6.

«Silenzio! Lasci dormire quei due!».

«Volevo solo dire che...».

«Qui decido io chi dice cosa. È chiaro?».

«Signorsí. È che abbiamo visite. Credevo che...».

«Qui non si crede niente. Visite?».

«Sí».

«E chi è? Non un altro gesucristo imbottito di dinamite, spero».

«No».

«E chi, allora? Parli».

«Credo sia il postino».

«Ah, il postino. Perché non si è ancora presentato da me? Era ora che si rifacesse vivo. Lo faccia entrare».

Tonto uscí ciondolante, Willi si mise a contare le sigarette custodite nel baule.

Una mattina promettente si era sospinta fino al forte; aveva svegliato i soldati. Sull’erba occhieggiava la rugiada, il cielo stava a guardare irrimediabilmente sereno e il sole si trascinava silenzioso sopra le chiome degli alberi come un esile vecchietto. Proska dormiva, Pandilatte dormiva. Avevano mangiato, appeso le uniformi ad asciugare e si erano buttati sulle brande. Gamba non era ancora tornato. Ma la cosa non preoccupava nessuno, sapevano tutti che non avrebbero perso tanto facilmente un soldato come lui. Era troppo attento, troppo oculato, troppo sveglio.

Prima di uscire di pattuglia insieme, Poppek e Zacharias avevano ripescato il vecchio dal fosso e gli avevano perquisito le tasche della giubba. Non gli avevano trovato nulla, ed erano andati a riferirlo a Willi.

«Vuol dire che mi sbagliavo» aveva replicato lui, e quando gli avevano chiesto che dovevano farne, il caporale si era messo a sbraitare: «Avrà fatto in tempo a inghiottirseli al volo, i candelotti. Portatelo via lontano da qui, sia mai che piú tardi esplode».

Tonto sospinse il postino all’interno del forte. Era un uomo con le spalle storte, un fagotto di pacchi sul lato destro e una sacca di cuoio per le lettere sul sinistro. Sul petto aveva un mitra appeso di traverso. Non era facile cogliere l’espressione dei suoi occhi, trincerati com’erano dietro spesse lenti.

Si avvicinò ansando leggermente al tavolo della stufa, ci buttò sopra lettere e pacchetti e appoggiò il mitra su uno sgabello. Poi andò da Willi e disse: «La posta, la posta, è arrivata la posta!».

Il caporale borbottò: «Sempre cosí spiritoso, lei?».

Al postino si mozzò il fiato; deglutí a disagio e aspettò che il caporale si girasse dalla sua parte. Willi chiuse la cassa del tesoro.

«Perché non si è fatto vedere per cosí tanto tempo?».

«Non è colpa mia» disse il postino.

«Sta ancora a Tamaschgrod?».

«Poco fuori».

«Ah! E per il resto non ha di che lamentarsi?».

«In che senso?».

«Nulla, pensavo. Lei non pensa? Da noi si pensa molto. Due sacchi colmi di pensieri ogni notte. Li chiudiamo svelti coi legacci e li buttiamo nel fossato. Che ne dice se questa roba, i pensieri, li mandassimo tutti a casa con la posta? Dovrebbero impiegare un intero battaglione di postini solo per me e gli altri che stanno qui. E a casa non avrebbero altro da fare che occuparsi di loro. Ha portato con sé molta roba?».

«In quattro settimane si accumula di tutto, hehehe».

«Cos’ha da ridere come uno stupido?».

«Come uno stupido, signor sottufficiale?».

«Ride come un castrone mal vellicato».

«Ci sono una quarantina di lettere».

«Me lo immagino. Venti delle quali di sicuro per il debole di stomaco».

«Debole di stomaco?».

«Per Kürschner».

«Sí, ce n’è parecchie per lui».

«Ce n’è anche per me?».

«Due lettere, che mi risulti».

«Be’, andiamo un po’ a vedere queste sorprese. Ha da accendere?».

«Signorsí».

«Ha anche sigarette?».

«Ancora due soltanto».

«Me le dia, allora».

Il caporale prese tre o quattro boccate profonde e andò al tavolo della stufa. Rovistò nel mucchio della posta finché trovò il suo nome, afferrò la busta e la infilò nel taschino sul petto.

«Non la legge subito?».

«Perché mai?» disse Willi, «le parole non scappano mica».

«Non si sa mai, a volte bisogna decidere alla svelta, hehehe».

«Non rida cosí da stupido, soldato, mi fa accartocciare le orecchie. Suo padre era maggiore del Genio, o cosa?».

«Macchinista di locomotiva, signor sottufficiale».

«Lo vede? Quasi la stessa cosa».

Mentre parlava Willi spostava lettere, leggeva indirizzi e contenuto delle cartoline, staccò l’etichetta da un giornale destinato a Zacharias e lo buttò sul suo letto. Il postino, che lo stava a guardare, commentò: «Ce n’era soltanto una, di lettera per lei? Certo che è poco, in tre settimane. Devo essermi sbagliato, pensavo fossero due...».

«Non pensi troppo» ribatté il sottufficiale senza alzare gli occhi. «Lasci che ce ne occupiamo io e i suoi superiori. In fin dei conti siete sotto la nostra responsabilità. Chiaro?».

«Signorsí».

«Volevo ben dire».

All’improvviso il caporale si bloccò con una cartolina in mano; corse alla finestra, la mise bene sotto la luce e la lesse una seconda volta. Le sue labbra sottili si schiusero, negli avari angoli della bocca si insinuò un inconsueto sorriso e il pomo d’Adamo prese a rotolare su e giú lungo la gola rossastra, simile a cuoio. Gettò distrattamente la mezza sigaretta sul pavimento e la pestò sotto la suola degli stivali. Poi spalancò i denti e si mise a ridere forte; rise finché lo prese un attacco di tosse che lo fece incurvare. Strabuzzò gli occhi, schizzò nell’aria spruzzi di saliva e con le mani cercò un appiglio. Fece un gesto stanco al postino, che capí subito e gli picchiò con forza sulla schiena.

«Avanzi di polmoni: accostare a destra! Liberare la strada per l’ossigeno!» rantolò Willi quando si sentí meglio. Con le palme delle mani si asciugò gli occhi umidi per lo sforzo, scosse rassegnato la testa, sollevò di nuovo la cartolina e non osando arrischiarsi a ridere un’altra volta si accontentò di seppellire nella sua faccia da beone l’accenno di un ghigno benevolo.

«Dev’essere proprio divertente, eh?».

«Cosa?» chiese Willi roco.

«La cartolina. Il signor sottufficiale sta ridendo per la cartolina, no?».

«E se anche fosse? Però è davvero da ridere. Sa cosa le dico? Può riderne perfino lei con il suo stupido hehehe. Avanti, me lo faccia sentire di nuovo».

«Vuole che rida?».

«Lei di ridere non è capace, faccia hehehe».

«Per cosa?».

«Rida di sé. Com’è che non lo sta ancora facendo? Era un ordine!».

Il postino tacque come se stesse esaminando in segreto le corde vocali.

«Vogliamo darci una mossa?».

L’uomo con le spalle storte restò impassibile, guardò il caporale e fece: «Hehehe, hehehe...».

«La smetta, santo cielo, basta cosí, mi tortura i timpani. Già che c’è, ora può anche sparire. Ma se si fa rivedere solo fra tre settimane succede una disgrazia. Capito?».

«Signorsí».

«Prenda, non scordi il suo mitra. È proprietà della Wehrmacht. Bisogna averne cura come dei propri occhi. Ma vedo che i suoi occhi... insomma. Cos’è, ha pianto tanto delle proprie battute da consumarsi la vista? Lei come valuta la situazione? Voglio dire, con le sue pupille doppie. Tutto secondo i piani, non è vero? Bon. Può anche levarsi di torno. Ma prima prenda anche questa lettera. Abbiamo perduto un uomo. Spero che sua madre legga il tedesco. Per caso viene anche lei dall’Alta Slesia?».

«Dalla Pomerania Posteriore» disse il postino.

«Ah, Pomerania Posteriore» ripeté Willi, «e là ridono tutti cosí?».

«Signorsí».

«Ora capisco perché da voi ci sono tanti lupi».

Willi restò a guardare il postino finché scomparve dietro a un costone di bosco, quindi lesse la cartolina per la quarta volta e gridò: «Tonto!».

Il mangiafuoco alzò il testone dalla marmitta in cui stava cucinando e camminò ciondoloni fino al caporale.

