8.

«Presto farà buio, Walter. Devo leggere piú svelto. Vuoi ascoltare ancora?».

«Sí» disse Proska. Si diede una pacca sulla fronte e schiacciò una zanzara.

Pandilatte leggeva monotono e sottovoce: «E puoi sempre consolarti con il fatto che la morte non è nient’altro che la forma estrema e forse anche piú misteriosa del sonno. Il sonno borghese – e in ciò per l’appunto si differenzia dalla Morte – è un periodo di ferie limitato, una funzione con uno scopo ben preciso. Ma ora non dire che per questo la Morte incede accanto a noi senza cagione. Lei saprà bene perché resta nostra compagna di strada. Naturalmente non lo sappiamo noi, né lo scopriremo mai. Con noi non si abbassa a conversare, la Morte, è giustamente presuntuosa. Piú d’uno che con lei s’accontò per scioglierne l’enigma, ha poi trovato che la cognizione acquisita conteneva un nuovo enigma. Non devi credere che io volga lo sguardo su di Lei soltanto con timore o che mi dolga quando Lei guarda me, suo prossimo, piú a lungo del consueto. Perché allora io mi dico sempre che il suo sguardo potrebbe benissimo essere rivolto a un altro che mi sta accanto; e accanto a me sono in tanti. Non avrebbe scopo alcuno e rasenterebbe la follia se uno volesse cercare di imbrogliarla, ovverosia di sottrarsi al suo sguardo. La Morte dev’essere un uomo, un uomo fiero e forte. Papà, che certo era resistente, ne fu abbattuto con uno sforzo non piú grande di quello che dovrei impiegare io per far cadere un bimbo di due anni. Per quanto strano possa sembrare, da un uomo qual è la Morte io mi lascerei sopraffare volentieri. Dev’essere una magnifica sconfitta virile. Ti difendi e vieni stretto in una morsa e capisci che colui con cui ti stai confrontando è mille volte piú forte di te. Chi è piú in grado di pensare a sotterfugi, allora, a contromosse sleali con cui ritardare il verdetto di pochi ridicoli secondi? No, te lo dico io, chi vuol essere uomo deve soccombere a schiena dritta. E la schiena dritta non può averla chi difetta di capacità.

«La Morte, madre mia, è un uomo. Che sia pure vanesio, che sia ingiusto, che sia finanche meschino: dovrai ammettere che nella sua solitudine c’è orgoglio, c’è tempra, potenza, affidabilità e coraggio. Guarda quanta fatica dura, e pensa a come noi vacilleremmo in sua vece: dinnanzi ha questa Vita, gigantesca, salda, questo fortino di sangue, questa montagna di carne e fiato... e lui? Solo, ubbidiente e maschio. Resta lí fermo e impavido, laddove ciascuno di noi si mostrerebbe pavido, perché ci mancherebbe il coraggio di resistere. Credo che niente, madre mia, sia piú difficile che sopportare la Vita. Chi tuttavia le resiste non creda di averla sottomessa. Poiché resistere e sottomettere sono cose differenti.

«La Morte, dicevo, è la forma piú misteriosa di sonno. Con ciò voglio dire che è anche la piú innocua. Lo saprà bene papà, ancorché non possa confermartelo. Il sonno non è la quiete vera e propria; la quiete definitiva, priva di prospettive è solo la Morte. Le... cose... di per sé...» Pandilatte faticava a decifrare la propria scrittura, «...sono innocue. Ma... con… il... non ha piú senso, Walter, ormai è troppo buio. Hai capito che cosa volevo dire?».

«Eccome» disse Proska. «Solo che le zanzare mi stanno massacrando. Faticavo ad ascoltare. Quanto impiega una lettera per arrivare da tua madre?».

«Dodici giorni, e dalla tua?».

«A volte quattro, a volte quindici».

«Da cosa dipende?».

«Non ne ho idea».

«Spero che questa lettera ci metta come al solito. Dopodomani devo andare a Tamaschgrod. La porterò con me. Vuoi darmi anche tu...».

«Mi sa che te lo puoi scordare».

«In che senso?».

«Non puoi andare a Tamaschgrod».

«Perché no? Voglio consegnare la lettera all’ufficio di reparto».

«Dovrai cercarlo a lungo, allora. Il reparto non c’è piú. Sono andati via».

«Te l’ha detto Willi?».

«No. Lui non lo sa ancora. Se lo sapesse scenderebbe a piú miti consigli».

«E a te chi l’ha raccontato?».

«Uno scoiattolino».

«Mi stai prendendo in giro o cosa?».

«No, Wolfgang. Me l’ha detto Wanda. La conosci anche tu. Poco tempo fa ci è passata vicino proprio qui, in questo punto. Tu volevi spararle, ricordi? Se le avessi sparato ora non lo sapremmo».

«L’hai incontrata e le hai parlato?».

«Sí».

«E lei ha detto che hanno trasferito il reparto?».

«Se la sono squagliata. Senza perdite. A Tamaschgrod non c’è piú un soldato».

«Ma allora siamo finiti, Walter. Allora questa lettera posso anche...».

«Non strapparla» lo fermò Proska, «dammela qua. La conservo io. Siamo sempre stati finiti, Wolfgang. Fintanto che ce ne restiamo qui nella palude siamo finiti».

«Sono curioso di vedere come sarà l’ultimo atto».

«Non ne hai motivo, amico. Ti falceranno e resterai a terra e non ti alzerai mai piú. L’ultimo atto è il piú semplice del mondo».

«Se non altro ho ancora il mio fucile».

«E con ciò? Che vuoi dire? Avanti, dammi la lettera».

Wolfgang gli porse la lettera e ascoltò le dita di Proska che la piegavano e la infilavano in una tasca.

