9.
Proska fece come l’uomo gli aveva ordinato: camminò davanti a lui, non provò nemmeno a girarsi e ubbidí calmo e freddo a ogni comando. Quando il civile intimava: a destra, lui girava a destra senza pensarci su due volte, senza nemmeno badare se gli si aprisse un’occasione di fuga. Conosceva una quantità di trucchi per imbrogliare chi l’aveva fatto prigioniero, un ragazzo burbero e dinoccolato, ma sapeva che tanto non sarebbe servito a niente.
Si muovevano senza far rumore sul terreno molle. Il civile sembrava intenzionato a spingere Proska nel fiume, perché lo stava portando proprio nella direzione da cui proveniva un odore pulito e rinfrescante, l’odore dell’acqua. Il tizio dinoccolato puzzava di acquavite da quattro soldi. Aveva l’occhio sinistro cieco, non era piú costretto a chiuderlo per mirare. Il mitra gli sfregava contro la giubba.
Davanti al fiume Proska si fermò a guardare nell’acqua. E nell’acqua trovò la propria faccia e il cielo. In quella gli spuntò da dietro la spalla la testa del partigiano, che spiò il suo riflesso.
«Tu» disse.
Proska girò la testa di lato.
«Cosa c’è?» chiese.
«Avanti, sempre giú vicino fiume».
«Cosa hai intenzione di farmi?».
Il dinoccolato fece un ghigno e tacque. Girava intorno a Proska come un cane pastore con il gregge e non gli toglieva mai di dosso l’occhio sano.
«Ho sete» disse l’assistente.
Il partigiano indicò il fiume.
«Ecco» disse, «bevi acqua, tanta acqua».
Proska si distese, sostenne il busto sulle mani e bevve. Nel farlo le braccia gli tremarono, chiuse gli occhi e fra una fresca sorsata e l’altra inspirò ed espirò forte. L’acqua era pressoché insapore.
A un tratto sentí sul collo uno stivale, e lo stivale lo schiacciò. Si buttò su un fianco, bagnandosi una spalla. In piedi sopra di lui, il civile gli fece segno di alzarsi.
«Tu! Basta bere. Avanti».
Quando Proska si alzò, il partigiano fece meccanicamente qualche passo indietro. Lo fece per istinto, per mettere subito della distanza tra loro e guadagnare una visione d’insieme nonché del tempo in caso si rendesse necessario intervenire. Dal bosco giunse un rumore di spari. I colpi in rapida successione svegliarono definitivamente la palude come un rullo di tamburi. Uccelli spaventati si levarono dai loro nascondigli. Spruzzarono fuori dalle chiome degli alberi come scintille nere. Il fiume scorreva verde e placido. Senza battere contro le rive.
«Avanti» disse il dinoccolato sebbene Proska non si fosse fermato. Lo diceva come misura preventiva, e Proska continuò a camminare avanti a lui, a capo chino, con le mani dietro la schiena e il corpo leggermente incurvato in avanti. In lontananza apparve il ponte della ferrovia. Le controventature degli archi di sostegno luccicavano opache. Andarono al ponte. Risalirono il terrapieno della ferrovia, il pietrisco cedeva scricchiolando sotto i loro passi. Un segnale, la forca di un semaforo, dava il via libera. Non si aspettavano treni in arrivo.
«Avanti» ordinava il partigiano appena il prigioniero rallentava il passo. Proska aveva fame. Se avesse fumato gli sarebbero venute le vertigini. Dopo un po’ gli vennero le vertigini anche senza fumare. Ma non era ancora giunto il momento. Aveva le ginocchia fiacche. Proska non chiese al civile se quel giorno lui avesse mangiato qualcosa, lo diede per scontato. Chi è sotto custodia soggiace sempre a questo errore: dà per scontato che i custodi si trovino in condizioni migliori di lui.
«Stoi» ordinò il partigiano. Erano davanti al casotto del capostazione di Tamaschgrod. Il casotto non veniva imbiancato da un pezzo. Era una costruzione di un solo piano. Dietro a una finestra comparve una faccia piena, affabile, una di quelle facce che divertono i bambini, cosí buffa che si mettono a seguirla. Le labbra della faccia si mossero, e sebbene all’esterno non giungesse alcun suono il custode di Proska parve comprendere lo stesso. Diede uno spintone al prigioniero.
«Avanti».
Da dentro aprirono la porta e nello spiraglio la faccia fece capolino come una luna improvvisa. Era ancora piena, ma non piú affabile. La testa di Proska fu investita da una nuvola alcolica.
