10.
Nel pomeriggio si mise a piovere. L’acqua tambureggiava sui loro teli impermeabili, a ogni passo scagliavano il piede avanti con forza per far cadere dai bordi delle suole i grumi di terra. Avanzavano lentamente. Camminavano curvi e respiravano a fatica. Incespicarono muti sopra un campo, passando accanto a un vecchio cratere in cui ristagnava un velo d’acqua fangosa. Proska dietro, l’ufficiale davanti. L’ufficiale era giovane, ben rasato. La guerra non aveva ancora soddisfatto tutte le sue aspettative, glielo si leggeva in faccia. Proska stava partecipando alla sua prima missione. Aveva cambiato fronte.
Erano tormentati dalla fame e sostarono sul margine di una conca. Si guardarono mentre alle loro spalle tuonava la voce sorda e plumbea del temporale. La pioggia li sferzò in faccia, costringendoli a chiudere gli occhi. L’orizzonte si avvicinò fin quasi a toccarli. Nella conca crescevano fitti arbusti di betulla, i tronchi rilucevano opachi nell’aria umida.
«Avanti» disse l’ufficiale.
Si avvicinarono circospetti a una costruzione con il tetto di paglia – una costruzione che si era calata sugli occhi il berretto, come per dire al mondo di farsi gli affari suoi – e l’ufficiale tirò fuori una pistola minuscola dal borsino che portava al cinturone.
Nell’aia, delimitata su un lato dall’edificio principale e sull’altro da una stalla pericolante, c’erano due carriole una contro l’altra, un aratro, un erpice rugginoso e un basso ceppo in cui era conficcata un’ascia. Il tetto della stalla era danneggiato, la pioggia aveva facile accesso all’interno. Le finestre dell’edificio principale che si aprivano sbilenche nella parete erano imbiancate di gesso da dentro. L’ufficiale indicò l’ascia e disse: «Prendi quell’affare».
Proska cercò di staccare l’ascia dal legno, ma non ci riuscí. L’ufficiale, che era rimasto a guardare, ci andò di persona, diede un gran calcio dall’alto sul manico con lo stivale e balzò indietro per non farsi colpire dall’ascia che cadeva a terra.
«Prendila e vieni. Credo che qui troveremo del prosciutto. I vecchi camini non sono mai vuoti».
L’ufficiale aprí con uno spintone la porta; era solo accostata, cigolò sui cardini e sbatté contro il muro. Si strapparono delle ragnatele, e davanti al corridoio largo appena due volte il fondo di una cassa da morto si sollevarono mulinelli di polvere. Da un chiodo pendeva una lacera giacca blu; le tasche erano rovesciate all’esterno. Sotto la giacca, sull’argilla battuta del corridoio, c’erano foglie, briciole di pane e fili di tabacco che dovevano essere caduti dalle tasche. Una barella sbrindellata era appoggiata in piedi contro il muro.
«Fiuto qualcosa» disse l’ufficiale.
Aprí una delle due porte che davano sul corridoio. Li investí un puzzo concentrato. Proska, che sbirciava da dietro le spalle dell’ufficiale, per un attimo non riuscí a vedere altro che i vetri delle finestre imbiancati.
«Avanti» disse l’ufficiale con la voce priva di espressione.
Proska ispezionò la stanza e all’improvviso gli sfuggí un sommesso grido di orrore. Gli cadde l’ascia e sollevò le mani davanti alla faccia come per difendersi. L’ufficiale si tappò il naso, tirò fuori di tasca un fazzoletto e dopo aver spostato il berretto sulla nuca si tamponò la fronte bagnata.
La stanza in cui si trovavano doveva essere servita fino a poco prima da sala operatoria temporanea.
Contro il muro c’erano due tavoli con delle cinghie che penzolavano dai bordi. Servivano per allacciare i feriti che andavano operati alla svelta. Le urla di dolore e i gemiti sembravano aleggiare ancora sotto le travi del soffitto.
Proska esclamò: «Là nell’angolo! Quello è un piede amputato, e due mani, e là ci sono altri piedi, uno ha ancora...».