«Senti un po’ la cartolina che ha ricevuto Zacharias, Tonto». Willi lesse: «Caro Pappi, spero che non ti arrabbi, è nato un maschio. Pesa tre chili e sette e strilla tantissimo. Dicono tutti che ti assomiglia. Il parto è andato bene. Tra dieci giorni vado via dall’ospedale. Sii felice! Ce l’abbiamo fatta, è quello che volevamo. Chissà se ti danno una licenza. Ti aspettiamo tutti. Ha scritto il marito di Erna, è prigioniero degli americani. Lei pensava già che fosse morto. Era tanto tempo che non le scriveva piú. Anche tu potresti scrivere un po’ piú spesso. Basta anche una cartolina. Come vuoi che chiamiamo il piccolo, Willi o Lothar? Erna dice Lothar. Ti mando un saluto con tutto il cuore, tua moglie Liesel».

«Grazie a Dio» disse l’artista mangiafuoco risollevato. «Adesso la smetterà di raccontarci ogni mattina il suo sogno. Con i pensieri era sempre di fianco al letto di sua moglie».

«Lo chiameranno Willi» disse il caporale, «proprio come me. E chissà che anche il piccolo rampollo imbocchi la carriera di sottufficiale».

«Secondo me» disse l’artista, «dovremmo fare una sorpresa a Zacharias».

«Eccome, ogni mattina la stessa storia: “Ho sognato che mia moglie metteva al mondo il bambino”. Aspetta un po’, ragazzo mio, adesso te la facciamo vedere noi».

«Devo tornare là, purtroppo, altrimenti mi brucia il cavolo».

«C’è di nuovo cavolo?».

«Però con le cotiche».

«Faresti meglio a levare il vestito alla tua Alma e ficcarla in pentola. Scommetto che è piú saporita delle maledette cotiche».

«Quando va in pensione» disse il grassone, «quando va in pensione», e tornò ai fornelli. Sollevò il coperchio e aspettò che il vapore raccoltosi sfiatasse orizzontalmente, prese in mano un cucchiaio di legno e si mise a mescolare. Nel farlo sporse la testa sopra la marmitta. Appena l’acqua riprese a borbottare, appena il fuoco la incalzò facendola sobbalzare come una trottola sotto la sferza, appena le bollicine salirono in superficie a vivere il loro breve istante di esistenza cocente – nemmeno nate, già scoppiate – Tonto rischiacciò giú il cavolo lungo i bordi muovendo vigoroso ed energico il cucchiaio di legno. E l’attacco del fuoco poté ricominciare da capo.

Senza nemmeno guardare, l’artista allungò una mano verso un ciocco da infilare sotto la marmitta, prendendolo dalla legna che Poppek era ben contento di procurargli. Per arrivarci meglio spostò un po’ la testa di lato. E trasalí. Due metri piú in là un grande ratto lo guardava con occhi placidi e neri. La lunga coda era distesa su un ciocco, ben visibile. L’animale arricciava il naso, e cosí facendo mostrava grandi denti gialli. Osservava il cuoco con un’espressione di curiosità e attesa.

Tonto sollevò cauto il cucchiaio con l’intenzione di scagliarlo contro il ratto piú forte che poteva. Ma prima che il braccio arrivasse all’altezza necessaria il roditore si era già girato fulmineo per scomparire in un buco per terra accanto alla catasta.

“Vedrai che ritorna” pensò il mangiatore di fuoco, andò a prendere la carabina che era sopra la panca fuori dal forte, caricò, si inginocchiò e puntò la canna al buco.

Non dovette aspettare a lungo. Prima scorse i denti gialli, poi i lucidi occhietti neri.

Il ratto non uscí del tutto dal nascondiglio. Il posteriore e la coda restarono invisibili.

Tonto non esitò, puntò come da manuale a uno degli occhi e premette il grilletto. Il ratto schizzò fuori all’istante dal suo nascondiglio, fece un balzo nell’aria in preda a un dolore mortifero, si attaccò con un morso a un pezzo di legno che sporgeva dalla catasta, fremendo e agitando le zampe posteriori, e di colpo ricadde a terra.

Il soldato vide allora che gli aveva fatto saltare via solo un orecchio e un minuscolo pezzo della testa. Caricò di nuovo e puntò. Il ratto fece un altro balzo in alto, sulla pelliccia ricadde del sangue rosso e pulito. Girava frenetico in cerchio raspando tra l’erba. Cercava il suo buco.

Tonto intuí quel che il ratto aveva in mente, perciò smise di puntare all’animale che si dibatteva nell’erba furente di dolore. Tenne d’occhio invece l’apertura tonda e buia davanti alla catasta, in modo da non mancare il ratto quando avesse ritrovato il suo nascondiglio. Aspettava fremente il momento in cui una pelliccia marrone lorda di sangue e terra gli sarebbe spuntata davanti a tacca e mirino, come il bersaglio mobile al poligono. A quel punto bastava premere il grilletto. Pensò: “Sempre cosí facile dovrebbe essere... solo puntare e tirare... è il bersaglio che deve cercarsi la pallottola, non la pallottola il bersaglio... allora sí che sarebbe facile... sai che bella invenzione... Willi direbbe soltanto: andate fuori a cercar piombo... ma dove si è cacciata quella maledetta bestiaccia?”

Sbirciò a sinistra e vide il roditore disteso nell’erba, abbastanza tranquillo. Era coricato su un fianco e muoveva piano le zampine. La coda vibrava come fosse traversata da piccole scariche elettriche di una batteria per giocattoli.

Il mangiafuoco si avvicinò al ratto, abbassò la canna del fucile, mirò con pignoleria e tirò. La pallottola gli sfracellò il corpo, lanciò schizzi tutt’intorno e nel punto in cui si trovava l’animale lasciò una buchetta a imbuto guarnita qua e là di resti di pelliccia e di visceri.

«Che succede, grassone?» strillò Willi all’improvviso. «Volevi pulirti lo sporco sotto le unghie a fucilate?».

«No. Lo sapeva, signor caporale, che certi ratti hanno uno sguardo umano? Ne ho appena accoppato uno. Preso in pieno. La bestiaccia mi guardava manco volesse spiegarmi come si cucina il cavolo».

«Sarebbe anche ora che imparasse. Doveva approfittarne e lasciarlo parlare. Dov’è dunque il cadavere del quadrupede?».

«Non è rimasto granché. Ciac e via. È scoppiato come la bombola di una lampada a carburo».

«Ha ancora le budella appese al bavero. Vada a pulirsi da quella roba. Spero che nel cavolo non troveremo piú carne di quella che ci ha messo con le sue mani. C’era sopra il coperchio?».

«Signorsí. La marmitta era chiusa bene. Può sincerarsene lei stesso».

«Prima mettiamo tutti i puntini sulle i, mi sono spiegato?».

Il caporale era in piedi a gambe divaricate, con le mani nelle tasche dei calzoni, davanti ai rimasugli del ratto. Sollevò piano un piede e compresse ciuffi d’erba e terra dentro la piccola buca guarnita. Quindi disse al Tonto: «Mi è venuto in mente come fare una sorpresa a Zacharias. Gli farò un bel pacchetto di carta oleata. Ma annodato bene bene. Che per aprirlo dovrà farsi sanguinare le dita».

«Vuole mettere la cartolina in un pacchetto?».

«Ma che cos’ha dentro quel testone? Verrebbe da credere che ci sia dentro benzina. Voglio dire che solleticheremo la sua curiosità. Bisogna servirgli la questione in maniera appetitosa. Credevo che lei fosse un artista! Non ha mai frequentato gente di mondo?».

«Certamente».

«Lo vede? I mangiatori di fuoco sono mezzo aristocratici. Non se ne vanta sempre anche lei? E i sottufficiali sono i gonfaloni della società. Non è d’accordo?».

«Assolutamente sí» disse Tonto.

Il caporale si voltò, andò alla panca e sedette. Dentro la sua prigione bollente, il cavolo premeva piano contro il coperchio che iniziò sommessamente a sbatacchiare. L’artista ci posò sopra un ciocco e quello tornò subito a tacere.

«Ah!» gridò Willi all’improvviso, «e la tua Alma dov’è?».

«Giú alla latrina».

«L’hai educata bene».

«Credo stia cercando l’oro».

«Buona fortuna».

«Quando ne avrà trovato abbastanza vogliamo fonderlo in lingotti».

«Quando pensa di fare un altro uovo?».

«Prima deve riempire il caricatore».

«Ben detto. E i vostri numeri artistici li capisce?».

«Meglio di un cane».

«Credevo che le galline fossero gli esseri piú stupidi».

«Le altre sí, ma non la mia Alma».

«Le manca solo di insegnarle a predicare e poi ci reciterà il Vecchio Testamento a suon di coccodè».

«Piú avanti sicuro. Per ora ci esercitiamo sui salti».

«Magari un giorno potremo impiegarla come aereo postale. Tra una decina d’anni, intendo».

«Resteremo qui ancora cosí tanto?».