«Vieni» disse la faccia di luna.
«Tu, avanti» ordinò l’altro.
Proska fu condotto in uno spoglio locale di servizio. Nel locale c’erano quattro sedie, una in ogni angolo. I sedili erano tirati a lucido dai didietro del capostazione e dei suoi aiutanti. Su una delle sedie era sistemato il gigante che aveva picchiato Zwiczos e sparato ad Alma. Il gigante stava masticando, e quando ebbe finito mandò giú con un singulto. Il mitra se ne stava tranquillo sotto la sua sedia.
Il gigante strappò un gran pezzo di pane e se lo buttò in bocca come un operaio metallurgico getta carbone nel forno. Proska non aveva mai visto prima in vita sua un tizio cosí imponente. Faccia di luna andò a sedere e si mise comodo anche il partigiano che aveva fatto prigioniero Proska. C’era ancora una sedia libera, ma Proska non trovò il coraggio di andarci. Restò in piedi.
Fermo al centro della stanza, si chiese chi degli uomini avrebbe parlato per primo. Avrebbe preferito che a iniziare fosse il gigante. Gli dava l’impressione che fosse nato nella luce della verità, non lo credeva capace di mistificazioni, di menzogne, di cinismo. Era una mescolanza di sincerità e bicipiti, di candore e forza ursina.
Proska aspettò, gli bruciavano le piante dei piedi. L’impazienza non poteva essergli d’aiuto. L’impazienza non gli era mai stata d’aiuto. Proska aveva rispetto del tempo, un’umiltà inconscia nei confronti di questo elemento gli era stata propria fin da bambino. La pazienza come legittima difesa. Gli tremava la giugulare. Puntò il mento avanti, i muscoli del collo si irrigidirono e il tremito smise.
Faccia di luna leccò la cartina di una sigaretta, il gigante si mise il mitra in grembo e il custode di Proska rivolse la vista del suo unico occhio alla finestra a crociera. Oltre a quello di acquavite, a Proska sembrò di percepire nella stanza anche odore di cavalli. Che fosse il gigante? Proska lo osservò bene. Esaminò quella grande apparizione, quel risultato straordinario di un singolare concepimento. Sí, quell’uomo poteva senz’altro emanare l’odore di un cavallo.
Il tizio con la faccia di luna si accese la sigaretta, sbuffò il fumo verso Proska e disse a sorpresa: «Domani. Oggi no. Domattina presto quando la nebbia sale oltre la massicciata. Capito?».
«No» disse Proska. Infilò le mani nelle tasche, si sentí subito piú in confidenza, ora che era stata detta qualche parola. A un tratto poteva permettersi, poteva ardire di infilare i pugni nelle tasche dei calzoni. Stava nascondendo i pugni ai suoi nemici, e sapeva benissimo perché. Proska ripeté: «No, non ho capito».
«Bene» disse la faccia di luna. E poi picchiò la pancia con tale forza contro Proska che sembrò volesse procurargli una ferita.
«Bene. Ancora una volta: domattina presto, molto presto, ti metterai con la faccia rivolta alla ferrovia. Anche gli altri si sono messi con la faccia rivolta alla ferrovia. Non bisogna guardare la propria morte. Capito adesso?».
«Sí» disse Proska. Disse «sí» asciutto e noncurante, disse «sí» nel tono con cui avrebbe risposto a uno che gli avesse chiesto se gli avevano consegnato una lettera.
Il tabacco fumato da faccia di luna era di cattiva qualità. Si insinuava nei polmoni di Proska e gli dava la nausea.
«Noi andiamo via. Iutro». Due uomini lasciarono la stanza.
Adesso in un angolo sedeva il gigante, nell’altro c’era, in piedi, Proska.
«Tu. Sedia» disse amichevole il gigante.
L’assistente si sedette e distese le gambe. Si allungò ampiamente indietro, chiuse gli occhi e poi di colpo saltò in piedi.
«Tu, sedia» lo incoraggiò candido il suo guardiano.
Proska tornò esitante a sedersi, stringendo forte il sedile con le mani.
Nel suo angolo, il gigante si agitava avanti e indietro. Lanciò a Proska un breve sorriso privo di speranze. L’assistente lo raccolse e glielo rilanciò. Giocarono a palla con i sorrisi.
«Che volete fare di me?» domandò Proska.
«Fare? Fare sempre buono. Io fatto tanto».
«Di me!» disse Proska. «Mi capisci? Cosa volete fare di me, lo voglio sapere».