«...lo stivale indosso» completò l’ufficiale, che a un tratto sembrava molto vecchio.
La pioggia tamburellava contro i vetri delle finestre come un mitragliatore stanco.
La sera avevano lo stomaco pieno di carne. Aveva smesso di piovere. La nebbia, la tremenda nebbia della sera strisciava sui prati e i campi, dentro i crateri e le trincee abbandonate. Se ne stavano seduti dentro un fosso lungo la strada, infreddoliti. Ma erano sazi. L’ufficiale aveva scovato lattine di conserva e gallette in un panzer squarciato. Avevano mangiato in silenzio e poi avevano fumato. E dopo aver fumato avevano ripreso il cammino, in muto accordo si erano alzati insieme dal tronco di un albero divelto su cui si erano seduti a riprendere le forze.
Il temporale non voleva tacere, accendeva di rosso l’orizzonte verso ovest. Ogni tanto i due soldati giravano la testa da quella parte e ascoltavano.
I secondi, i minuti gli sgocciolavano di dosso. Là in fondo dove si scaricava il temporale le granate percuotevano la terra, gli alberi andavano in frantumi, l’acciaio radeva la vita dal suolo. Laggiú le schegge fischiavano nell’aria, le zolle schizzate in alto si schiantavano nelle pozzanghere, i corpi ricadevano nel nulla, la morte era al lavoro alla catena di montaggio. Là in fondo, sotto il temporale.
Proska pensò: “Forse adesso Wolfgang starà dormendo; lo vedrò domani a mezzogiorno, alla distribuzione del rancio. È ancora piú giovane di questo ufficiale, lui, ancora piú giovane, tanto giovane. Giovane? Qui non ci sono piú giovani. Hanno già tutti un mestiere, sí, ormai hanno tutti un mestiere: uccidere e morire. Non mi ha ancora detto cosa abbiamo in programma per stasera. Ma c’è ancora tempo. Le pezze da piedi sono fradicie. Chissà che fine ha fatto Zwiczos. Per ora non devo ancora sparare, per ora. Ma se dovrò opporre resistenza, opporrò resistenza. Chi fa trenta deve fare trentuno. Io ho fatto trenta e...”
L’ufficiale saltò in piedi. Due fanali illuminarono l’incrocio. I raggi di luce salivano e scendevano, passando fra gli alberi che fiancheggiavano la strada a intervalli irregolari.
L’ufficiale si arrampicò fuori dal fosso. Si piazzò a gambe larghe sulla strada, con lo sguardo rivolto verso l’automobile che si avvicinava veloce.
Sollevò lento la mano. I fanali si abbassarono, si spensero del tutto. Le ganasce dei freni si strinsero, l’auto si fermò. A Proska parve di sentire aprirsi piano una portiera e l’ufficiale che parlava con il guidatore.
«Avanti» gli gridò l’ufficiale.
L’assistente si alzò, prese il fucile, si infilò nel vano posteriore dell’automobile e posò l’arma sulle ginocchia. Il motore rombò e il viaggio riprese a fari abbassati.
Proska si ritrovò davanti al petto una scatola di acciaio. La prese per una ricetrasmittente. Se guardava avanti vedeva i contorni di due teste; l’ufficiale e il conducente non facevano conversazione. L’automobile correva, il temporale si fece sempre piú violento. I vetri traballanti della vettura vibravano per la pressione dell’aria. Il guidatore spense i fari e diminuí la velocità. La luna appena uscita scrutava di lato dentro la macchina, rivestendo la metà destra del volto di Proska di un pallido lustro.
All’improvviso l’automobile si fermò. Da fuori aprirono una delle portiere anteriori e all’interno si infilò una testa con due larghe spalle.
«Oi» disse lo sconosciuto quando l’ufficiale gli bisbigliò qualcosa. I due si scambiarono ancora qualche parola sottovoce, poi l’ufficiale ordinò: «Parti».