«Resteremo qui per sempre, Tonto. E se anche vengono a tirarci fuori di qua, non riusciremo ad abituarci a nessun altro nido. Chi ha inghiottito le paludi di Rokitno non le sputa piú. Chi ha respirato quest’aria una volta, gli resta incastrata dentro i polmoni per sempre. Non ce ne liberemo piú, mai piú. Questa terra ci perseguiterà dappertutto. Può credere a quel che le dice il suo caporale; lui ci ha riflettuto bene sopra. Si è spremuto le...».

Willi interruppe il discorso; davanti al forte era improvvisamente comparso Zwiczosbirski. Nessuno lo aveva visto arrivare, era spuntato come se fosse emerso da un pozzo nascosto. Lo spilungone si rese conto che la sua apparizione improvvisa doveva come minimo aver confuso gli altri, e sorrise affabile. Aveva l’aria stanchissima, una gamba dei pantaloni strappata, la casacca dell’uniforme fradicia sul petto. Si era messo la carabina di traverso sulla schiena; in una mano reggeva l’elmetto di acciaio, nell’altra un mitra russo. Aveva i capelli appiccicati sulla testa.

«Venga subito qui» ordinò Willi.

Gamba ubbidí. Si avvicinò alla panca e posò il mitra ai piedi del caporale. Aveva la stessa espressione docile di un cane che riporta al padrone il pezzo di legno scagliato lontano, fiducioso di ricevere la sua gratitudine.

«Dov’è stato?» domandò Willi.

«E bene, adesso sono tornato» disse gioviale lo spilungone.

«Voglio sapere dov’è stato. Lei si è allontanato dalla truppa senza permesso. Se ne rende conto?».

«Ma io ho portato...».

«Tenga la bocca chiusa, che le entrano i moscerini nei polmoni. Lo so che è rimasto molto male per la morte di Stani. Ma questo non è un buon motivo per stare via dodici e piú ore dal forte. Si immagina se lo facessero tutti? L’avverto che riferirò la cosa a Tamaschgrod. O forse no, devo ancora decidere. Se torna in carreggiata possiamo anche sistemare la cosa. Per questa volta ancora non la fucileremo. Ma adesso mi spieghi dove si è cacciato per tutto questo tempo. Quello è un mitra russo. Dove l’ha trovato?».

«Botino di guerra, signore».

«Bottino, vuol dire?».

Ciondolando, Tonto si avvicinò senza dare nell’occhio per ascoltare meglio l’interrogatorio.

«Signorsí. Mitra è botino. Quando stato sepelito povero Stani ho avuto sensazione che sta sepelito mio corpo».

«Ah» fece Willi, «ha avuto questa sensazione».

«E bene sí. E a improviso tutto diventava schwistko jedno: indiferente. Testa non ha piú saputo direzione che marciano piedi. In testa è stato grosso zirco e io prendevo fucile e andavo a fiume grande».

«E si è fatto un bel bagno rinfrescante, o cosa?».

Gamba fece un gesto indispettito con la mano.

«I wo» disse, «ho ascoltato acqua, e quando ho finito di ascoltare già veniva notte. E bene cosa ho fatto allora? Sono sgataiolato a strada ferata. Era tutto grande buio e nessuno poteva me vedere. Come sono lí sdraiato su strada ferata, mitra dice ta-ta. Dopo poco ancora ta-ta. Aspettavo e aspettavo. Di improviso sono venuti due uomini con mitra. Sono stati zitti, ma io avevo già visto. E quando è arrivato vicino... e bene ho fatto io due volte: ta-ta, e fine di tutto. Qua è mitra».

Lo spilungone guardò dalla parte di Tonto e disse sorridendo: «Ho molto fame, posso mangiare due panini di rancio, adesso? Ginocchia trema già. Diventavano molle come pasta di pane».

«Gli dia qualcosa da mangiare» ordinò il caporale scuotendo la testa.

Tonto e Gamba scomparvero dentro il forte.

«Posta è arivata?» chiese lo spilungone mentre andava al tavolo.

«C’è qualcosa anche per te» disse l’artista.

«Dove? Dai qua. Subito devo leggere».

«Aspetta un momento. La sai l’ultima?».

«Come faccio di sapere cosa è successo in Gleiwitz se non sono qui?».

«La moglie di Zacharias ha avuto un bambino!».

«Ah, moi Jesus, ma questa grande felicità! Cosí non sogna piú troppo di quello. Ha sognato sempre di piccolo bambino che nasce. È bellissimo, no? Lui ha già conosciuto grande notizia?».

«No. Willi ha avuto un’idea. Vuole fargli una sorpresa».

«Cosa ha pensato?».

«Quel che ha pensato non lo so. Ma deve essere qualcosa di buono. Formaggio non posso dartene, è per domani sera».

«Sst, non strombacci cosí forte. Il Pandilatte e quel nuovo dormono».

«Tanto non sentono niente».

«Non si sa mai. Dove è posta per me?».

«Tieni, un pacchetto e una lettera».

«Lettera ha scritto mio padre, e pachetto... pachetto è anche di mio padre».

Andando verso la branda lo spilungone lanciò un’occhiata alla faccia dei due soldati che dormivano, poi si sedette e cercò di aprire il pacchetto. Tirò con i denti lo spago, che però non cedette. Provò a sciogliere il nodo con la punta delle dita, ma quello non si arrese. Preso dall’impazienza, Gamba tirò fuori di tasca l’accendino, lo fece scattare e lo mise sotto lo spago. La fiamma lambí le fibre, le tese e le sfilacciò, quindi attecchí, e quando il soldato diede uno strattone lo spago si spezzò in due. Gamba lo strappò via e svolse la carta. Apparve man mano alla vista una scatola di lampadine Osram; mentre l’apriva e ne rovesciava il contenuto sulla coperta lo slesiano schioccò la lingua per la contentezza. Davanti a lui c’erano due robuste lenze da luccio con il cartellino del prezzo ancora attaccato, due galleggianti rossi e bianchi cosí grandi e pesanti che nessuna esca viva avrebbe potuto scuoterli granché dalla quiete; in piú Gamba trovò anche quattro piombini per zavorrare la lenza, un cucchiaino con gli ami celati da piume rosse e una mosca artificiale che valutò subito inutile ai suoi scopi.

“Pozekai lo” pensò. “Adesso aspetti solo padella. Questa lenza tu non puoi spezzare, questa no. Adesso vediamo chi è piú forte. Io sono piú vecchio di te, e piú furbo. Aspetta solo, signor Luccio! Padre ha me capito dobschä. Solo mosca artificiale non serve niente, perché ami sono troppo piccoli. Ma cuchiaino è buono. Quando tu hai lui in bocca, padella è già calda”.

Ripose gli attrezzi da pesca nella scatola Osram e la infilò sotto il cuscino. Quindi si alzò, sfilò i calzoni, ispezionò il danno e decise che avrebbe ricucito lo strappo prima di pranzo.

Poppek disse: «Fermi! Lo abbiamo portato lontano abbastanza. Mettiamolo giú».

«No, posiamolo là davanti» disse Zacharias. «Sotto i rovi».

«Ma lí rimane vicino alla strada privata».

«Non importa. Tanto noi al fiume non scendiamo quasi mai».

«Va bene. Almeno non rischieremo piú di perderci. Certo che come pietra miliare è ben strana, eh?».

Trascinarono il cadavere del prete dinamitardo oltre una radura e lo depositarono vicino ai rovi. Aveva i lineamenti sereni, rilassati; sembrava contento di quello che gli era capitato. La ferita sul petto, da cui era fuoriuscito il proiettile, non sanguinava piú; gli occhi erano serrati; da un angolo della bocca si riversava sul mento floscio un rivoletto d’acqua del fossato. Niente lasciava pensare che l’uomo sopportasse il suo stato, ossia la morte, con contrarietà. Tranne le mani, a dire il vero, che avevano invece un aspetto contratto. Le dita erano ricurve come per trattenere un pensiero che era appena venuto in mente al prete. Perciò le mani e il volto erano in singolare contrasto fra loro; le une rimandavano ancora alla vita, mentre l’altro mostrava già i segni di una equanimità superiore, il conforto precoce di una condizione giunta anzitempo.

Zacharias se ne accorse, e mentre tutti e due guardavano il morto a terra, disse: «Sembra che le mani cerchino di aggrapparsi a un ramo. Guarda».

«Voleva tirar fuori di tasca i candelotti» disse Poppek.

«Ma se non ne aveva».

«Ne sei tanto sicuro?».

«Willi ha detto che forse si era sbagliato».

«Non cambia niente. Quel che è fatto è fatto. Con le pallottole non si scherza. Ti dispiace per lui?».

Zacharias si chinò e giunse le mani del prete sul petto.