«Sapere» ripeté il gigante e rise da far rintronare la stanza. La porta si aprí di botto ed entrò un ragazzino a piedi scalzi, si guardò intorno e posò per terra davanti alla sedia di Proska un panino. Quindi andò via per tornare con un boccale di latte che appoggiò sempre ai piedi dell’assistente.
«Mangiare» ordinò il gigante. «Mangiare, fare, sapere».
Proska si chinò e sollevò il panino. Mangiò e bevve con foga. Sentí che le forze gli tornavano, e quando ebbe mangiato e bevuto chiese: «Hai una sigaretta?».
«Ecco» disse il gigante. Si frugò in tasca e tese il pugno chiuso verso Proska. Proska ci mise sotto la mano aperta e quando il gigante aprí il pugno cadde una pallottola, un proiettile di mitra.
«Fare» disse il gigante ridendo, e dopo un po’: «Io Bogumil».
I due non ebbero altro da dirsi. Non sapevano nulla o quasi l’uno dell’altro. Si chiusero. Nessuno aveva motivo di aprirsi all’altro. Forse nemmeno potevano, oppure lasciarono perdere per riguardo a un principio.
“Dormire” pensò Proska, “sdraiarmi a dormire. Nessuno può fermare il tempo. Se non riesci a sopportarlo, la cosa migliore è dormire. È economico. È vigliaccheria strategica. Ma a volte aiuta”.
Guardò fuori dalla finestra, il sole era già oltre mezzogiorno, grande, con l’aria che niente gli fosse impossibile. Proska aveva voglia di fumare, fu pervaso da una collera quieta. Avrebbe tanto voluto prendere il gigante a botte. Strinse forte il proiettile, il palmo della mano diventò caldo e umido. “Alla ferrovia. Mi fucileranno. Naturale, che altro possono fare di me? Qualcuno prenderà la mira. E io non vedrò chi prenderà la mira su di me”.
Proska saltò in piedi, il gigante si riscosse dalle sue ruminazioni ed esclamò: «Tu! Sedia!».
Proska non badò alle sue parole. Andò alla finestra e guardò i binari. Due pugni robusti lo trascinarono indietro. Inciampò e cadde a terra. “Lasciami in pace. Se tu lasci in pace me, io lascio in pace te. Che male ti ho fatto, io?”.
E gridò: «Che vuoi da me? Che ti ho fatto di male, cane! Te la faccio vedere io».
Si alzò, diede qualche pacca ai calzoni e tornò a rivolgersi al gigante. «Non metterti strane idee in testa. Non credere di essere il piú forte. Ce ne sono anche di piú forti di te».
«Sedia, fare!» ordinò il gigante.
L’assistente ubbidí. Ubbidí perché quella era la sua unica, la sua ultima possibilità. Se non avesse ubbidito non gli sarebbe rimasta neanche quella; il gigante gliela avrebbe soffiata.
Nel tardo pomeriggio Proska fu svegliato da un canto. Girò la testa verso la finestra e ascoltò. Si era addormentato seduto sulla sedia, poi il canto gli era giunto all’orecchio strappandolo da una breve, salutare perdita dei sensi per riportarlo alla realtà. Aveva il collo irrigidito. Se lo massaggiò piano, sempre con lo sguardo rivolto alla finestra, in attesa di scorgere gli uomini che cantavano là fuori. Cantavano una canzone infinita, apparentemente allegra, una canzone che sembrava fatta da un solo ritornello, poiché Proska sentiva sempre e solo le stesse parole; sebbene il canto si allontanasse sempre piú, facendosi via via piú tenue fino a diventare inudibile, Proska tenne lo sguardo fisso fuori dalla finestra sperando di riuscire a vedere in faccia i cantori. Non riuscí a vederli in faccia. Una donna con un secchio di zinco nuovo in mano attraversò la ferrovia. Portava in testa un fazzoletto azzurro. Stava cantando anche lei, ma la sua voce non arrivava fin lí.
Dalla finestra si riversò nello spoglio locale di servizio il crepuscolo. Iniziò a fare fresco. Proska si rigirò e il gigante gli fece un cenno paterno con la testa. “Lo vedi?” voleva dire quel cenno, oppure “Finalmente l’hai capito che il mondo là fuori non è per te”.
E poi il gigante si alzò, stiracchiò il corpo imponente e sbadigliò. Starsene seduto in silenzio l’aveva stancato. Picchiò i piedi, l’assito cigolò. Afferrò il mitra per la corta canna bluastra e lo fece roteare, creando uno spostamento d’aria. All’improvviso si fermò davanti a Proska. Gli sorrise dall’alto e si infilò una mano in tasca.