Sopra la strada sgusciavano figure che tornavano subito a scomparire. Sbucavano da un fossato sul ciglio della carreggiata o si staccavano dal tronco di un albero. Un viavai turbinoso di ombre, spettrale, come di un altro mondo.
«Piú piano» ordinò l’ufficiale.
Proska sentí l’autista scalare di marcia; il motore rombò forte e poi girò a velocità piú moderata.
Accanto a Proska c’era una valigia pressoché quadrata sopra il sedile, un portadischi.
A un tratto nelle vicinanze si verificò un’esplosione che fece sbandare l’auto. Si spalancò una portiera; l’ufficiale, che era quasi caduto fuori, la richiuse. Proska tremava. Si avvinghiò al fucile sebbene sapesse che non gli serviva, non poteva utilizzarlo. Sopra i campi, su entrambi i lati della strada, si alzavano fiammate sempre piú frequenti. L’acciaio liberato cercava vita, cercava ultimi respiri. Soldati restituivano all’acciaio la sua libertà. Ansavano e urlavano, trascinavano e cacciavano nuovo acciaio nelle gole dei cannoni. Soldati si piantavano nella terra: timore d’acciaio, speranza d’acciaio.
Davanti a una fattoria l’ufficiale ordinò di fermare. A ogni esplosione diventava cosí chiaro dentro la macchina che Proska poteva leggere i numeri sul mirino del fucile. Teneva lo sguardo fisso sul mirino, non guardava fuori. Sopra di loro mugghiavano i saluti della morte, saluti grevi, che non si potevano ricevere con leggerezza o indifferenza.
Le bordate dell’acciaio facevano dell’orizzonte un carosello.
«Le undici» disse l’ufficiale dopo aver guardato l’orologio. I colpi si erano fatti piú radi, qui e là si levava un tracciante. Sull’inferno calò un silenzio innaturale. Il ronzio che ancora restava nell’aria dopo che le canne d’acciaio già erano zittite andò pian piano scemando. Piú lontano dietro alla fattoria, a tratti sputacchiava una mitragliatrice, ma solo a lunghi intervalli, e suonava innocua come il frinire di una cicala.
«Alla fattoria» disse l’ufficiale.
L’autista diresse la vettura verso il casolare, evitò all’ultimo momento una pompa che non aveva visto, passò a fianco di un lungo fienile vuoto e arrestò davanti a uno steccato.
«Pronti» disse l’ufficiale.
Si voltò e aprí la scatola di acciaio che Proska aveva preso per una ricetrasmittente. Una leva che tratteneva il coperchio scattò in posizione. L’ufficiale manovrò bottoni e tasti elettrici, si sentí gracchiare e stridere e poi sopra le teste dei tre uomini, sul tetto dell’auto, risuonò un forte ronzio regolare.
«Apri la valigia» disse a bassa voce l’ufficiale, «e dammi un disco, il primo che capita. Sotto al sedile c’è una piccola lampadina. L’hai trovata?».
«Sí».
«Allora girala verso destra e controlla il titolo del disco».
«Komm – in – meine – Lie-bes-laube» sillabò Proska tenendo il disco sotto la lampadina elettrica.
«Da’ qua».
L’ufficiale mise il disco nella scatola di metallo e ci tenne sospesa sopra la puntina. Staccò un microfono da un supporto, ci picchiò sopra un po’ di volte con la mano, ci soffiò dentro, e quando quei rumori giunsero a loro molto amplificati avvicinò il microfono alle labbra e disse: «Buonasera!».
Proska trasalí per la potenza della voce decuplicata elettricamente.