«Forse non era giusto» disse.

«Vuoi dire che morisse?».

«Sí».

«Perché, secondo te era giusto che nascesse? Cosí come non possiamo rifiutarci di venire al mondo, nemmeno abbiamo il potere di prolungarci la vita quanto ci pare. Ecco perché secondo me non serve piangere i morti piú dei non nati. Se vuoi offrire la tua pietà a quest’uomo, tanto vale che compiangi il bambino che vuole darti tua moglie. Guarda il prete. Puoi pestargli una mano e non sente alcun dolore; puoi strappargli tutti i denti, senza iniezione, senza anestesia, e non fa una piega. Quest’uomo in teoria non c’è piú, lo capisci? È bell’e che andato, puff, scoppiato. Non puoi chiamare palloncino un pezzetto di gomma».

«No, certo. Hai ragione, però...».

«Che vuol dire, però? Dobbiamo liberarci da certe idee. Se trovi un uccello morto non pensi certo alle canzoni che cantava prima. In realtà non vedi altro che una scorza inutile. Quando guardi in faccia tuo padre morto, invece...».

«Adesso basta» disse Zacharias, «falla finita! Io la penso diversamente. Sei freddo come un pezzo di ghiaccio, tu. Prendilo su, piuttosto, portiamolo un po’ piú sotto ai cespugli».

«Tu sogni troppo di tua moglie» disse Poppek, e si chinò.

Tirarono il morto piú addentro nella sterpaglia, lo distesero sulla schiena e spezzarono dei rami per coprirlo in modo da nasconderlo alla vista di chi passasse di lí, a meno che non fosse arrivato un vento tanto forte da scompigliare quel nascondiglio verde lasciando scoperto il cadavere.

Poi i due soldati tornarono sul viottolo che chiamavano strada privata. E dopo essersi lanciati alle spalle un’ultima occhiata si incamminarono uno dietro l’altro con i fucili pronti a sparare appoggiati sull’anca, nella direzione in cui avrebbero incontrato il fiume.

Il mattino ancora giovane si allungava ignaro sopra la palude, spazzando il paesaggio sereno con divertita sventatezza.

Spazza, bimbo stolto, spazza

il mattin con la ramazza;

presto scenderà la notte

e ti riempirà di botte.

L’acqua scorre, scorre, scorre.

Essere una volta soltanto elemento, acqua o terra, e per di piú saperlo, che si è un elemento. Essere acqua: portare con pazienza sul dorso le navi, il fratello; avere per casa mille case; essere elemento, non solo per sentirsi acqua, ma per trascinare via i ponti dell’inconciliabile; scorrere avanti, farsi piú grandi e piú calmi; portare la quiete nel mare, nel mondo. Il silenzio è buono, e buona è l’umiltà. Va’, fratello, vai all’acqua; guarda in basso. Fatti elemento! Abbandona la lingua del denaro, le parole di deliberato inganno, i gesti impomatati della vanità. Getta via il pregiudizio come una scarpa stretta. Ci incontreremo, fratello, quando tu sarai me e io te; quando porteremo i fratelli sulle spalle, quando tu mi vedrai con i miei occhi e io con i tuoi, quando tu sentirai con le mie orecchie, quando tu e io avremo un cuore comune; ci incontreremo, fratello quando saremo diventati elemento, acqua o terra, e quando sapremo di esserlo.

Poppek si fermò di colpo davanti a una betulla e disse: «Guarda com’è venuta su bella questa. Voglio stringerla fra le cosce».

«Adesso? Il Tonto ti ha chiesto altra legna da ardere? Ma se ne ha ancora due cataste».

«Dopo possiamo lasciarla qua per quando ci servirà».

«A me dispiace rovinare gli alberi giovani» disse Zacharias. «Gli spezzi la punta e basta».

«Manco se ne accorgono».

«Lo pensi veramente?».

«Puoi avvolgergli sulla ferita la benda del tuo pacchetto di primo soccorso, se vuoi».

«Lascia stare la betulla, Helmut».

«E perché?».

Nella voce di Zacharias c’era un che di minaccioso. Fece qualche passo indietro e ripeté: «Lascia stare la betulla, ti ho detto. Se la tocchi te la devi vedere con me!».

«Hai intenzione di farmi fuori?».

«Tieni giú le mani da quell’albero!».

«Ma lo sai quant’è importante per me».

«Non mi importa. Se uccidi questa betulla finisce male» disse Zacharias deciso.

Poppek si piazzò davanti, sorrise debolmente e parlò: «Che sei un sentimentale lo sapevo. Ma non credevo che lo fossi cosí tanto. Sarà che sogni cosí spesso di tua moglie e del bambino. Nel letto matrimoniale la sentimentalità cresce che è un piacere. Il vostro letto dev’essere bello morbido, eh?».

«Un’altra parola e...».

«Per caso qualcuno sta per arrabbiarsi? Dai che lo lascio vivere, l’albero. Dobbiamo scendere al fiume. Magari riusciamo anche a farci un bagno di straforo, oggi verrà un caldo tremendo».

Helmut diede qualche pacca grossolana sulla schiena del soldato piú anziano, gli fece un cenno d’intesa con la testa e partí risoluto. Zacharias lo seguí a una certa distanza.

Giunti al fiume si fermarono muti uno accanto all’altro. Proseguire non potevano, a meno di cambiare direzione. Restarono a guardare l’acqua in silenzio, osservando uno l’immagine riflessa dell’altro.

“Sembra strappato” pensò Zacharias.

“Ha la faccia liquidata” pensò Poppek.

Sedettero e tolsero gli elmetti. Zacharias si asciugò il sudore dalla testa calva con il fazzoletto e scompigliò la corona dei capelli fra le dita.

«Facciamo pace?».

«Perché, eravamo in guerra?».

«Ti va una sigaretta?» chiese Poppek.

«Sí. Ho scordato le mie. Fa un caldo boia».

«Dopo sarà ancora peggio. Secondo te uno con la pelata rischia di prendersi un colpo di sole piú di uno che sulla crapa ha una foresta?».

«Vuoi far lo spiritoso sulla mia piazza, o cosa?».

«Che Dio mi scampi! Mi interessa sul serio. Il fatto è che ho un debole per i pelati. E lo sai perché?».

«No».

«Non puoi saperlo. Una volta ho letto di uno che ha avuto l’idea di affittare le crape pelate come spazi per la pubblicità».

«E allora?».

«Non ho piú smesso di pensarci. Quando la guerra finisce – prima o poi dovrà pur finire – magari si riesce a cavarne qualcosa. Noi due, per dire, potremmo buttarci in affari insieme. Io faccio il tuo capo: direttore dell’ufficio di pubblicità».

«E io cosa dovrei fare?».

«Sta’ a sentire. Dopo la guerra bisognerà tornare a fare réclame, per i rottami di primissima qualità, il sapone RIF – pensa alle scorte gigantesche da smaltire – e ovviamente per una nuova guerra. Che ne dici se scriviamo sulla tua pelata qualcosa come: Corso per corrispondenza per donatori di sangue, o: Come intrattenere le signorine sul divano, o: Smacchiatevi la coscienza con le granate ovalari Hempel. Richiedete campioni e opuscoli. Naturalmente dovremmo convincere un paio di aziende che è una buona idea. Ma se tutto va per il verso giusto diventiamo ricchi. Tutto quel che devi fare tu è girare per zone trafficate».

«E tu incassi».

«Io mi occupo di eliminare la concorrenza».

Zacharias sorrise e si accarezzò la testa lucida con patriarcale compiacimento.

«Niente male, niente male. Tanto per cominciare, allora, vediamo di riportare a casa l’attrezzo sano e salvo. Nel frattempo però mi andrebbe un bel bagnetto. Cosí restiamo freschi tutto il giorno. Vieni anche tu?».

«Certo. Ma non credi che è meglio se entriamo in acqua a turno? La sicurezza innanzitutto».

«Non abbiamo tantissimo tempo. E poi chi vuoi che ci sia da queste parti? Su, spogliati. Un tuffo e via».

Un tuffo e via!

I due si liberarono in fretta dei vestiti, allungarono nudi il collo per controllare che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, si esaminarono critici l’un l’altro e incespicarono verso l’acqua.

Un tuffo e via!

«Ciaff» disse il fiume primordiale quando picchiarono l’acqua con i piedi. Il sole aveva lasciato sperare troppo: l’acqua era piú fredda di quanto si aspettavano. Ancora un passo: dentro fino al ginocchio. Dal fondo si sollevarono delle bollicine d’aria, risalirono tremolanti il polpaccio, giunsero in superficie e morirono.

«Brrr» fece Poppek e batté la stecca con le dita.

«Il fondo è melmoso» si lamentò Zacharias, «ma un po’ piú giú c’è sabbia».