«Sedia» disse con la gioia di un bambino, e poi tirò fuori di colpo dalla tasca una bottiglia da birra, l’aprí e la posò per terra. Dalla bottiglia si diffuse nella stanza un odore secco di acquavite. Proska non sapeva che fare.
Il gigante indicò la bottiglia e disse: «Fare, fare».
Proska scosse la testa. Non poteva bere, in quel momento il solo odore dell’alcol lo nauseava. Allontanò da sé la bottiglia con la punta del piede, piano piano per non rovesciarla. Quando il vetro passò sopra qualche granello di sabbia sul pavimento, un brivido gli corse lungo la schiena.
Il gigante si chinò, afferrò la bottiglia e la rimise dove stava prima. Proska gli guardò dentro la scollatura della camicia, il torace pelosissimo lavorava intensamente. Gli vide anche i tanti puntini neri delle radici dei capelli sulla nuca, e quando il viso del gigante gli fu molto vicino agli stivali considerò che cosa sarebbe successo se avesse dato un calcio sotto il mento al suo guardiano. Si sarebbe pur sempre impossessato del mitra, e con un mitra e due caricatori avrebbe fatto un bel pezzo di strada.
Bogumil dovette intuire i pensieri di Proska, perché fece di colpo un energico balzo indietro e lo osservò con sospetto e diffidenza. Senza abbandonare la posizione china, indicò di nuovo la bottiglia e disse categorico: «Fare!».
E quando Proska rifiutò scuotendo la testa il gigante tolse la sicura al mitra. Proska attese un momento, ma non accadde nulla. Girò la testa verso la finestra e vide il sole che calava sull’orizzonte. Ancora, non accadde nulla. Poi Bogumil posò il mitra sulla sedia, si avvicinò al prigioniero e gli mise in mano la bottiglia. E Proska bevve. Buttò giú quella robaccia caustica, staccò la bottiglia dalle labbra, ebbe un rigurgito, schioccò la lingua, sospirò e inghiottí ancora. Fece una smorfia. Piegò indietro la testa e giú. Strabuzzò gli occhi e giú. Aveva l’impressione che in gola gli scorresse piombo fuso, e fece «bah» e «ah» e «pfff». D’altro canto bere sembrò offrirgli un piacere mai provato prima, si mise in testa che bevendo stava riparando a un guaio provocato da lui, e dopo ogni sorsata lanciava un’occhiata al suo guardiano per controllarne l’espressione. Bogumil era contentissimo, ogni diffidenza o rabbia erano fugate. Aveva gli occhi radiosi di pura gioia. Se ne stava lí con la bocca semiaperta, il mento molle e pronto a serrarsi, un pupazzo-schiaccianoci pronto all’opera.
Aveva vinto lui.
Diede a Proska una pacca sulle spalle, lo tirò a sé e poi lo ributtò a sedere facendo gemere pericolosamente le gambe della sedia. Proska rise stravolto, quella robaccia fortissima l’aveva reso insensibile al dolore.
«Ti» gridò il gigante, «ti, jidschis, zo ia mam. Cosa io ho qui. Guarda cosa posso. Cosa ho io qui. Coltello, piccolo coltello nudo. Coltello piccolo può ammazzare uomo grande. Non è bello. E guarda, cosa ho qui? Muscolo! E cosa fare io adesso con coltello e muscolo? Attenzione cosa posso fare. Ti paetsch lo, guarda qua, tu piuma di anatra, guarda».
Bogumil scoprí il braccio, un braccio largo come il tubo di una stufa e indurí il bicipite. Inarcò le sopracciglia, si assicurò che Proska lo guardasse e sollevò in alto la lama. Il coltellino fluttuò sopra la collina del bicipite, quasi un metro piú su.
Il gigante controllò un’ultima volta la direzione che il coltello doveva prendere quando l’avesse mollato – passò lo sguardo ripetutamente dalla punta affilata al muscolo – e poi fece un sorriso inutile, teatrale, e aprí la presa delle dita che trattenevano il coltello. La lama calò fulminea, punto esclamativo di trionfo, rimbalzò sul bicipite, schizzò via e cadde a terra. Il gigante si tirò su sogghignante e Proska biascicò: «Favoloso, accidenti! Bogumil, sei un artista. Bravo! Ti faccio un grande applauso. Mi hai sentito? Sai anche mangiare il fuoco? Conoscevo uno che mangiava il fuoco. Certo che ci sono un mucchio di artisti al mondo, eh? Ce ne sono dappertutto, da noi come da voi. Non è che hai una sigaretta? Tiratene una fuori dal naso, dai! Fa’ vedere che altro sai fare. Se non trovo qualcosa da fumare entro un’ora muoio di astinenza. Bah! Tu mica mi capisci, eh? Di’ un po’, Bogumil, sei davvero mezzo scemo o fai solo finta? Domattina verranno a prendermi. Avresti dovuto conoscere il Tonto, lui se ne intendeva di mangiare fuochi. Ma che parlo a fare. Vieni qua, fratellino, voglio abbracciarti».