L’ufficiale proseguí: «Ora che tutto tace posso salutarvi. Soldati del Sesto Reggimento, qui vi sta parlando un fratello! Fatela finita con la guerra, venite da noi... oppure tornate a casa! Che lavoro fate da civili? Fabbro, sarto, falegname, impiegato! Lo sapete su chi sparate? Su fabbri, sarti, impiegati. L’uniforme non cambia il cuore. Venite fuori dai vostri buchi e gettate i fucili. Guardate il cielo, la pace di questo cielo notturno. Non vi viene nessun pensiero? Gelate dal freddo, non avete da fumare né da mangiare. Ma chi comanda il vostro reggimento, il tenente colonnello Strunztrippen, lui da mangiare e da bere ne ha quanto ne vuole. Sua moglie a Monaco nelle ultime settimane ha ricevuto nove pacchi... con dentro le vostre sigarette. Ma basta parlare. Vogliamo regalarvi un piccolo concerto notturno. Di certo un po’ di musica vi farà ricordare meglio casa. Il piombo rammollisce le ossa e la musica lo spirito. Ecco il primo disco: Komm in meine Liebeslaube. Buona serata e buon ascolto!».
L’ufficiale ripose il microfono nel supporto e appoggiò la puntina sul bordo del disco. Il disco girò e nel silenzio quatto e teso, nella quiete matura, colma da scoppiare della notte autunnale un grammofono strimpellò una canzone. I soldati del Sesto Reggimento allungarono la testa fuori dal fango e ascoltarono. Si fregarono il dorso della mano a pulire la barba sozza, usarono la pausa per vuotare in pace la vescica o per aspirare avidi da un mozzicone di sigaretta sotto il cappotto pulcioso. I soldati dall’altra parte del fronte lo sapevano.
Quando l’ufficiale parlò di nuovo nel microfono, Proska si mise a tirare fuori un altro disco. Ma questa volta l’altro non la fece tanto lunga, disse soltanto: «Siccome dobbiamo tenerci allenati, fratelli, adesso devo consigliarvi di spegnere le sigarette. Il prossimo disco dura un po’ di piú. È un’incisione documentaristica proveniente dallo studio di registrazione personale di Dio: quindici minuti di intenso fuoco di mortaio. Vi auguro buon ascolto».
L’autista sparò dal finestrino aperto un proiettile tracciante. Il colpo luminoso salí verdastro e tremulo verso l’alto, si fermò un momento, riversò un chiarore pallido sulla terra e ricadendo si estinse. Poco dopo, il silenzio teso esplose; un frastuono di colpi e di violente detonazioni sembrarono sortire l’effetto di un salasso. Le granate seguivano la loro traiettoria in rapida successione, colpivano il suolo, vi penetravano con violenza ed esplodendo gettavano in aria tutto quanto era nelle vicinanze: erba, terra, rami, paglia, pietre, radici, acqua e soldati. E se non erano soldati interi a schizzare in alto con lugubre slancio, allora erano pezzi di soldato, membra, parti del corpo staccate senza difficoltà dalle schegge di ferro. Dai campi devastati spruzzavano grevi zampilli. Schegge spazzavano rasoterra, insidiose e ratte. Qua e là qualcuno strillava o rantolava o gemeva. Uno aveva perso improvvisamente una mano e un altro si ritrovava la bocca invasa dal sangue, questo si comprimeva una vena e quell’altro non faceva nemmeno in tempo a capire che di colpo gli mancava la faccia.
«Ancora un disco» disse l’ufficiale. Proska glielo passò.
«Restate uniti, camerati, venite da noi! Adesso è il momento di decidere. Intanto per i sopravvissuti suoniamo l’ultimo disco, uno nuovo, e cioè: Alte Kameraden! A presto dunque, e buon ascolto».
La puntina percorse raspando il solco sottile e risvegliò la melodia incisa nella plastica. L’altoparlante gracchiò nel silenzio. Un vento freddo che si era levato di colpo la portò via con sé.
Proska era alle prese con un mal di testa partito dalla nuca e ormai avanzato fino alla metà sinistra della fronte. Si premette la mano sopra gli occhi, il dolore non voleva recedere. Seguí il martellare tormentoso propagarsi fino alla radice del naso e provocargli una leggera vertigine.
Proska pensò: “Dopo questo disco gli chiedo se posso scendere un momento dall’automobile... non resisto piú... anche Maria a volte si lamentava di un gran mal di testa... dev’essere una cosa di famiglia... perché lui si rivolge agli altri in maniera cosí beffarda?... In fin dei conti sono ancora i nostri camerati... con le beffe non si è mai convinto nessuno... e noi non vogliamo altro che convincere... Le pasticche non mi hanno mai fatto niente...”
