedi? Vai da Ruhnke!” Lí la pioggia lo lasciava in pace. Al passaggio a livello non avevano ancora abbassato le sbarre. Un carro attraversò sferragliando la sede dei binari, lento, condotto con la tipica flemma da vetturino. I cavalli muovevano le grandi teste ritmicamente; non sollevarono gli sguardi dalla strada nemmeno una volta. Appena il carro fu dall’altra parte prese a suonare una campanella, a ogni rintocco le sbarre si abbassavano un po’ di piú. Proska le osservò appoggiarsi sulle forcelle di sostegno e rimbalzare su e giú prima di fermarsi.

E poi arrivò il treno. La locomotiva entrò in curva cosí di sorpresa che alcuni dei presenti ebbero un soprassalto e lanciarono grida di meraviglia e spavento. La locomotiva si avvicinò ansante, con la testa di ferro abbassata come quella di un toro. Tirava ventisei vagoni merci, rossicci cassoni sprangati. Le donne si fecero incaute e si spinsero vicino ai binari, qualcuna in maniera cosí sconsiderata che la locomotiva nel passare l’avrebbe travolta.

«State indietro, via tutte dai binari!» gridò un ferroviere passando sul bordo del marciapiede per spingere indietro le donne. Dal bordo del tender della locomotiva si sporse il fuochista. Presto ci sarebbe stato qualcosa da vedere. Era impaziente, picchiò il tacco dello stivale sopra un pezzo di carbone. Il treno si fermò e le donne gli sciamarono immediatamente intorno.

Le porte scorrevoli dei vagoni merci scivolarono di lato e davanti alle aperture si crearono grappoli umani. Bambini che chiamavano, donne che chiamavano, sotto la pioggia si agitava un mare di grida. Dai vagoni merci presero a scendere uomini che sentendosi chiamare giravano intorno le teste stupefatti e increduli. E poi si lasciavano abbracciare e baciare e condurre via zitti. Avevano i volti vuoti e gli occhi assenti e incavati. Alcuni venivano riconosciuti già dentro il vagone, mentre ancora staccavano la scodella di latta dal chiodo. Le donne li tiravano fuori letteralmente di peso e li travolgevano con una gioia priva di inibizioni. Molte andavano da un vagone all’altro a passo svelto, frugando con lo sguardo alla disperata ricerca di colui che doveva venire e non era venuto.

Proska registrò con grande attenzione tutto quanto stava accadendo. “E cosí questi sono... hanno tenuto duro per la cricca... e adesso che la cricca non c’è piú e questi poveri cristi devono ancora patirne le conseguenze... forse qualcuno di loro avrebbe fatto come me, se solo ne avesse avuto l’occasione... Non è cosí importante la forza, quanto l’occasione... Il vecchio con il bastone ha trovato suo figlio... tientelo ben stretto, per l’amor di Dio, il tuo amico bastone, conservalo in mano... senza sei spacciato... la stampella non è lí per bellezza... lo vedi? Ancora un po’ e finivi lungo disteso... cosí va meglio... ecco lí il bigliettaio a gambe larghe e schiena inarcata... vuole vedere qualcosa anche lui... quant’è contento”.

Qui i pensieri di Proska si interruppero. Si strapparono di colpo come sotto un carico eccessivo. Davanti a lui era comparso un uomo di alta statura, un uomo con una giacca di cotone sulla spalla e una scatola di cartone in mano. Proska non l’avrebbe nemmeno notato, se l’uomo non si fosse fermato. Sulla testa aveva un berretto di pelo, un affare logoro e sbiadito dalle intemperie. La faccia era sfinita per quel che aveva passato, ma negli occhi inespressivi nuotava un brandello di cielo. Il vento lo frustava, gli premeva la stoffa dei calzoni contro le cosce e i polpacci secchi, divaricandogli le gambe. Lui si sporgeva leggermente indietro come se cercasse sostegno nel vento, sembrava un chiodo piegato, e non la smetteva di fissare Proska. E sotto quello sguardo Proska raggelò, strinse alcune monete che aveva in tasca e le sfregò tra loro. Si staccò dal cartellone smaltato. Non sentiva piú il terreno sotto i piedi. Era esterrefatto come se all’improvviso avesse incontrato se stesso senza essersi mai conosciuto prima in vita sua; come se fosse andato in stazione per caso, senza nemmeno sospettare di esistere, e lí avesse dovuto rendersi conto che esisteva veramente. Gli sembrava di aver tenuto se stesso all’oscuro del suo vero io per tutto quel tempo e, come se fosse la prima volta che si incontrava, di poter quasi dire: «Buongiorno, Proska» e: «Come stai?» Gli parve anche di non aver respirato per tutto quel lasso di tempo e di scoprire solo ora che gli era necessario.

Proska si avvicinò di un passo all’uomo scarno che lo osservava immobile. Ma nell’istante in cui lo fece, l’altro andò un passo indietro, e la cosa si ripeté quattro volte. Era evidente che l’uomo non voleva che Proska gli andasse piú vicino. Cosí rinunciò, capendo che era inutile, che l’altro indietreggiava calmo e serio, che sulla faccia sfinita c’era la determinazione a indietreggiare fino alla fine del mondo, se fosse stato necessario. Molti di coloro che si erano ritrovati intanto si riversavano fuori, e il bigliettaio si affrettò a sganciare la catena che aveva teso fra la casupola e la barriera. Alla fine se ne andarono dalla banchina anche quelli che avevano aspettato e sperato invano; però non si allontanarono del tutto, si fermarono dietro uno steccato di fianco alla stazione a guardare il treno vuoto.

La mano di Proska era pronta, e se l’altro gli avesse porto la sua nello spazio che li divideva, quella di Proska sarebbe arrivata al centro per prima. Ma l’altro non lo fece. Se ne restava soltanto là, appoggiato appena al muro, a ipnotizzare Proska con la sua presenza. Proska non resistette a lungo, provò a ragionare, pensò che il modo migliore per superare situazioni del genere fosse con una parola; quel che lo tormentava cosí, rendendolo di legno, era l’incertezza sospesa in quel silenzio, perciò cercò la maniera di spezzarlo, il silenzio; in quel modo, si disse, avrebbe sopportato con meno disagio l’apparizione dell’altro. Cosí fece, in direzione dell’uomo scarno, un gesto con la mano teso a sdrammatizzare, come a dire: cos’è quello sguardo da pescecane? Non ti si addice per niente. E allo stesso tempo Proska parlò: «Zwiszos, santo cielo! Da dove salti fuori?».

Chiese proprio: Da dove salti fuori? Un’altra cosa non gli venne in mente. La sua immaginazione si era ristretta sotto gli occhi di Gamba, rinsecchita sotto quello sguardo implacabile che sembrava metterlo a nudo. La sensazione di essere messo a nudo lo inibiva terribilmente. Ora che la prima parola era stata detta, però, volle anche verificarne l’efficacia.

«Gamba» aggiunse, «come sei arrivato fin qua? Perché mi guardi a quel modo? Vieni qua, accidenti, non ti faccio mica niente. Hai paura di me?».

Zwiczosbirski distolse in silenzio lo sguardo da lui, gli girò accuratamente intorno come a un tabú ed entrò nell’atrio della stazione senza piú voltarsi indietro. Proska schiuse le labbra e fece tintinnare le monete in tasca.

Il bigliettaio gli si avvicinò da dietro e disse: «Che cosa vuole ancora? Non arriva piú nessuno».