Proska si alzò barcollando leggermente, tese le mani in alto nel tentativo disperato di afferrare qualcosa, come volesse tirare giú il cielo dentro il locale di servizio e prenderlo a testimone di quel che aveva in mente. Partí barcollando a braccia aperte verso il gigante e cercò di aggrapparsi a lui. Ma non riuscí a raggiungere la sua meta, l’uomo grande e grosso si ritrasse, e ogni volta che Proska gli riandava vicino riceveva un colpo nel petto che lo sbalzava indietro.
«Bogumil» biascicò Proska, «vieni qua, santo cielo, fatti abbracciare, una volta sola. Siamo fratelli, io e te. Siamo legati uno all’altro. Tu sei qui perché sono qui io, e io sono qui perché sei qui tu. Mi hai regalato il torcibudella, non possiamo piú farci del male a vicenda, noi! Io non sparo a te e tu non spari a me. La commedia è finita, perché mi spingi indietro cosí, ehi! Che modi sono! Se ti ho detto che siamo fratelli. Fratelli, Bogumil. Io mi chiamo Walter, fratello mio. Ti regalo le mie pezze per il sudore. È stato tutto per niente: Stani e Zacharias e il capitano Kilian. Vieni qua! Ahia! Cane rabbioso, non te ne importa niente, eh? Non vuoi essere mio fratello?».
Il gigante gli diede un violento spintone indietro. Proska andò a sbattere contro il muro, cadde in ginocchio e guardò afflitto in alto. E Bogumil disse lentamente, serio e freddo: «Appena perdete volete essere fratelli. Lo conosciamo. Solo quando vi serve clemenza, quando la maledetta vita chiede il conto, quando vi viene paura, allora parlate di fratellanza. Fintanto che siete i padroni ci cagate sopra, all’umiltà e alla misericordia. Ah, lo conosciamo. Credevi che fossi scemo. Credevi che non capissi quel che dici. Io capisco tutto benissimo, ogni parola e ogni pensiero. Ma i tuoi pensieri sono cosí miserevoli, cosí viscidi. Dovrei spezzarti il collo. Fratello: lo dice sempre chi ha perso. Al mondo non c’è ammenda piú ignobile e piú meschina di questa. Uno dice fratello e tutto è scordato, vero? Mi avresti chiamato fratello anche se avessi avuto tu il mitra? E se mi avessi dovuto fare tu la guardia? Certo che non lo avresti detto. Non ti sarebbe nemmeno passato per la testa. Se mi avessi chiamato fratello ieri, e avessi cercato di abbracciarmi, ti sarei venuto incontro felice, ma oggi non posso. Sicuro, io sono qui perché sei qui tu e tu sei qui perché sono qui io, ma se io volessi potrei portarti alla ferrovia e fucilarti. Tu sei vincolato a me, questo è vero, ma io non sono affatto vincolato a te. Resta là seduto nel tuo angolo e non ti muovere, perché se ti muovi potrebbe scapparmi la pazienza e per te è finita. Comportati come se non tu non ci fossi, per te in questo momento è la cosa piú saggia».
Il gigante sputò a terra e andò alla finestra. Proska fu di colpo sobrio. Quel che aveva sentito non l’aveva sentito in sogno. Il torcibudella voleva convincerlo a non prendere sul serio Bogumil, a non dargli retta, affinché le sue parole perdessero la loro efficacia penetrante. Ma i fiotti di imperturbabilità prodotti dall’alcol erano troppo deboli. Proska restò disteso contro il muro, con il capogiro per la vergogna, le mani davanti alla faccia a proteggersi, come se a quel modo potesse annullare la presenza dell’altro. Era profondamente spaventato dalla trasformazione del gigante, da come gli aveva parlato. Aveva preso un tale abbaglio.