«Non mi avranno a buon mercato, Walter. Mio padre si è preso un colpo in testa. Affar suo. Io voglio prenderlo nella schiena».

«Pensi di svignartela?».

«Sí, e il piú alla svelta possibile».

«Tanto è inutile».

«È l’obiezione piú facile».

«Credimi, Wolfgang, scappare è da pazzi. Dove credi di andare? Lí c’è il fiume, da una parte e dall’altra la palude e dietro di te ci sono loro. Non vai lontano».

«Me ne frego. Ma prima qualcuno di loro dovrà assaggiare il mio piombo».

Proska gli appoggiò una mano pesante sulla spalla e gli premette la clavicola. Sentivano il fiume sciabordare sui contrafforti di cemento e ascoltavano con i colli tesi il fruscio stanco delle canne che arrivava fino a loro dalla sponda opposta.

Pandilatte fece per alzarsi.

«Resta giú» disse Proska, «sei solo agitato, altrimenti capiresti anche tu che razza di idiozie vai dicendo».

«Hai una sigaretta, Walter?».

«Credevo che non fumassi».

«Voglio provare».

Si accesero una sigaretta ciascuno.

Proska disse: «Non andrà a finire troppo male. Verranno ad aiutarci, credo».

«Ad aiutare chi?».

«Te e me».

«E chi vuoi che ci aiuti?».

«Wanda».

«La ragazza che hai incontrato?».

«Sí. So che ha buoni contatti».

«Con la morte?» chiese Wolfgang ironico.

«Non è poco» rispose Proska. Sai, io e lei siamo stati insieme nel canneto. Si è spogliata, senza dire una parola».

«Senti senti. In fin dei conti, che volevi che ti dicesse?».

«Ti piace la sigaretta?».

«Puah. No, accidenti. La spengo, che è meglio. Come fa a piacerti? Tieni, questa puoi finire di fumarla dopo. Raspa forte in gola. A te non dà fastidio?».

«Per niente».

«Devi avere la trachea di lamiera».

«Di acciaio per blindati».

«A prova di pallottola?».

«A prova di pallottola».

«Che vuoi farne della mia lettera, Walter? Perché non hai voluto che la strappassi? Tenerla non ha senso, non troveremo mai piú una buca della posta».

«Ne sei cosí sicuro?».

«Sicurissimo».

«Ti dirò una cosa, Wolfgang: io sono ancora qua. Su di me puoi fare affidamento, in tutto. Te l’ho già detto una volta. Non preoccuparti, vedrai che usciremo di qui. Lascia fare a me».

«Hai un piano?».

«Non ancora. Finora non avevamo idea di quel che sarebbe successo».

«Quando la guerra è finita, Walter, io...».

«Ancora non è finita. Ma per noi personalmente, per me e te, forse presto sarà passata».

«Pensi alla prigionia?».

«È una possibilità».

«L’altra possibilità si chiama morte».

«Ce n’è un’altra ancora».

«E quale sarebbe?».

«Zitto» ordinò Proska di colpo. Si tirò su da terra e si mise accovacciato.

«Non senti nulla?».

«No. C’è qualcuno al ponte? Devo controllare?».

«Resta giú. Rieccolo! Sembra uno che cammina fra i binari».

«Adesso gli insegno a fare il salto mortale» mormorò Wolfgang carezzando l’otturatore.

«Che ti prende? Una volta non eri cosí. Te la fai sotto? Là, guarda! È un uomo. Adesso salta giú dalla scarpata».

«Aspetta che l’aiuto io» ringhiò Wolfgang e puntò il fucile.

«Sei diventato matto? Non sparare! E se poi...».

«Tiu... tiu... tiu» fischiò il fucile di Pandilatte.

L’uomo a cui erano destinate le pallottole ruzzolò giú dalla scarpata e non rispuntò piú.

«Uno di meno» disse Wolfgang, e la mano pesante di Proska lo colpì in faccia. Pandilatte lasciò cadere il fucile, si mise a frignare e tastò la mascella.

L’assistente strisciò quatto alla ferrovia con il dito sul grilletto. Trovò uno spilungone in uniforme, riverso sulla pancia, immobile.

«Ma è Gamba!» esclamò Proska confuso. «Per l’amor di Dio...».

Lo spilungone raccolse una gamba, si alzò, sorrise e mentre si massaggiava il braccio sinistro disse: «Grüß Gott, Proska!».

«Sei ferito?».

«E bene, stortavo mia caviglia. Perché sparate su camerata?».

«Ti ha colpito?».

«Pjerunje, se andavo kaputt ero solo contento... hai sparato tu?».

«No. Mio Dio, hai avuto una bella fortuna».

«Fortuna in che senso? Sono stato furbo, solo questo. Se non restavo disteso avresti sparato ancora».

«Non ti ho sparato io, Gamba».

«Chi allora? Lucci non sanno usare fucile dificile».

Proska disse: «Ha sparato il Pandilatte. Al ragazzo sono saltati i nervi».

«Eh, non è poi grave. Era piú grave se aveva colpito».

Tornarono piano al fiume.

«Da dove vieni?» chiese Proska.

«Da Tamaschgrod» rispose Gamba.

«E che ci sei andato a fare?».

«Cosa ho fatto? E bene, ho fatto lavoro di prete. Sono andato dentro chiesa e ho predicato».

«Predicato? E che cosa?».

«Poco di questo e poco di quello. Dov’è panino da latte?».

«Tra un po’ siamo da lui. Dimmi: hai visto soldati a Tamaschgrod?».

«Soldati? No. Solo polvere e donne e bastoni».

«Nient’altro? E il reparto?».

«Pjerunje, andavo a Tamaschgrod da privato, non in servizio. A chi fate posta voi qui?».

«Alla luna».

«Ha già fatto il bagno? Volete vedere lei che spoglia, camicia e sottoveste?».