Fece una smorfia, mosse la pelle del cranio. Trovava anche lui che l’acqua fosse fredda. Immerse cauto le mani, batté l’acqua e la smosse, si accovacciò piano, e quando si rialzò tremante si ritenne rinfrescato a sufficienza da potersi staccare dal suolo. Con forza e determinazione raccolse il corpo, balzò nell’aria per mezzo secondo, durante il volo, o meglio la caduta, puntò le mani davanti alla testa e scomparve sott’acqua. Quando riaffiorò si girò sul dorso e batté i piedi cosí da sembrare sospinto da un motore fiacco. Lasciatosi alle spalle a quel modo un terzo della larghezza del fiume, si fermò e guardò indietro verso Poppek che con una mano stava aggrappato a un arbusto di salice e con l’altra si bagnava prudente il petto.

«Vieni o no?» gridò Zacharias, «quando sei dentro è piú calda».

Poppek non rispose.

«Devo venire a prenderti?» gridò di nuovo Zacharias, ma poi si girò e nuotò verso il centro.

Di colpo dall’altra parte del fiume un mitra levò la sua voce secca e metallica. I colpi arrivarono ronzando, veloci come uccelli di fiume, e si infilarono frinendo sotto la superficie, sollevando in aria piccoli zampilli rabbiosi. Ratatatà-cic-ciac, pss-cic.

Un tuffo e via!

Helmut saltò subito a riva e si buttò nell’erba, accanto ai vestiti. Sollevò la faccia e urlò: «Sott’acqua! Sta’ giú!».

«Ratatà» disse l’eco.

«Giú la testa, Zacharias!» Helmut imbracciò il fucile, accostò il calcio. Com’è oleosa, dura e caparbia la canna sotto le dita! I colpi venivano da là, fra le canne. Lo scostò di nuovo. Con i polmoni sotto sforzo: «Sta’ sot-to. Za-cha-ri-as!».

Là fra le canne. Avanti, spara. Nel caricatore ci sono ancora ventotto pallottole. Fuoco continuo. Su, spara. Spedisci in viaggio ventotto pallottole. A cercarsi un bersaglio. Il calcio schiacciato contro la spalla nuda; punto di resistenza. Tira; là fra le canne. Tutte e ventotto. Svelto, il grilletto è impaziente; ha una gran sete di morte. Poppek tirò, e le pallottole saettarono al di sopra dell’acqua e radettero le canne sull’altra sponda.

Ancora una sventagliata. Tutte e ventotto. Che altro aspetti? E i colpi lasciarono la bocca e rasarono le canne.

«Za-cha-ri-as!».

Helmut saltò in piedi, poteva permetterselo; era dietro un arbusto.

Di Zacharias nemmeno l’ombra; si era immerso sott’acqua, senza lasciare traccia; se non era per gli abiti abbandonati, niente indicava che fosse mai stato là.

“Starà nuotando sott’acqua, ha seguito il mio consiglio... mi ha capito bene... presto sarà qua... fuoco di copertura... devo inserire un altro caricatore... là tra le canne... un bossolo fra i piedi... calcialo via... perché ancora non arriva? ...ormai dovrebbe essere qua... speriamo che la corrente non lo porti troppo lontano...”.

Gli occhi di Poppek seguirono la corrente del fiume, a un tratto vide, già a grande distanza, una mano affiorare un istante e subito riaffondare. Dopo un po’ scorse anche qualcosa di chiaro, ma di nuovo solo per la durata di un lampo; e allora strinse i denti travolto da un dolore mostruoso; perché la cosa chiara intravista là in fondo gli aveva ricordato la bella pelata da réclame di Zacharias. Abbassò la testa e sentí i propri colpi, dagli echi ormai spenti da un pezzo, stridere al di sopra del fiume.

Un tuffo e via!

Sull’altra sponda restò tutto immobile. Il fiume, faccia di tolla, spingeva zitto la sua acqua al mare, passava prati e boschi svettanti, passava i seni granitici dei ponti, passava le piccole e grandi città, passava, passava.

Un uomo sognava sua moglie.

Acqua passata.

Sognava un figlio, la soffice chioma che gli stava tutta nella mano aperta; il pugno da bambolotto che lo picchiava sul naso e sulle guance.

Acqua passata.

Uno che si era messo di mezzo per salvare una betulla, serio, con parole minacciose.

Tutta acqua passata: il fuoco scaturito dalle labbra, i desideri sgorgati dagli occhi; la tenerezza, la fedeltà incrollabile e l’angoscia nel petto. Solo la coscienza non inaridisce, questo fiero, aspro paesaggio di giustizia, questo fortino contro il rimorso.

Helmut infilò svelto i vestiti, abbottonò alla meglio calzoni e casacca, si fermò incerto un istante come non sapesse bene che decisione prendere, quindi si chinò, raccolse gli abiti e il fucile di Zacharias e si mise a correre piú forte che poteva verso il forte.

Lo sforzo gli arrossava il volto. Il terreno acquitrinoso mugugnava sotto le suole.

Corri, corri dagli altri, a raccontare quello che hai visto e sentito. Oltre la betulla che le tue cosce aspettano, al cui collo vuoi appenderti, che cerchi per sostituire l’avventura vertiginosa della carne. Là dev’essere il prete, il gesucristo imbottito di dinamite. Lo vedi che come pietra miliare funziona? È un’indicazione stradale infallibile.

Direzione Morte passando per Voglia di vivere 2,4 chilometri.

Non si può sbagliare, niente svolte, deviazioni o vie traverse. Chi di gran passo, chi tentennando, arrivano tutti là.

Quando il caporale vide Poppek traversare in equilibrio precario la passerella di ontani davanti al forte, lo chiamò.

«Ehi, Poppek! Che succede? Corre come se le avessero infilato una miccia accesa nel sedere. Se ha intenzione di esplodere faccia il piacere di restare al di là del fossato. Non venga a mettere in pericolo i miei uomini. Mi sembra una furia a cavallo. Cosa le prende?».

Helmut risalí l’altura, si fermò spossato davanti a Willi e guardò l’uniforme di Zacharias.

«E quella cos’è? Il suo amico è entrato in un club di nudisti? Non ce la faceva piú ad aspettare la nascita del figlio, eh? Dove si è cacciato Zacharias? Quella è la sua uniforme. E il suo fucile!».

Helmut fece per dire qualcosa; schiuse le labbra, inspirò a fondo, guardò il fagotto di vestiti sotto il braccio e tacque.

«Il gatto le ha mangiato la lingua? Voglio sapere dov’è Zacharias. Non si sarà mica dissolto nell’aria?».

«Signor caporale» disse Helmut a fatica.

«Lo sono da sette anni. Non mi sta dicendo niente di nuovo».

«Zacharias... è... morto».

«Le è venuta la mattana delle paludi?».

«Zacharias è morto, ucciso, affogato».

«Cosa cosa cosa? Ucciso, affogato, morto? Tonto!».

«Signorsí».

«Venga un po’ qua, c’è un segreto da scoperchiare».

«Un minutino, do una girata al cavolo e...».

«In malora il suo stupido cavolo! Le ho detto di venire qua!».

«Eccomi, eccomi».

«Allora, Poppek: adesso mi faccia il piacere di parlare come una persona di senno. Ricordi che sono il suo caporale. Che cosa è successo a Zacharias?».

«Zacharias è morto».

Willi puntò l’indice sul petto di Poppek e disse: «Aspetti. Questa la devono sentire tutti».

Si sporse sull’entrata del forte e gridò all’interno: «Il Pandilatte e Krospa... o come diamine si chiama! All’appello! Avanti, avanti. Uscite dai sogni! Mollate quelle femmine!».

Di lí a poco dopo i due comparvero davanti alla panca dove Helmut nel frattempo aveva posato i due fucili e l’uniforme di Zacharias; poco dopo arrivò anche Gamba.

«Ascoltate!» ordinò il caporale, e: «Riferisca!».

«Faceva un caldo boia» raccontò Poppek.

«Non è un buon motivo per morire» disse Willi.

Poppek proseguí: «Faceva caldo e volevamo rinfrescarci. Zacharias ha nuotato subito in fuori».

«Tipico».

«È arrivato neanche a metà del fiume che dall’altra parte hanno sparato con un mitra. Di colpo Zacharias è sparito e io ho pensato che sarebbe tornato a riva nuotando sott’acqua. Dopo l’ho visto. Lo trascinava la corrente. Era morto».

«Non è che si sbaglia?».

«No. Gli ho visto la mano e la testa pelata».

Il caporale disse: «Non capisco come fa a distinguere tanto in fretta la pelata di un vivo da quella di un morto. Lei che ne dice, Tonto?».

«Non ho mai avuto la possibilità di fare un confronto».