Nel locale di servizio si sentiva soltanto il respiro dei due uomini. Diventò buio. L’oscurità si insinuò fra loro impedendogli di vedersi negli occhi. Era un bene. L’oscurità gli avvolgeva le fronti, carezzevole. L’oscurità si metteva fra i piedi delle ultime nubi del giorno. Fuori il paesaggio crollò stremato, crollò all’indietro nel silenzio. Gli alberi raggelarono nel nero e il cielo cancellò le proprie tracce. Non c’era piú occhio con dentro il crepuscolo. E la lontananza fu vicina, la lontananza venne da ciascuno. Come sempre la luna stava alla catena, giallo cane da guardia.
Sul pietrisco fra i binari risuonarono dei passi. Poco dopo i passi giunsero dietro la parete di sinistra e poi all’ingresso, qualcuno aprí la porta e un uomo scrutò all’interno.
«Dobrä noz» sussurrò, «Bogu, zo ti tem petschis? Bogu, hei».
Bogumil si girò piano verso la porta. Uscí.
Proska sollevò la testa e constatò che era buio.
Dalla porta trapelavano le voci di gente che parlava in corridoio. Proska non riusciva a distinguere le parole, ma ebbe l’impressione che parlassero di lui. Non aveva voglia di lasciare l’angolo in cui era riverso a terra. Lí, pensò, era in qualche modo al sicuro dagli sguardi di Bogumil.
All’improvviso qualcuno lo urtò, un ginocchio gli strusciò contro l’orecchio e la punta di uno stivale gli diede un calcio nella coscia; Proska si raccolse come un bruco. L’uomo che era quasi inciampato su di lui si fermò e tese l’orecchio, Proska non si mosse.
«C’è qualcuno?» chiese lo sconosciuto. Proska trasalí, conosceva quella voce. Si alzò piano e disse: «Sí, c’è qualcuno».
«Walter, sei tu?».
«Sí, Wolfgang».
«Mio Dio, che ci fai...».
«Piano, abbassa la voce. Pandilatte, amico mio, vieni qua, siedi. Sono qui contro il muro, dammi la mano, attento! Lí c’è una sedia. Fai piano, altrimenti arriva subito quel...».
«Non tornerà piú».
«Come fai a dirlo?».
«È andato via».
«L’hai visto con i tuoi occhi?».
«Sí. È andato, adesso davanti alla porta siede quello che ha portato qui me. E l’ha chiusa a chiave».
«Dove ti eri cacciato, Wolfgang? Ti ho cercato dappertutto. Me la sono presa, perché pensavo che te ne fossi scappato per conto tuo. A un certo punto mi sono perfino convinto che ti avessero accoppato».
«Sei ubriaco, Walter?».
«Lo ero. C’è ancora odore di acquavite? Immagino di sí. Quel Bogumil mi ha offerto da bere e io... ho dovuto».
«Hai idea di dove siamo?».
«Certo» disse Proska, «naturale che lo so».
«E sai anche» chiese Wolfgang serio, «che hanno intenzione di farci?».
«Come faccio a saperlo?» disse Proska. «Mica mi hanno detto niente. Tu lo sai?».
«No, ma posso immaginarlo».
«E che cosa immagini? Alla ferrovia? Con la faccia verso le rotaie?».
«Forse».
«Hai una sigaretta? Basta anche un mozzicone, Wolfgang. Ne ho una tale voglia che non resisto piú. Farei qualunque cosa per una sigaretta. Mi sento il sangue denso, bloccato dappertutto. Non hai niente? Basterebbe solo qualche briciola di tabacco».
«Non ho sigarette» disse Wolfgang, «e anche se ne avessi non te ne darei. Devi iniziare ad abituarti a smettere. Qui hai l’occasione migliore: nessuno pretende nulla da te e...».
«Fammi il favore, sta’ un po’ zitto, risposte del genere me le posso dare anche da solo».
Wolfgang scese a terra accanto a Proska e appoggiò il mento su un ginocchio.
«Ehi» disse Proska dopo un po’.
Pandilatte tacque.
«È tutto finito, Wolfgang, chiuso. Quando siamo rientrati al forte erano già lí che ci aspettavano. Alma è morta, e quel che ne è stato degli altri – del Tonto, di Zwiczos, Stehauf e Poppek – non lo so. Può darsi che non siano piú vivi. Noi due siamo ancora vivi, anche se non capisco perché. È un caso? È fortuna? Perché non mi rispondi? Di’ un po’, sei sordo? Sto parlando con te».
«Ti ho sentito benissimo» disse Wolfgang.
«Come ascolti tu, solo gli alberi».
«Non ti basta?».
«Non fare cosí. Dimmi piuttosto come sei arrivato qua».