Proska disse: «Senti come piagnucola».

«Chi, luna?».

«Il Pandilatte. Ha sentito che sapore hanno i miei pugni».

«Tu hai lui picchiato?».

«Sí. Adesso ti racconta lui perché. Ehi, Wolfgang, lo sai a chi hai sparato?».

Nessuna risposta.

Proska tirò lo spilungone per la manica e gli sussurrò piano: «Se la sarà presa... posso capirlo, a quell’età».

Lo spilungone si fermò a riflettere. Poi avvicinò le labbra all’orecchio dell’assistente e disse: «Allora meglio che adesso sparivo veloce. Wolfgang non deve incontrare me. Se vede a chi ha sparato diventa triste e dispera. Capisci? Lui si dà rimproveri».

«E se lo chiede a me?».

«Tu di’ lui che ha mazato grande orso di palude».

«Dove pensi di andartene adesso, Gamba?».

«A forte! Dove se no? Caporale sarà rabiato. E bene, schwistko jedno».

«E non hai con te un fucile?».

«Fucile? Ah, mondo boia, mancava questa! Devo avere lui lasciato qui su fiume. Domattina sai che scena? Magari però riesco ancora a trovare lui prima. Domatina presto vengo a cercare. Con sole aiuta di sicuro».

Mollò lí Proska e tornò zoppicando al ponte, dove ombre profonde lo inghiottirono.

Wolfgang sedeva a terra, non sollevò nemmeno la testa quando due dita gli sfilarono la ciocca riposta dietro l’orecchio e gliela fecero ricadere sul viso.

Chiese con voce rotta: «Walter... l’ho... preso?».

«Sí».

«Un uomo fatto?».

«Sí».

«Ed è morto? Oppure...».

«Bruca già nei pascoli del cielo. Calmati pure, non se l’è presa a male».

«Non ce l’ho con te, Walter, per il fatto che mi hai colpito. Non credere, sai? A volte mi stupisco di me stesso».

«Capita anche a me».

«Non vuoi sederti? Manca ancora per il mattino».

«Speriamo».

«È morto sul terrapieno? Voglio andarci. Ma è incredibilmente dura. È tremendo. Premere il grilletto, Walter, è facile, non ti aspetti chissà che; io perlomeno quando lo schiaccio non credo mai che possa crepare un uomo. Il grilletto ci imbroglia facendosi piú bonario di quel che è. Il grilletto è un diavolo, un corruttore. Fintanto che la vittima è irraggiungibile e vive, uno ha l’ambizione idiota di vederla ai propri piedi. Quando poi ce l’hai riversa davanti che non riesce piú a muoversi, vai su tutte le furie. Io la prenderei a calci, allora, per farla rivivere. No, io al terrapieno non ci scendo, Walter. Tu?».

Proska si sedette con un sospiro e disse: «Nemmeno tu sei tenuto ad andarci, nessuno te lo chiede. Hai perso i nervi. Però non deve capitare mai piú. Se nei paraggi ce ne fossero stati venti dei loro, adesso ce ne staremmo sdraiati sul divano a casa della morte. Hai avuto fortuna. Quello che se ne sta là fra i binari era un orso».

«Ma come, ci sono orsi, qui?».

«Di solito no».

«E ce n’è uno morto sulla ferrovia?».

«No».

«E allora come fai a dire che ho colpito un orso?».

«C’era un odore come di sudore di orso».

Proska sorrise senza farsi vedere. Era sul punto di raccontare a Wolfgang la verità ma poi lasciò perdere perché condivideva i timori di Gamba. Pandilatte pensò: “Non l’ho colpito, grazie a Dio. Mio padre mi avrebbe picchiato. Somigliava un po’ a Walter, papà. La giustizia non risiede nel pugno, ma dentro la testa. Il senso di giustizia non dipende dallo spirito del singolo. Lo spirito è immortale. Che significato ha dunque la morte per un uomo che ha vissuto la vita dello spirito? Nel migliore dei casi, nessuno. E in ogni modo è una liberazione dalle cure profane di questo mondo. Bisogna occuparsi maggiormente di ciò che è morale o di ciò che è utile? Ciò che è morale non è utile dappertutto. L’utile non è sempre morale. A dimostrazione di ciò: la teoria dello Stato. Cattiveria, falsità e spietatezza vengono impiegate senza ritegno. E certi Stati che si comportano cosí hanno pronta una risposta sbalorditiva, una spiegazione che è un trucco da prestigiatore. Rispondono: se tutti gli esseri umani fossero angeli, lo Stato potrebbe rinunciare a impiegare simili mezzi. Ironia diabolica. Dialettica dei despoti. È possibile dunque rinchiudere le passioni dentro le celle della ragione? Che cosa sono insomma le leggi? Brutalità ordinata, imbrigliata. Perché sono qua, io? Perché ci sono venuto senza oppormi? Perché? Forse perché altrimenti mi avrebbero fucilato? Il dovere nei confronti dello Stato è una sorta di entusiasmo condensato. Entusiasmo in lattina, conservabile, pronto per essere distribuito, immagazzinabile a piacimento. Due buchetti insignificanti e già cola fuori. Uno Stato dovrebbe essere morale come la natura. Dovrebbero esserci soltanto sudditi della morale o della coscienza. L’umiltà come Costituzione; articolo primo: misericordia. Il vento come deputato, e la terra. Chi giace là morto sulla ferrovia? L’ho visto bene che cadeva. Ma adesso so contro chi devo sparare”.