«A che le servono gli occhi, allora?».

A quel punto si intromise lo spilungone Zwiczosbirski, che fino ad allora era rimasto ad ascoltare l’interrogatorio a bocca aperta, e disse: «O moi Jesus! E bene che lui sempre ha sognato di piccolo bambino e adesso piccolo bambino è qua e Zacharias no. Neanche ha potuto leggere di sorpresa. O moi Bose! Dobiamo prendere fucile e...».

«Chiuda la bocca» ordinò il caporale. «Qui decido io chi fa cosa. È chiaro? Adesso telefono a Tamaschgrod. Cosí non si può andare avanti. Se non diamo una batosta a questi gallinacci di palude fra sette giorni qua saremo tutti morti. Ieri Stani, oggi Zacharias. Tonto!».

«Signorsí, signor....».

«In quanti giorni è stato tirato su il mondo?».

Proska e Pandilatte si scambiarono un’occhiata.

«Per quel che so io» disse l’artista, «in sette giorni».

«Lei è un uomo istruito, l’ho sempre detto. E tra sette giorni per noi un mondo non ci sarà piú. Ecco quanto si lavora alacri qua. Sette giorni per costruire, sette per demolire. Quel che fanno con noi è demolire. Mi avete capito? Allora bon. Vado a telefonare».

Willi entrò nel forte, tutti lo guardarono muti staccare il ricevitore dal telefono da campo, girare la manovella e ascoltare attento, con postura irrigidita. Il telefono non emise alcun ronzio. Il caporale girò ancora una volta la manovella e premette piú forte l’orecchio contro il ricevitore, ma di nuovo senza esito.

Tonto disse: «Sembra che il signor caporalmaggiore... stia ronfando della grossa».

Il caporale buttò giú il ricevitore, si girò e disse furibondo: «Lei non ha mica tutte le rotelle a posto, sa? I suoi superiori non ronfano, ma riposano. Siete voi quelli che ronfano, dannata banda di ronfatori! Devo tenervi piú occupati, ecco cosa! Lei, Ello, sabato appianerà la latrina. Crede di poter mettere in ridicolo i suoi superiori perché mangia il fuoco? Be’, si sbaglia di grosso. La linea è tagliata. Non si sente nemmeno crepitare. Questi maledetti tangheri fanno con noi quello che gli pare. Adesso siamo pure tagliati fuori. Opekta! Sí, intendo lei».

«Mi chiamo Proska».

«Ah. Credevo si chiamasse Opekta. Conosce l’Opekta? La polverina per fare le marmellate? Bon, non importa. Allora, Proska: lei è capace di rappezzare un cavo del telefono?».

«Signorsí».

«Bene. Si prepari alla svelta e vada a riparare il danno. Prima si faccia dare del cavolo dal Tonto. E voi, Kürschner, Poppek e Gamba, voi uscirete di ronda in pattuglia rinforzata... ma che non vi venga in mente di buttarvi in acqua o farvi ammazzare! Chi si fa ammazzare verrà punito. Farsi ammazzare è un’imbecillità, e l’imbecillità non mette al riparo dalle punizioni. Chiaro? Anche lei, Cip-cip-cip? Voglio sapere se mi ha capito».

Zwiczosbirski guardò il caporale con astio, di colpo gli andò vicinissimo, tanto che i soldati credettero che l’avrebbe steso, e senza cambiare espressione disse: «Ho capito molto bene. Se io ricevo fatto piccolo buco di palottola, io vengo a lei con saluti da morte. Magari morte dà a me anche piccolo pacco per lei. E bene, possiamo solo aspetare. Nessuno sa cosa che viene».

Il caporale ridacchiò e ribatté: «Santo cielo che spiritoso. Per caso ha incontrato in giro il postino?».

«Incontrato no» disse Gamba, «ma annusato con naso».

«Meno male, mi sento piú tranquillo. Se però dovesse iniziare ad annusare con i denti e mordere con il naso, venga a riferirmelo. E adesso rompete le righe e andate a mangiare. Io devo ancora scrivere una cosa... alla moglie di Zacharias».

I soldati raccolsero le loro ciotole, si fecero scodellare del cavolo dall’artista testone, si cercarono un posto – Poppek sedette sulla panca, Gamba scese al fosso, Proska e Pandilatte restarono vicino al focolare – e dopo aver frugato a lungo nella broda in cerca di un pezzetto di carne presero a sorbire gli stracchi filamenti di cavolo.

Proska cercò quattro ore prima di scoprire il punto in cui la linea telefonica era stata tranciata. I due capi si trovavano a venti metri buoni di distanza; a quanto pareva i sabotatori avevano semplicemente sottratto quel pezzetto. Lui però per sicurezza si era portato dietro una bobina di cavo; cosí lo srotolò, rimpiazzò il tratto mancante, congiunse le estremità, le isolò e infine si riposò fumando una sigaretta su un tronco abbattuto da una bufera. Lo circondava un silenzio verde, umido, che alla lunga infiacchiva e invitava al riposo. Proska ebbe la sensazione che il silenzio lo stesse lentamente narcotizzando; non voleva pensare a nulla, sentiva il suo collo muscoloso privo di forze, cosí spossato da riuscire a stento a sorreggergli la testa. Le vene si gonfiarono, le larghe mani rossastre erano diventate molli e ancora piú larghe. Non faceva in tempo ad asciugare il sudore dalla fronte bassa con il fazzoletto che era fradicia da capo. Le piante dei piedi gli bruciavano e le ginocchia gli tremavano leggermente; aveva le mutande fastidiosamente appiccicate al sedere.

Guardava apatico il calcio del fucile che premeva con tutto il peso nella terra molle, facendo affiorare un incospicuo anello d’acqua intorno alla piastra metallica. L’occhio della canna guardava innocente il cielo.

Davanti a lui si estendevano un ampio canneto fiancheggiato sui due lati da cespugli e alberi, dietro di lui svettavano vecchi ontani già un po’ pericolanti e rovi carichi di more. Mentre Proska sedeva vinto da una calura e una stanchezza spietate, suo cognato Kurt Rogalski a Sybba presso Lyck inforcava gli occhiali rotti sul naso carnoso popolato di peletti biondi, si infilava un dado di pancetta magra fra le labbra, prendeva un ultimo sorso dalla tazza di caffè e spariva dietro il giornale, il cosiddetto «Messaggero della Masuria». Lo leggeva per bene, meticoloso, parola per parola. Non si lasciava sfuggire nulla, del resto nel suo cranio enorme lo spazio non mancava. In fin dei conti lui il «Messaggero della Masuria» lo pagava, e uno non dà via i soldi per niente, vuole avere qualcosa in cambio, fossero anche solo notizie invece che vitelli o porcellini.

Si aprí la porta.

«Maria» grugní da dietro il giornale.

«Sí?».

«Mi sa che viene il brutto».

«Vuoi dire che domani piove? Eppure le vacche fanno ancora la merda dura».

«No» disse lui senza alzare lo sguardo al di sopra del foglio, «parlo della guerra. Sono sempre piú vicini. Mi spiace già per le oche e i cavalli».

«Quali oche? Le nostre?».

«Ma certo. Cosa credi, quelle di Schliebukat? Se si avvicinano ancora dobbiamo macellare».

«Ma va’» disse lei prendendo in mano la tazza, «non ci pensare. Ancora non siamo a quel punto. Non è nemmeno tornato il Walter. Dopo che viene abbiamo ancora tempo. Almeno ci può aiutare».

«A macellare sí, ma non a mangiare tutta quella roba».

«Vuol dire che metterò la carne sotto vetro. Cosí ne abbiamo per piú tempo».

Lui gettò il giornale su un antiquato tavolino ad angolo, si alzò e disse: «Mi viene voglia di cancellare l’abbonamento al giornale. Uno gli dà dei bei soldi e tutto quel che riceve sono cattive notizie. Vado a dar da bere ai cavalli».

«Sí, va’ pure. Chissà se torna, il Walter».

Sul tronco mozzo, Walter Proska ebbe la sensazione improvvisa che gli avrebbero tagliato la testa, e con un’operazione molto prolungata e dolorosa. Aveva sentito qualcosa di caldo ed esile cingergli il collo e la morsa farsi sempre piú stretta, ma non tanto da rendergli difficoltoso il passaggio dell’aria. All’inizio non osò muoversi, temendo che la presa si sarebbe fatta cosí salda da non lasciargli piú tempo per registrarla. Aveva paura che il movimento piú innocuo avrebbe potuto costargli la pelle.