«Va bene» disse Wolfgang, «te lo racconto. Voglio che tu sappia tutto, non lascerò fuori nulla. E se dopo ritieni di dovermi ammazzare di botte, fa’ pure. Può darsi che nemmeno cercherò di difendermi».
Proska rise. Diede una gomitata a Wolfgang e rise. Ma non era troppo convinto.
Wolfgang disse: «Sono scappato, a stare con voi non ce la facevo piú. Presi uno per uno vi avrei ancora sopportato, ma cosí tutti insieme, tedeschi organizzati e pervasi di senso del dovere, non vi reggevo piú. Lo so che nel forte ci stavate quasi tutti malvolentieri, e so che avevate nostalgia di casa e odiavate quelli che vi avevano spedito qui e anche quelli che erano già qui prima di voi. Odiare una parte sola è accettabile, ma se uno si ritrova a odiarne due, deve ammettere di trovarsi in un dilemma in cui si è cacciato da solo. I tedeschi spingono la propria abnegazione al punto da vedere un precipizio come un pericolo solo per gli altri».
«Dai, racconta com’è andata» lo interruppe Proska con impazienza.
«Com’è andata? Sono scappato, veloce, perché tu non potessi piú trovarmi, perché nessuno di voi potesse fermarmi. Gli sono corso dritto fra le braccia».
«A chi?».
«Lo sai benissimo di chi parlo, e allora perché lo chiedi?».
«Sei corso dai civili, dai partigiani».
«Sí. E i partigiani mi hanno portato da un ufficiale. Si capiva che comandava le loro operazioni da un pezzo. Indossava un’uniforme e parlava tedesco. Conosceva i nomi di tutti noi, e mi è sembrato che provasse per me un po’ di commiserazione. Ma non ci giurerei. Gli ho chiesto subito se sapeva qualcosa di te, e lui ha detto che eri l’unico che gli risultava sconosciuto. E poi non me l’aspettavo, ma è stato gentilissimo».
«Tanto che ti ha fatto rinchiudere qua dentro».
«Forse domattina presto mi manderà a prendere. Ne ha accennato... Sono persone come noi, sai? Calzolai, contadini, falegnami. Tra loro ci sono poveri cristi proprio come tra noi. Li ho visti, a volte tremano come noi, e si portano dietro la stessa quantità di desideri. Perché non dici piú niente, Proska? Adesso ci godi a stare zitto, eh? Speri di ricattarmi con il tuo silenzio, vero? Io sono un disertore, un bastardo, un traditore, è questo che pensi? Il sadismo piú crudele è il sadismo del silenzio».
«Va’ avanti a raccontare» disse Proska.
«Non c’è piú molto da dire. È probabile che mi...» Wolfgang si interruppe. Davanti alla finestra era spuntata la sagoma di una testa. La testa si mosse con una strana flemma, da sinistra a destra, come se qualcuno la stesse facendo avanzare con solennità in cima a un’asta.
«Il secondo guardiano» sussurrò Proska. «Ho il sospetto che ai partigiani di noi gli importi qualcosa. L’altro se ne sta davanti alla porta».
La testa comparve di nuovo, seguendo silenziosa e regolare il suo percorso.
«Faremo meglio ad abituarci a lui. Che cosa stavi dicendo, Wolfgang?».
«Ma lui mi può sentire».
«Hai paura di un cranio?».
«No».
«E allora va’ avanti».
«Mi sono messo a disposizione. Magari mi prendono con loro». Wolfgang deglutí. «Il pacifismo passivo, inerte, è uno spettro impotente. Chi si limita a dire: sono contro la guerra e si contenta di quello e non fa niente per estirparla è solo una bella statuina nel museo pacifista. Dobbiamo trovare una forma di pacifismo attivo, a maggior ragione in questo caso, una disponibilità all’azione seria e brutale. Con i soli sforzi del pensiero non si va da nessuna parte. Per ottenere una vita lieta bisogna mettere in conto di darsi da fare attivamente. Dopotutto, chi controlla i valori del mondo? Tu e tu soltanto. Le cose ottengono e mantengono il loro valore solo sotto il riflettore della coscienza di ciascuno. Le motivazioni morali sono sempre pertinenza del singolo. Dovremmo finalmente impiegare le nostre forze per preparare un futuro in cui poter trovare un giorno rifugio».
Proska disse: «E cosí hai voltato gabbana. Hai cambiato fronte. Lo sai che significa?».
«Ho sempre seguito la strada piú tormentosa, io».
«E ti senti ancora tormentato?».