Proska pensò: “Chi sa che parte sta recitando. Le conoscenze giuste le ha. E ha giusti anche i seni. Non ho preso precauzioni. E se adesso aspetta un bambino? Con lei potrei anche vivere. Rogalski farebbe tanto d’occhi! E Maria! Chissà cosa direbbe lei se un giorno arrivassi là con lo scoiattolino. Il mio buon cognato Rogalski. Quella testa di legno masuro. Lui sa quel che vuole, questo bisogna riconoscerglielo. Tutti gli altri contadini di Sybba hanno dovuto consegnare cinque o sei cavalli, lui naturalmente solo due. Se la Lene gli è sfuggita non è stata colpa sua. Cavalla magnifica; un po’ matta, questo sí. Ce l’ha sulla coscienza il bracciante, Schlimkat o come si chiama. Lo sa Dio quante sferzate quel lavorante incattivito le ha dato sulla testa. Santo cielo, quanto ha torturato quella bestia. Soprattutto all’erpice. Quella volta sono stato felice che Rogalski sia un collerico. La volta che sul lago dei Tatari si è accorto del modo in cui Schlimkat picchiava la cavalla sulla testa con lo stivale. Mio cognato Rogalski è una persona abbastanza come si deve. È andato da lui, gli ha strappato la sferza di mano e lo ha mezzo ammazzato di frustate. Ma la Lene era già troppo andata. Ha morsicato Schlimkat due volte. Avrebbe dovuto staccargli le dita con cui la picchiava a quel modo. Di opportunità ne aveva piú che abbastanza. Peccato che le bestie non sappiano bene cosa farsene delle opportunità. Noi siamo molto piú bravi. (Se solo si presentasse l’opportunità di svignarsela da qui...) Chi pratica la guerra per mestiere è un criminale. È quel che fanno quelli su in alto. Mentre noi stiamo qua a mollo nella palude. Stroncarli bisognerebbe, cosí avremmo un po’ di pace. Ce ne potremmo tornare tutti a casa. Ma alla cricca manco riesci ad avvicinarti. Stanno trincerati dietro le loro guardie. Le guardie sono solo camerati, vero. Se vuoi arrivare alla cricca devi passare prima attraverso le guardie, ma quelle cacciano via tutti. Bisogna eliminare la cricca! Anche se alcune guardie dovessero lasciarci le penne. Io sarei pronto ad assumermi i miei rischi. Con la coscienza a posto, tra l’altro. Chi va a letto con la libertà deve anche difenderla con ogni mezzo. Tutto gli è permesso. Stiamo a vedere come va a finire qui. Porca malora, possibile che mi pungano sempre dietro il ginocchio?”.

A un tratto Wolfgang chiese: «Dormi?».

«No, non del tutto».

«Credevo...».

«Sbagliavi».

«L’ho impallinato, Walter? È là morto sul terrapieno, vero?».

«Vai a controllare tu stesso. Non c’è nessun morto».

«Lo hai portato via tu? Lo hai nascosto!».

«E vai, santo cielo!».

«Torno subito, Walter, cinque minuti».

Pandilatte sgattaiolò al fiume, lungo la vecchia acqua che ciangottava ironica, strizzò gli occhi, guardò sotto il ponte: buio; guardò dall’altra parte il canneto: buio; guardò gli arbusti, a ovest e a est: buio. Ovunque regnava la notte con il suo muto alleato, il buio. In alto sopra la palude brillavano i volti imperterriti e malinconici delle stelle. Wolfgang guardò su, verso di loro.

«Ragazzi» mormorò.

Si chinò e ficcò due dita nell’acqua. Era calda. In fondo dietro Tamaschgrod una stella cadente traversò il cielo, una seconda la seguí di lí a poco con uno strascico luccicante. Millantata ricchezza. Cenere. L’esercito delle zanzare saliva e scendeva facendo una musica sorda e monotona. Vicino all’orecchio il ronzio della zanzara suona subdolo, come il canto di una minuscola sirena indignata.

Proska si addormentò. Si era sdraiato per il lungo fra i cespugli, e quello fu il suo errore. Se fosse rimasto seduto non gli sarebbe successo, invece mentre vagava in trasognata assenza di gravità tra gli antri e le cave del sonno per quelli che gli parvero cinque minuti non si accorse che il suo orologio aveva già contato quattro ore e Pandilatte ancora non gli era tornato accanto. Se ne rese però conto quando il fiume cominciò a respirare, alitando la fredda nebbia dell’alba sopra la palude. Proska aveva le mani e la schiena gelide. Guardò a occhi socchiusi nel crepuscolo, tranquillo, si grattò nell’incavo del ginocchio, sbadigliò, cercò elmetto e fucile e... realizzò che erano usciti di pattuglia in due. Di colpo saltò in piedi e si guardò intorno.

Di Pandilatte, nemmeno l’ombra. Sotto il ponte non c’era, sulla ferrovia nemmeno.

“Dove si è cacciato stavolta il ragazzo? Non si può nemmeno chiudere gli occhi un momento senza che vada storto qualcosa. Voleva solo scendere alla ferrovia... dov’è finito?”.

Proska chiamò a voce sommessa: «Wolfgang!».

Il ragazzo non rispose.

«Wolfgang, dove ti sei cacciato? Ehi! Perché non dici nulla? Svegliati, su!».

Un’anatra selvatica passò sbattendo le ali sopra di lui.

«Dobbiamo andare!» gridò Proska. «Non mi senti? Dico a te!».

Si fece inquieto e frugò in tutti i cespugli che stavano intorno, scese anche alla massicciata della ferrovia e ai contrafforti del ponte, cercò, chiamò piano e cercò, ma del Pandilatte non c’era traccia.

L’assistente pinzò il fucile fra le ginocchia, tirò fuori di tasca la sigaretta mezzo fumata da Wolfgang e l’accese. Sbadigliò e imprecò tra sé.

“Magari è tornato al forte. Ma a fare che? Willi lo ricaccerebbe indietro. Lo sa anche lui”.

«Wolfgang! Ehi! Woolf-gaang?».