Poi però il presente tornò a esplodergli dentro, i muscoli si tesero e il bruciore alle piante dei piedi fu dimenticato. Si rese anche conto che la morsa strangolante che nel torpore lo aveva tanto spaventato non era altro che una mano. Sbirciò cauto in basso, verso il fucile: ce l’aveva ancora lí accanto. Con uno sforzo sovrumano balzò in piedi impugnando il mitra, si girò ancora in volo di 180 gradi e puntò la bocca della canna su...

«Te l’ho detto che ci saremmo rivisti, Walter. Non mi riconosci? Non ricordi, sul treno? Il tuo camerata voleva spararmi, la guardia. Non era gentile con me. Come sta?».

«Scoiattolino» disse lui guardandola sbigottito.

«Ti ho tanto sorpreso?».

Lui abbassò la canna del fucile.

«Bisogna sempre essere pronti per le sorprese, Walter».

«Falsa come una serpe» disse lui a denti stretti.

«Una serpe?» chiese lei sorridendo. Indossava lo stesso abitino verde foglia che portava in treno, i seni erano ancora provocanti e la vita stretta come una clessidra.

«Volevi far saltare per aria il treno. I denti di tuo fratello non sono diventati cenere. Sembravano piuttosto candelotti di dinamite».

«Devi esserti sbagliato» disse lei.

Lui non si mosse, la guardò fisso e disse: «Dovrei spazzolarti la pelliccia a suon di pallottole, scoiattolino!».

«Hai intenzione di spararmi?» chiese lei dal basso.

«No. Che ne ricaverei».

Wanda fece un passo verso di lui.

«Fermati lí!» ordinò Proska. «Perché non sei tornata? Il gendarme se n’è andato alla svelta. Ti ho aspettato».

«Avevo troppa paura».

«Lo sapevi che dentro la brocca c’era dinamite?».

«È successo qualcosa al treno?».

«Non mi pare» disse lui ironico, «altrimenti non sarei qua, no? Nel vostro paese è girata voce di un incidente?».

«Sí».

«Sei venuta a cercare tuo fratello?».

«No».

«E chi, allora?».

«Te!».

«E come sapevi che ero qua?».

«Me l’ha detto un uccellino. Che ti ha visto».

«È la verità?».

«Posso leggere ancora la tua fronte?».

«È una tregua di cui non mi fido. Sei qui da sola?».

«No».

Proska si girò di scatto a guardare intorno su tutti i lati. Chiese: «Chi altro c’è?».

«Tu» rispose lei. Si sedette sul tronco dove prima era seduto lui, accavallò le gambe e lo guardò sorridente.

Proska pensò: “Forse è davvero inoffensiva... i candelotti potrebbe averli messi nella brocca anche un altro... è possibile che non ne sapesse nulla... non posso accusarla di niente... peccato che non ci sia qua Wolfgang... d’altra parte è anche meglio cosí...”.

Il suo sguardo la trafisse come un proiettile. Le chiese: «Eri qua ad aspettarmi?».

«Sí»

«Sapevi che sarei venuto?».

«No».

«Per caso hai tagliato tu il cavo?».

«Sí».

«E perché?».

«Ho pensato: magari mandano a ripararlo Walter».

«Davvero lo hai pensato?».

«Sí. Ma potevi anche fare a meno di rappezzarlo. I soldati sono andati via da Tamaschgrod».

«Andati dove?».

«A ovest».

«Tutti?».

«Tutti».

Distese le gambe abbronzate, drizzò il busto e gettò indietro i capelli con una scossa della testa.

«Divertente» disse Proska.

Lei fece spallucce e lo invitò ad avvicinarsi. Proska ubbidí. Andò da Wanda con lo sguardo abbassato e sedette vicino a lei sul tronco.

«Non devi darti pensiero» gli disse lei.

«Non me ne do. Presto sarà tutto finito».

«Che cosa?» domandò lei posandogli le dita sul collo robusto.

«Tutto questo imbroglio; queste cattiverie, questa paura, queste delusioni».

«Non sei contento che sono qui con te? Io sono contenta, Walter».

Lui annuí soprappensiero, tirò fuori una sigaretta e l’accese.

«Tu sei stato gentile con me». Gli fece scorrere l’indice avanti e indietro sulla nuca. Proska teneva lo sguardo fisso davanti a sé, lei lo guardava preoccupata di lato.

«A cosa pensi?» gli chiese.

«Al Pandilatte».

«In che senso?».

«È un mio amico».

«È qui anche lui?».

«Sí. Dentro alla brocca c’erano davvero le ceneri di tuo fratello?».

«Credo di sí. Sei triste?».

«No, no».

Il volto di Proska si distese di colpo. Si voltò verso di lei, la baciò sulla guancia e le posò la mano pesante sulla spalla; le sentiva la pelle sotto la stoffa fine.

Le disse: «Ti ho già vista qui in giro una volta».

«Lo so» ribatté lei, «al fiume».

«Come fai a saperlo? Allora sei davvero una veggente, Wanda».

«Ho sentito la tua voce. Chi ha sparato al parroco di Tamaschgrod?».

«Willi».

«Chi è Willi?».

«Il nostro sottufficiale. Sei contenta di avermi trovato?».

«Sí, te l’ho già detto».

«Ti va di rivedermi ancora? Voglio dire domani, o dopo. Capisci, presto sarà tutto come ti dicevo: ti svegli e il sole splende e il merlo canta e tutto è stato spazzato via, tutto quello che prima ci tormentava. La faccia della Terra guarirà e perfino la palude, che per me è la crosta infetta su quella faccia, avrà un aspetto migliore. Quando ci rivediamo, scoiattolino? Stanotte?».

«Ma sono qua adesso» disse lei con un tono di un rimprovero affettuoso.

«Per caso questa volta hai con te un nonno morto?» chiese lui brusco. La guardò attento negli occhi, con durezza. Wanda tacque.

«Quante sorprese mi farai ancora?» domandò. «Hai intenzione di attirarmi in qualche altra trappola?». Osservò con sospetto il bordo del canneto.

«Perché non ti fidi di me?» si lamentò lei sottovoce.

«Perché con te ho già avuto qualche esperienza».

«Ho ventisette anni» disse lei.

«Bella età» mugugnò lui, e fece schizzare via il mozzicone di sigaretta.

«Vieni» disse Wanda, «si fa tardi, andiamo».

«Dove? Devi già tornare?».

«Il tempo corre. Su, alzati, dammi la mano. Non scordare il fucile. Vieni con me».

«Vuoi ficcarmi in una brocca e portarmi a spasso sul treno?».

«Non parlare cosí, dai, non mi piace. Non me lo ricordare e non chiedermelo piú, su».

Gli prese la mano gonfia e calda nella sua e lo tirò dietro di sé.

«Dove mi porti?» chiese Proska.

«Wanda ti porta dove c’è pace e non viene nessuno».

Walter sorrise.

Davanti alla distesa del canneto lei si fermò, chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, poi aprí un varco nelle canne e proseguí. Proska portò il braccio libero all’altezza del viso per fermare le canne che scattavano indietro. Sopra di loro soffiava un vento fiacco che sollevava scricchiolii e fruscii. Di fianco si levò il Chere-chere-chichichí allarmato di un uccello di palude. L’aria fra le piante era afosa, spessa, faceva male al sangue.

«Alt» comandò a un tratto il soldato.

Lei non ascoltò l’ordine e penetrò piú a fondo nel canneto.

«Fermati, scoiattolino, mi manca l’aria».

«Forza» gli disse, «siamo quasi arrivati».

E dopo pochi passi raggiunsero un laghetto tranquillo. Le nuvole della sera che cominciavano a salire lente e affannose ci guardavano dentro prudenti.

«Qui potrei viverci» disse Proska. Si tolse la giacca della divisa, la allargò per terra e sedette.

«Tu vuoi restare in piedi, Wanda? C’è spazio per tutti e due».

Arrotolò le maniche della camicia e sfregò il sudore sugli avambracci muscolosi.

Wanda si rannicchiò di fianco a lui. Proska le mise una mano sul ginocchio abbronzato e si stupí che lei lo lasciasse fare.

«Walter» disse lei.

«Sí» disse lui.

In lontananza rombava un temporale.

«Mi piaci, scoiattolino». Le spinse il busto indietro finché se la trovò distesa davanti. Il suo sguardo scivolò su e giú sopra di lei e infine si fermò sulla bocca.

«Sei bella» disse. «Me n’ero già accorto sul treno. Vengono su tutte come te, da queste parti?».

«Non saprei» disse, «io non ti basto?».

«Sei anche troppo» disse Proska, si piegò su di lei e le baciò il mento.

Wanda fissò la grande vena gonfia che gli era affiorata sulla fronte bassa e tremava.

In quella lui la strinse fra le braccia robuste e la sollevò verso di sé, e quando si rese conto che lei ricambiava i suoi baci le morse il collo, quel collo che sapeva di fieno fresco, e ansimò: «Non farmi aspettare, scoiattolino».