Ecco cosa pensò Proska, poi staccò la mano dalla fronte e il mal di testa diventò all’istante un ricordo.
Raddrizzò il busto e ascoltò.
Un muro, un orizzonte di grida stava avanzando verso di loro, veloce e compatto. In mille punti luccicava il fuoco sulle bocche dei fucili. L’altoparlante era di gran lunga troppo debole per coprire il crepitio furioso delle armi.
«Via!» gridò l’ufficiale. «Presto, via di qua!».
Il motore partí. Nelle immediate vicinanze martellò un mitra. Le pallottole sventagliarono scricchiolando dentro la lamiera della macchina, due vetri andarono in frantumi. Presso lo steccato scoppiò una bomba a mano, lo spostamento d’aria dell’esplosione si sentí fin dentro l’auto. «Sono arrivati» gemette l’ufficiale. Proska infilò il fucile d’assalto nel finestrino e sparò finché ebbe vuotato il caricatore. La risposta arrivò immediata. Proska picchiò il pugno contro lo schienale del guidatore e gridò: «Andiamo, accidenti! Che le prende a questa maledetta automobile?» Teneva la testa bassa come se a quel modo potesse aumentare la velocità del veicolo. Nelle vicinanze gridavano. Proska sentí urlare con grande chiarezza: «Avanti!» e «Non fermatevi!» e «Qua» e «Quei porci saranno dentro la fattoria».
«E parti!» gridò Proska in preda alla disperazione.
L’automobile fece un balzo che fu compensato dagli ammortizzatori, l’autista la costrinse ad aggirare ansimante la pompa e discendere la stretta rampa d’accesso.
«Piú veloce» gridò Proska, «se ci tagliano la strada...».
«Tuiii, tuii, tuii» fu interrotto, e alcuni proiettili si conficcarono nella lamiera.
L’auto raggiunse la provinciale e prese velocità. Nei campi su entrambi i lati della strada si levavano le fiammate violente del fuoco di sbarramento.
Le urla e il crepitio nervoso delle carabine andavano scemando, e dopo che l’automobile ebbe viaggiato qualche altro minuto Proska tornò a udire solo un rombo continuo e indistinto. L’autista sedeva al volante come un automa, non parlava, non si voltava. Proska si appoggiò esausto indietro. Il mal di testa riprese a trapanargli il cranio dietro la fronte. L’aria fredda della notte che entrava dal finestrino rotto non gli dava alcun sollievo. L’ufficiale era sprofondato nel sedile. Non gli importava che il disco girasse ancora traballante a vuoto.
L’autista fermò la macchina davanti a una casa di contadini. Lui e Proska scesero. L’ufficiale restò seduto nella stessa posizione. Proska si allontanò qualche passo dall’auto e osservò il guidatore che cercava di aprire a forza la portiera dietro cui sedeva l’ufficiale. La serratura doveva essere stata danneggiata dalle sparatorie.
Proska si stupí che l’ufficiale non scendesse dall’altra parte, come avrebbe fatto lui.
A quel punto l’autista riuscí di forzare la serratura e ad aprire la portiera. L’ufficiale si rovesciò all’istante fuori dalla macchina, batté la testa a terra e rimase riverso in una posizione stranamente contorta.
«Ehi, tu!» gridò l’autista.
Proska lo raggiunse, si chinò sull’uomo riverso e vide che il collo e la testa erano stati colpiti da molte pallottole.
«Prendilo di là» ordinò l’autista.
Trasportarono insieme l’ufficiale dentro la casa e lo depositarono nel corridoio.
«Hai dei fiammiferi?».
«Sí» disse Proska.
Passò i fiammiferi nel buio e sentí la mano dell’altro sfilarglieli dalle dita. Si accese una fiammella. L’autista la lasciò andare. Ricadde sul petto dell’ufficiale morto.