Ci sei rimasto male, eh Proska? L’ansia ti fa andare come una trottola, guarda come gira tutto, non sai piú che fare. Gridare non serve, come hai visto. Il Pandilatte non ha risposto, quando l’hai chiamato. La palude se l’è inghiottito per colazione. Quante possibilità ci sono di diventare invisibili nel mondo? La palude ha i suoi modi per far sparire un uomo, e dire che non ha in bocca piú denti di una gallina. Quant’è brava a mostrarsi innocente, la natura, quant’è indifferente. Girati a guardare! Il Pandilatte si è perso e la palude tace, come tace di tutto, delle innumerevoli nascite e delle migliaia di morti che avvengono qui in ogni istante. Che poca cosa siamo, a non saper nemmeno capire se la palude ce l’ha con noi o non le importa della nostra presenza. Il Pandilatte non ricomparve.

Quando Proska si rese conto che le ricerche e i richiami erano inutili, tornò piano verso il forte con la speranza che al ragazzo non fosse capitato niente di brutto. Ogni tanto si fermava – davanti al golfo del bosco misto, in mezzo ai rovi con le more e da ultimo davanti al fossato – sempre nella speranza che Wolfgang si facesse vivo. Speranza vana.

Tremando per il freddo, Proska superò in equilibrio la passerella di ontani e risalí a passi stanchi l’altura dove si trovava il forte. Sull’entrata si scontrò con lo spilungone Zwiczosbirski, che ammiccando gli fece capire di volergli parlare all’esterno.

«Che cosa vuoi, Gamba? Sono stanco morto. E poi devo parlare subito con Stehauf».

«Si è appena rimesso sotto calduccio di coperta» disse lo spilungone.

«Che c’è?».

«E bene, vuole inviare a uficio di reparto richiesta di mia punizione».

«Una punizione, e perché?».

«Ero via troppo tempo».

«E allora?».

«Quando sentirà che ho perso fucile chiederà doppia punizione. Loro faranno me: pfft!» Gamba si posò l’indice sulla fronte. «Lo so che questa volta lui telefona. Casa non è solo di uomini ma anche di cimici. E vita di Zwiczosbirski non appartiene solo lui, ma anche a signor sottufficiale. Che stupido ero a dare in affitto mia vita. Ecco cosa guadagno!».

«Quante sciocchezze» lo interruppe Proska. «Che razza di assurdità vai dicendo? Chi è di guardia al forte?».

«Poppek».

«Dov’è?».

«Che so io dov’è? Sarà qui in giro, forse in latrina».

«Hai lasciato il tuo fucile da qualche parte?».

«Lasciato o perso. Di preciso non si sa».

«Tu non lo sai».

«E bene, io non lo so».

«E non vuoi cercarlo? Se lo ritrovi è tutto a posto».

«Volevo apunto chiedere a te se potevi me aiutare a cercare fucile. O Pandilatte. Hai poi lui raccontato a chi ha sparato?».

«No».

Gamba allungò il collo e osservò il margine del bosco. Proska guardò il pomo d’Adamo dello spilungone che salí e ridiscese rapido due volte, la sua bocca contratta che non era granché regolare e sembrava sfrangiata. Nell’orecchio dalle pareti sottili rilucevano alcune venuzze.

«Dov’è Pandilatte?» chiese Zwiczosbirski.

«Sparito».

«Morto? Pfft?».

«È sparito. Non ho idea di dove si sia cacciato».

«O moi Jesus. Hanno lui fucilato?».

«No. Avrei sentito il colpo. Se io gli avessi raccontato a chi aveva sparato, adesso sarebbe qui. Era convinto di aver ucciso qualcuno ed è andato alla ferrovia. Non si dava pace, anche se gli ho detto che non avrebbe trovato nessuno. Dalla ferrovia non è piú tornato».

«È colpa mia, Walter?» Gamba girò la testa e guardò Proska con occhi preoccupati e stanchi. Si stropicciò le dita magre e disse: «Si è nascosto. Può darsi che sta solo facendo passegiata. Facile che torna prestissimo. Che dici? È possibile?».

«No. Wolfgang non sarebbe mai rimasto via tanto a lungo. Deve essergli successo qualcosa».

«Incidente?».

«Può anche darsi. Vado a svegliare Stehauf per dirglielo».

«Ahi, e mio fucile? Cosa faccio io, Walter? Lascia che caporale dorme ancora, sí? A lui viene rabbia ancora piú grande e quando si sveglia gira manovella di telefono e chiama a Tamaschgrod».

«E va bene, Gamba».

«Aiuti me a cercare maledetto fucile?».

«D’accordo, però dobbiamo sbrigarci. Ti ricordi almeno l’ultima volta che l’hai visto?».

«Dev’essere stato giú a fiume. Ho portato fucile in schiena, e siccome pesava tanto...».

«Su allora, andiamo».

«Grazie, Walter, moi Schwintuletzki. Non dimenticherò quello che tu fai per Zwiczosbirski. Un giorno verrà giorno che io...».

«Sta’ buono, smettila di parlare a voce cosí alta o sveglierai il caporale».

Lo spilungone abbracciò Proska, e gli premette il mento nei capelli scompigliati.

«Su, su» si schermí Proska, «non sono mica una ragazza».

«E bene, si vede e come! Però sei uomo buono».

Passarono in mezzo fra le due betulle, muti e con gli sguardi abbassati, poi traversarono la macchia di rovi vecchi e coriacei fino al fiume, camminando vicino al punto in cui giaceva il cadavere del gesucristo imbottito di dinamite.

«Mio naso riferisce puzza» disse Zwiczos.

Proska annuí e disse: «Anche il mio. Sembra che qui qualcuno si stia decomponendo».

«È necesario puzzare, quando si diventa terra?» chiese lo spilungone.