Si alzarono tutti e due e si spogliarono, lui le andò vicino, le circondò con le dita la vita a clessidra e la strinse cosí forte che credette si sarebbe spezzata.

Nel bosco rado di betulle, tra sospiri

d’insetti rossi, serba la ragazza

il suo caldo affanno.

Quando piove si sta bene.

Quando piove spuntan fuori tutti

i desideri come finferli e

offre la speranza giri

sulla giostra a metà prezzo.

E che imbarazzo la luce

del sole quando piove.

Nel muschio s’annida la libertà

e sul suo morbido dorso cade

la cenere di tanti lampi.

Ragazza, finirà, ragazza,

per spezzarti il cuore questa pioggia;

che non finisca tu, fiore senza nome

(assetato è il tuo stelo)

per annegar prima del tempo!

Con la lingua di una gatta

lecca ruvida la notte

le tue dita e le tue cosce.

Ragazza, senti il temporale!

L’orologio che ogni guerra

stringe fra le grinfie rosse

sgoccia giú per le lancette

i minuti dei suoi soldati.

E l’orgoglio della vita

cade muto, neanche un’eco,

e il vento rapisce i nomi

sull’altalena dell’oblio.

Proska attaccò la bobina di cavo al cinturone, giochicchiò con la leva della sicura del fucile e senza guardare la ragazza chiese: «Dopodomani? Ti aspetto qui».

Lei fece segno di sí con la testa.

«Sei triste, scoiattolino?».

«No, Walter».

«Magari la guerra sarà già finita. Mi fermerò qui con te. Nessuno avrà niente in contrario. Vivremo in una casetta, io andrò a lavorare e quando torno ti trovo ad aspettarmi in giardino. Saluta tuo fratello da parte mia. Presto potrò parlargli. Vai, Wanda, tra un’ora farà buio, e per Tamaschgrod hai ancora molto da camminare. Addio! Dopodomani, stesso posto».

«Dopodomani» ripeté lei sottovoce, si voltò e partí.

Proska la seguí un momento con lo sguardo, e mentre la vedeva allontanarsi cosí giovane e spensierata gli venne voglia di richiamarla indietro. Ma non lo fece, perché con la testa era già al forte, da Pandilatte, il suo giovane complice. Quando Wanda fu scomparsa dietro le canne, Proska accese una sigaretta e si avviò al suo alloggiamento, trascinando placido i piedi, un po’ provato ma con un potente sentimento di soddisfazione nel petto. La sera era quieta e bella, aveva qualcosa di una signora di città, discreta, onesta, di cui nessuno si dà pensiero. La signora Sera non offriva niente di sospetto, cosí almeno parve a Proska. Nel cielo pascolavano nuvole ingenue; il gregge muto faceva scordare la guerra. Guerra, sí: il tempo in cui il sangue viene spremuto; guerra: la collera possente del ferro, quel tempo in cui i panzer uccidono la landa con morsi indifferenti; guerra: l’avventura tragicomica in cui si impegolano gli uomini punti dalla follia, i giorni in cui comprensione e pazienza diventano rare perché hanno tutti un cronometro che corre – e nessuno conosce i sinistri cronometristi – guerra, guerra, guerra: vetro fracassato del cuore, marea sizigiale del succo rosso, cortocircuito della nostalgia. Guerra! Chi sei, tu? Tu carta assorbente per il sonno! Tu che ci investi con l’alito acre della miseria.

Come un pezzo di legno, Proska si buttò a terra e restò immobile. Era su un dosso, dietro il tronco di un ontano, e restò a guardare un giovane che risaliva il pendio, pacifico e ignaro, con un mitragliatore a tracolla. Era un civile. Davanti a un rovo si fermò, piegò un ramo per avvicinarselo e osservò a lungo e su tutti i lati i frutti ancora acerbi. Non aveva davvero niente di bellicoso, e c’entrava talmente poco con le immagini di guerra di Proska che il soldato, mentre lo teneva bene sotto tiro, si fece impaziente, anzi furioso. Il giovanotto lasciò andare il ramo e guardò il cielo. La sera sembrò far colpo su di lui.

“Non è mica normale” pensò Proska. “Pare che per lui la guerra sia una passeggiata sentimentale! Bada a te, amico mio. Ma è mai possibile? In guerra un uomo deve stare attento; deve uccidere o farsi uccidere, e se non ne è capace deve andare a casa. Cosí stanno le cose. Non è colpa mia se io sono qui e ho la canna puntata sul tuo petto. Però ci sono; e c’è la guerra e noi due, io e te, dobbiamo regolarci di conseguenza. Siamo costretti a ubbidire alla guerra anche se la odiamo come la peste. In fin dei conti vogliamo vivere tutti e due, io e te, e chi vuole restare vivo in guerra non deve pensare ad altro che al suo sangue. Va’ via, vai da un’altra parte, fai dietrofront o coricati a dormire. Ma non osare venirmi piú vicino. Altrimenti io... altrimenti dovrei spararti. Lo faresti anche tu, dovresti farlo, lo so benissimo. Va’ via, amico, non ce la faccio piú. Cosa ti metti a fissare nell’erba! Siamo in guerra, sai? Ancora, almeno. Non posso farci niente se adesso devo premere il grilletto. Lo vedi anche tu; adesso siamo una cosa sola; tu, quello su cui è puntato il mio fucile, devi essere il primo a perdonarmi, tu soltanto; perché sei l’unico che mi può capire. Perché non pensi a me? Credi che mi riesca facile? Non avvicinarti oltre. Un segreto ci unisce. Perché non ti giri? Non ti voglio bene ma nemmeno ti odio, sai? Non posso gridarti nulla, altrimenti per me potrebbe essere la fine. Chissà che cosa hai combinato, tu”.

Il partigiano si avvicinava lento, con gli occhi rivolti a terra. Aveva il volto disteso; al taschino sinistro sul petto Proska notò il capo giallo e stanco di un fiore di palude.

“E dai! Cosa ti ho appena detto? Perché mi torturi in questo modo? Prendi un’altra direzione, sei ancora in tempo. Ti do dieci passi; piú generoso di cosí non posso e non devo essere. Hai mandato a spasso la prudenza, ed è colpa tua. Lo capirai quando sarà troppo tardi. Fermati, ragazzo, o vattene. Non mi piace questa attesa. Per questi dieci passi sono il padrone della tua vita; dieci passi. Non ti accorgi di quanto soffro, della furia che mi sale? Se solo tu sapessi a cosa sto pensando. Vedo le donne in piedi davanti alle porte delle case. Guardano incredule gli uomini che tornano dalla guerra. Li fissano con gli occhi grandi, stranamente calmi e non dicono una parola. E gli uomini gesticolano e scherzano. Ma è tutto inutile, tutto per niente, non ce n’è una che rida. Ehi, ragazzo: vedo che ci sono anche tua madre e tua moglie – non so se hai già moglie, però io la vedo – e guardano tutte e due i soldati. Forse non mi crederai, amico mio, ma non c’è una sola donna che cerchi suo marito o suo figlio. Non chiamano: Walter o Jan o Günter o Stani; non strillano e non urlano e non piangono, i loro occhi non guardano uno in particolare ma tutti, tutti insieme quelli che ritornano. Gli uomini si stupiscono che le donne non siano contente ora che sono tornati a casa; si stupiscono e non riescono a capire perché. Tu però lo sai il perché, non è vero? Le donne non ci lasciano mai soli; sono sempre con noi, dappertutto; quando mangiamo il cavolo, quando ci laviamo, quando carichiamo i fucili e quando siamo in marcia. E se uno di noi cade e resta a terra per l’eternità, va a terra anche una donna. Eppure, lo vedi, ora alcuni degli uomini si stupiscono che le donne non ridano e non gioiscano al loro ritorno.

“Ancora tre passi. È troppo tardi, ormai. Miro al fiore stanco che hai nel taschino. Se c’è uno che potrà perdonarmi, quello sei tu. Mi devi difendere, perché tu sai che sei stato tu a costringermi”.

Proska piegò il dito, tirò, tirò a occhi chiusi. Tutti i proiettili schizzarono fuori; il caricatore restò vuoto. Non vide il ragazzo portarsi la mano sulla sinistra del petto, con un’espressione di leggero stupore, di sconcerto, e poi piegare le ginocchia e ricadere indietro nell’erba, raggomitolato, rivoltarsi su se stesso e restare fermo, disteso. L’indice di Proska lasciò il grilletto solo quando il caricatore non poté rifornire altra morte. Allora si alzò, restò un momento in ascolto, e quando si convinse che il campo era sgombro andò chino dal partigiano morto. Gli tolse il mitra e lo girò sulla schiena.