Wolfgang guardò verso la testa che continuava a scorrere davanti alla finestra come fosse su una rotaia, e rispose: «Il tormento non smetterà mai, rimarrà sempre con me. Ma non sarò costretto a restare in un angolo il giorno che ci chiederanno che cosa abbiamo fatto noi, io e te e tutti quanti, per la grande meta agognata».
«Che intendi con meta agognata? Una vita senza disturbi di stomaco?».
«Il tuo è un sarcasmo da quattro soldi, Walter, ma non è infettivo. Contagioso invece è il risentimento nazionalista. Un risentimento che è la radice della presunta superiorità tedesca e la fonte di questo stramaledetto senso di predestinazione».
«Mah, mah».
«Ne dubiti, forse?».
«E cosí hai cambiato fronte. Come niente fosse, hai voltato le spalle ai tuoi camerati».
«Camerati? Senza commiserazione non c’è cameratismo, lasciatelo dire. Su questo non serve sprecare altre parole».
«Stammi a sentire, Pandilatte. Lo so che tu in testa hai pidocchi eruditi, ma lascia che ti dica io una cosa: quando uno fa un patto con un camerata, poi lo deve rispettare. Tu mi hai mollato da solo al ponte e te la sei data a gambe. Non hai pensato al patto che avevamo stretto? Sei un giuda».
«Sí» disse Wolfgang, «sono un giuda. E lo sono diventato per te. Me la sono data a gambe perché non volevo trascinarti. Anche se può sembrare che con il mio tradimento io arrechi danno agli altri, un giorno si dimostrerà che alla fine l’ho fatto per il loro bene. Tu mi conosci, Walter, e puoi stare certo che il mio passo porterà piú vantaggi che danni. È perché ho commiserazione per loro che li ho traditi. E tu... tu hai il diritto di sputarmi in faccia».
«E se ti sputassi in faccia sfrigoleresti come una pietra rovente, vero?, da tanto bruci di tormento. Sulle tue guance si potrebbero scaldare le scatolette di conserva».
«Fallo pure, se ne hai con te». Nella risposta di Wolfgang c’erano malinconia e amarezza. Avrebbe voluto che quella notte non finisse piú, che restasse buio per sempre.
Il loro silenzio si intersecò nella stanza, il loro silenzio li ricongiunse in un invisibile punto d’incontro.
«Walter, sii sincero» disse Wolfgang a un certo punto, «se fossimo nati qui nella palude, oggi saremmo partigiani anche noi. Ma in realtà, non siamo sempre stati partigiani? Non abbiamo tutti un’inclinazione a vedere il lecito nell’illecito? Non abbiamo sempre creduto che in certe situazioni c’è legge e legge? E che l’assoluzione puoi ottenerla per una doppia via?».
«Domattina presto ci porteranno alla ferrovia» disse Proska.
«Non ci fucileranno».
A un tratto provarono un’angoscia ritmica, crepitante. Restarono seduti e aspettarono. Non si vedevano ma sapevano di essere vicini, vicini sotto l’immenso cielo notturno, e provavano entrambi un senso di protezione. Nessuno fece il tentativo di dormire. Erano stanchi morti, tutti e due, ma l’idea di dormire, di distendere il corpo, le braccia e i pensieri tomentosi, quest’idea non gli passò nemmeno per la testa, perché sarebbe stato un tentativo vano. Due soldati, due grumi di vita se ne stavano accovacciati uno accanto all’altro come piccioni sulla lancetta dell’orologio del campanile. La lancetta si muoveva lentamente, impercettibilmente, ma si muoveva, e i due uomini valenti si preparavano a precipitare, a piombare nell’abisso delle scelte. Si preparavano a scegliere, il principio di ogni attività. Erano vicini. Un tempo sarebbero stati l’un l’altro indifferenti, un tempo non avrebbero mai avuto lo stesso sentire, ma ora non li separava piú nemmeno la camicia grigia e lorda. Erano tanto vicini da scambiare quasi l’altro per sé. Buoni camerati.
A notte tarda, Proska attaccò a parlare. Non disse molto. Si avvicinò a tastoni a Wolfgang e gli carezzò delicatamente la spalla smilza e cadente; la delicatezza con cui lo fece fu indicibile. Poi disse: «Wolfgang, restiamo uniti. Conta pure su di me. Io terrò duro. Se domattina parli con l’ufficiale – può anche darsi che succeda, non è vero? – digli che li aiuterò a spazzare via dal mondo la cricca. Che mi dia pure degli incarichi, Wolfgang. Diglielo all’ufficiale, eh?».