«È necessario, Gamba».

«Anche sottuficiali?».

«Sí, anche i sottufficiali. Solo dal maggiore in su non puzzano piú».

«Loro che fanno?».

«I signori odorano. La sai la differenza tra puzzare e odorare?».

«Qui dobbiamo svoltare. Sono andato a destra, là traverso quelli cespuglietti e dopo ho... no, non conosco differenza».

«E allora non serve che la conosci. Troppa conoscenza fa solo girare la testa».

Il sole alzò la gamba e scavalcò l’orizzonte. Portò con sé una luce calda che ridestò una gran vita. I suoni diurni si levarono erranti sopra la palude, che prese a gorgogliare, frinire, pigolare, mormorare, frusciare, gracidare, scricchiolare, scrosciare; la laida buca d’acqua ruttò, il marasso uscí a prendere il sole, un fagiano di monte esaminò con occhio selvaggio la sua pennuta prediletta, i pesci risalirono dal fondo per guardare il cielo a bocca aperta. Il loro cielo gli gettava davanti al muso mosche e maggiolini esausti, e di quando in quando una libellula frullante: guardavano in alto e basta, i pesci, in attesa di qualcosa che puntualmente ricevevano.

Gamba e Proska camminavano nell’erba appesantita dalla rugiada, con gli sguardi fissi a terra. Il cuoio degli stivali si bagnò e rammollí, sulle mascherine si raccolse un brillio bianco. Lo spilungone andò al fiume, sbottonò i calzoni e fece un po’ d’acqua. La cosa gli mise allegria, gridò trionfante: «Walter! Guarda! Piscio in sua casa. Ah che sorpresa, quando a improviso sente caldo in pinne di schiena! Sorpresa a colazione, eccola!».

«Sei diventato scemo?» chiese Proska scontroso. «Di chi stai parlando?».

Lo spilungone riabbottonò i calzoni e disse: «Parlo di signor Luccio. Satana! Lui che scappa sempre. È piú furbo e piú forte di noi, quello».

«Aiutami a cercare il tuo cannone, piuttosto!».

Frugarono ovunque sulla riva, dove Zwiczos, stando alle sue parole, doveva essersi fermato, ma non trovarono l’arma. Piú saliva la temperatura, piú Proska si faceva nervoso e impaziente. Aveva smesso di cercare e lanciava occhiate ora dalla parte in cui si trovava il forte, ora all’orologio. Quando videro spuntare in lontananza il ponte, il dorso d’acciaio della ferrovia, Proska si fermò e annunciò con un tono che non ammetteva repliche: «Adesso basta, tanto non lo troviamo piú. Torniamo».

«O moi bosä» singhiozzò Gamba, «caporale gira manovella di telefono e...».

«Non girerà nessuna manovella, fidati di me».

«Ma apparecchio è pronto sopra cassa, Walter».

«Ti dico che Stehauf non telefonerà. La linea è interrotta».

«Dove hai sentito questa notizia? Sei stato tu? Zac, zac?».

Fece il gesto di una forbice che taglia e strizzò l’occhio a Proska.

«Andiamo, accidenti. Se Stehauf alza la cresta se la dovrà vedere con me».

I due tornarono al forte per la strada piú corta. Il sole ardeva su di loro, ce l’avevano inclinato sopra la testa, una sfida rovente. Sui prati il vento si stiracchiava; per lui era ora, visto che sull’orizzonte si vedevano già le prime nuvole. Si alzò e si mise al lavoro.

Proska e Zwiczos lasciarono il bosco, presero il giro largo intorno alla tomba di Stani e fecero per avvicinarsi al forte di lato quando si bloccarono come conficcati nella terra. Proska lasciò cadere il fucile e alzò tutte e due le mani, lo spilungone si sentí ribollire e ronzare il cervello. Gli vennero le ginocchia molli, la bocca si riempí di saliva. Sollevò anche lui le mani tremanti in alto. Non riuscí nemmeno a buttar fuori un’imprecazione. Il mento di Proska sussultava a intervalli regolari, come se dei possenti colpi si abbattessero a intervalli altrettanto regolari sulla sua nuca. Si sentiva la lingua gonfiare e gli parve che il cuore volesse scappargli, nello stesso modo in cui una volta un cavallo castrato era scappato a suo cognato Rogalski. I soldati non ebbero né il coraggio né la presenza di spirito di agire, di affrontare la situazione cosí come si erano riproposti di fare quando altre volte, in momenti di ozio, l’avevano immaginata. Silenziosa come la calura e improvvisa come un orologio che si ferma, dietro il forte era apparsa una dozzina buona di civili, per lo piú uomini di una certa età – alcuni avevano facce come cartine geografiche delle Ande – e questi uomini tacevano e tenevano dei mitra russi nelle grandi mani scurite dal sole, con le canne puntate sui due soldati. Restarono cosí per un po’, immobili, gli uni davanti agli altri, poi il piú anziano dei civili si staccò dal gruppo e andò da Proska.

«Vieni» ordinò brusco. «Tu anche» disse a Gamba.

Raccolse il fucile di Gamba e lo gettò a un uomo che lo prese al volo e lo appoggiò contro la parete di legno del forte. Davanti alla panca c’erano Willi e l’artista, anche loro con le mani alzate.

«Là!» disse il vecchio.

I soldati si misero in riga, con dieci bocche di mitra a garantire che non si muovessero. Il vecchio chiamò a sé un uomo, confabulò con lui sputando piú volte a terra. Aveva un volto largo, risoluto, gli mancava la parte superiore dell’orecchio sinistro. I capelli erano neri e fitti, mento e collo non venivano rasati almeno da una settimana. Mentre parlava a bassa voce, il vecchio indicò piú volte Proska con il pollice, infine annuí e, dopo che l’uomo con cui aveva discusso scomparve nel bosco, tornò a rivolgersi ai soldati.

«Tu qui» ordinò a Proska, «e tu» – riferito a Gamba – «anche qui. E caporale e grasso là. Kto...» si interruppe e con i suoi occhietti osservò Gamba che nel farsi da parte insieme a Proska aveva bisbigliato qualcosa al camerata.

Il vecchio fece un cenno a un civile gigantesco che teneva il mitra come fosse un giocattolo, indicò lo spilungone e disse sottovoce: «Dai!».

Il gigante, vestito soltanto di camicia e calzoni, prese il mitra in una mano, si avvicinò calmissimo a Zwiczosbirski e gli piantò un pugno in faccia cosí improvviso e violento che lo spilungone si piegò a terra rantolando. Proska fece per reagire, ma quando si accorse che il vecchio lo teneva d’occhio e che il gigante si era fermato come in attesa di un altro «dai», restò buono.

«Chi parla polacco» chiese il vecchio, «o russo?».

«Quello lí» disse Willi indicando Zwiczos che si stava rialzando a fatica. Lo spilungone sputò sangue e saliva e scosse forte la testa come per scrollarsi di dosso il dolore.

«Ti rosumngäs Popolski?» chiese il vecchio.

Gamba fece segno di sí con la testa.

In quella risuonarono degli schiamazzi esagitati e da una delle due betulle svolazzò giú Alma, con gli artigli ritratti, proprio al centro degli uomini; atterrò liscia, fece qualche passo, si fermò e si guardò perplessa intorno. Gonfiò le penne, fece scattare la testa in avanti e indietro e mentre tutti la fissavano prese a razzolare e becchettare nell’erba. Tonto sporse le labbra. Chiamò: «Coo, coo, coo, Alma! Pio, pio...».

Alma sollevò la testa, ascoltò e continuò a raspare.

«Coo, coo» chiocciò l’artista grasso a mani alzate.

Ma la gallina non diede retta alla voce del padrone mangiafuoco. Il vecchio fece un gesto brusco e impaziente al gigante, e ordinò: «Dawai! Chiepko!».

Il gigante posò a terra il mitra e si avvicinò alla gallina con le mani tese avanti.

«Putsch, putsch, putsch» disse l’uomo. A ogni «putsch» che diceva Tonto si sentiva conficcare nel sedere un ago da rammendo. La gallina ammaestrata sollevò la testa e nello stupore generale volò sulla mano del civile, gli saltellò sulla spalla, sulla testa e poi sull’altra spalla. Lí Alma si accovacciò, un fremito le percorse il corpo e sulla schiena del gigante ricadde un grumo bianco-verdastro.

Tutti i civili risero.

Il vecchio strillò con voce rugginosa: «Chiepko!».

Il gigante cercò immediatamente di abbrancare la gallina, ma in quel momento lei balzò via con forza conficcandogli le grinfie nella spalla e volò strepitando sulla betulla dove era rimasta nascosta fino a poco prima.

I civili risero e le canne dei loro mitra traballarono.

Zwiczosbirski si pulí con un fazzoletto il sangue dal mento. Infilò indice e pollice in bocca e controllò quali denti si erano allentati. Il sottufficiale Stehauf sorrideva vigliaccamente, impaurito. Il gigante si chinò in preda alla collera, afferrò il mitra e andò sotto la betulla dove era appollaiata Alma, che guardò incuriosita in basso.

Il gigante puntò, la gallina si sporse a osservare con uno sguardo che sembrava lontanissimo.

«Chiepko!» gridò di nuovo il vecchio.

Il gigante premette il grilletto e nel frastuono dei colpi Alma cadde con un tonfo nell’erba, come un sasso. Ebbe uno o due sussulti nelle zampe, quindi restò immobile. Tonto chiuse gli occhi, sembrava che tutte le sue speranze giacessero a terra insieme alla gallina morta. Vacillò leggermente, cambiò di colore in faccia.

Willi lo osservò stupefatto. Poi scoppiò in una risata roca presto interrotta da un attacco di tosse convulsa che lo costrinse ad abbassare le mani.

«Ehi!» gridò il vecchio.

Stehauf rialzò le mani.

Il vecchio contò ad alta voce i quattro soldati: «Iedn, dwä, trschi, stiri».

Il caporale disse con le lacrime della tosse ancora negli occhi: «ne mancano ancora due».

«Hm. Zo un chzä?» il vecchio si voltò verso Gamba.

«Dice... mancano... ancora due» tradusse Gamba accartocciato.

«Non serve che ce lo dica, questo lo sappiamo da noi! Tenete tutti il becco chiuso, chiaro? Chi parla o si muove sarà fucilato. Verrete portati via uno alla volta. Chi è Proska?».

«Presente!» disse Walter.

«Tu vai per ultimo».

Tre civili portarono via con sé il sottufficiale, dopo un po’ altri tre condussero via Tonto e quando furono scomparsi fu la volta di Zwiczosbirski. Proska ascoltava teso, convinto che presto sarebbero partiti dei colpi, ma il mattino caldo non fu lacerato da alcuno sparo.

Erano rimasti soltanto lui e il vecchio. Prima di andarsene il gigante si era piegato a raccattare la gallina. Nel punto in cui era caduta l’erba era diventata rosso scuro.

Con stupore di Proska, a un tratto si voltò anche l’ultimo degli uomini in abiti civili che era rimasto vicino a lui, si infilò il mitra a tracolla e partí. L’assistente lo guardò allontanarsi come un fantasma, ma non osò abbassare le mani. Aveva la sensazione precisa che da qualche parte qualcuno lo osservasse, e possedeva abbastanza istinto da sapere che abbassare le mani avrebbe significato la morte. Probabilmente non aspettavano altro.

Restò lí in piedi con la faccia rivolta al ponte di tronchi di ontano e la schiena al forte. Stava appunto riflettendo per quanto tempo potesse restare ancora lí a quel modo quando da dietro di lui qualcuno chiamò il suo nome. Una voce femminile aveva esclamato: «Walter!», l’aveva distinto benissimo nonostante lo spavento gli fosse divampato nel cervello come una fiammata.

Si voltò di scatto.

Sull’entrata del cosiddetto forte c’era Wanda, in piedi a gambe larghe, seria come la morte, con la bocca risoluta. Imbracciava un mitra e teneva la canna puntata sul petto di Proska.

«Scoiattolino» balbettò lui confuso e lasciò scivolare le mani giú lungo il corpo.

«Su le mani!» ordinò lei senza cambiare espressione.

Il soldato ubbidí confuso all’ordine.

«Avvicinati» gli disse, «vieni qua davanti a me. Voglio vederti gli occhi da vicino. Me lo vorrai concedere». Nel parlare quasi non schiudeva le labbra. Indossava dei calzoni di panno blu scuro e un maglione grezzo e rigido di lana che rivelava piú di quel che copriva. I capelli li aveva infilati sotto un berretto dalla visiera logora sollevata. Fra i calzoni un po’ troppo corti e le scarpe restava scoperto un pezzetto di gambe.

Quando Proska le fu davanti, lei gli puntò la canna del mitra contro il petto e disse: «Ho tolto la sicura. Se abbassi le mani sparo».

Il soldato era cosí sgomento per la trasformazione sul viso di Wanda che non osò contravvenire all’ordine. Aveva la netta sensazione che appena avesse mancato di ubbidire alle sue parole lei non avrebbe esitato a sparargli.

«Tu» disse lei piano.

Proska la guardò a occhi sgranati.

«Levati la giubba» ordinò.

Lui eseguí esitante.

«Anche la camicia. E adesso vieni piú vicino».

Gli premette la bocca nera del mitra nella carne nuda tanto da farlo incespicare due passi indietro. A Proska tremavano le braccia, dalle ascelle il sudore gli scorreva sui lombi. La grossa vena sulla fronte si gonfiò e i piedi gli bruciavano come poche altre volte. Sentiva sulla nuca tutta la forza del sole.

«Spara» mormorò stordito.

«Perché tanta fretta» ribatté lei.

«Si può sapere cosa vuoi da me? Perché mi avete fatto restare qui? Hai mandato via gli altri per potermi torturare indisturbata?».

«Voglio insegnarti una cosa» disse lei.

«A odiarti».

«Odio e amore sono figli della stessa madre. Voglio insegnarti una sensazione. Devi provare come ci si sente quando il fucile punta il suo dito verso di te. Vedi, il mio fucile ti punta. Avrebbe potuto benissimo indicare uno dei tuoi camerati, invece a quanto pare non ha voluto. Credo che abbia in mente qualcosa di speciale con te».

«Basta storie! Premi il grilletto e falla finita con questa messinscena. Grazie a Dio almeno Wolfgang...».

«Lui sta benone» lo interruppe. «Non ha avuto modo di mandarti i suoi saluti, ma...».

«È vivo?».

«È vivo e vegeto, come ho appena detto».

«Che vuoi da me, Wanda?».

«Hai ucciso mio fratello; poco dopo che ci siamo lasciati. Ho sentito i colpi da lontano. Lo hanno colpito piú di venti pallottole. L’abbiamo trovato su una collina accanto a un roveto. Non puoi essere stato che tu».

«Tuo fratello?» chiese lui.

«Sí, mio fratello». Gli premette la canna piú a fondo nel petto.

Proska balbettò: «Ho... sparato a uno, è vero. Ed è anche successo... il giorno in cui... noi... ci eravamo incontrati... è vero. Me lo ricordo benissimo, ero... infuriato con lui».

«Perché?» chiese Wanda asciutta.

«Se ne andava in giro cosí... sventato... come se non ci fosse una guerra... a cercare more... e portava un fiore... un fiore giallo... tuo fratello. Era lui tuo fratello?».

«Sí».

«Mio Dio... io non lo sapevo. Come potevo saperlo? Tu... non me lo avevi detto. Ho sperato fino all’ultimo che si... fermasse, tuo fratello. Pensavo, torna indietro! Torna indietro, pensavo. Invece lui veniva avanti... verso di me. Ho dovuto sparare, Wanda, altrimenti l’avrebbe fatto lui... Mio Dio... se l’avessi saputo, che era tuo fratello...».

«Taci» ordinò lei. «Rimetti i vestiti».

Proska ubbidí, mentre lei guardava la palude. Poi le tornò davanti con le mani alzate.

«Non ti sparerò» disse Wanda.

«Che hai intenzione di fare di me? Premi pure quel grilletto, non lo vedi come lo desidero?».

Lei guardò a terra, vide un ragno che cercava disperato di passarle oltre la scarpa, sollevò il piede e attese che l’animale fosse dentro il forte.

«Va’ via» gli disse, «fa’ in modo che non debba piú vederti. Lasciami sola, svelto, sparisci! Va’ nella palude o dove ti pare. Basta che vai via da me!».

Mentre Proska scendeva dall’altura dove si trovava il forte, la ragazza girò la faccia dall’altra parte e prese a singhiozzare. Prima della passerella di ontani lui si voltò indietro a guardarla, e quando si accorse che si era tolta il berretto e aveva appoggiato la fronte al legno della parete ebbe un momento di esitazione.

“Devo tornare da lei? È ciò che si aspetta? No. Devo andare, non posso piú restare”.

L’assistente proseguí e diventò sempre piú piccolo e quando piegò intorno al costone del bosco gli arrivò incontro un uomo in abiti civili che gli ordinò di alzare le mani.