13.

Una raffica di mitragliatrice sventagliò sopra le loro teste, si abbassarono fino a sfiorare la neve con le labbra. Un ramo di salice spezzato dalle pallottole ricadde sulla nuca di Proska, che trasalí come sotto una frustata. Adesso avevano contro anche la terra: nella notte c’erano stati molti feriti gravi; non a causa di proiettili o schegge di granata, ma per le zolle di terra gelata. Ogni scarica di fuoco nemico sollevava zampilli di neve che restavano ancora per aria quando le schegge erano già passate fischiando. I crateri diventavano piú piccoli e precisi, il bordo di terra che sporgeva intorno piú basso.

«Ora!» gridò Proska. Saltò in piedi, partí di corsa in mezzo a una macchia di salici, attraversò ansante un tratto aperto e si buttò dentro una buca. Dietro di lui, un tonfo sordo: Wolfgang. Gli impatti dei proiettili li seguirono a ruota, inesorabili e minacciosi.

«Calma» disse Proska, «ci siamo quasi, solo altri due passi».

La mitragliatrice riprese a crepitare. Nel frattempo era riuscita a puntare il bersaglio: le pallottole picchiavano brevi e secche contro l’orlo indurito dal gelo della buca.

«Se solo potessi vederlo... Walter... gli sparerei... tu riesci a individuarlo? Dev’essere dietro di noi, in diagonale...». La voce di Wolfgang fu inghiottita da una forte detonazione nelle immediate vicinanze. Alcune zolle di terra ricaddero sulle loro schiene, ma erano di quelle inoffensive che precipitavano verticali. Subito dopo la detonazione successiva i due si alzarono da terra e si precipitarono avanti; ancora prima che il mitragliatore si rimettesse a crepitare, Proska cercò Wolfgang. Si girò svelto indietro a controllare se anche Pandilatte era balzato in piedi con lui. E in quel momento inciampò, il fucile automatico cadde molti metri piú in là nella neve, le dita affondarono nel manto bianco. Un dolore fortissimo gli squassava il petto. Sentí sapore di neve sulla lingua, e davanti agli occhi vide all’improvviso dei cerchi di fuoco. Nelle orecchie il sangue frusciava come se si precipitasse verso un’uscita appena scoperta. L’assistente gemette, inarcò schiena e collo e rotolò su un fianco. Il dolore era ancora nel petto, poco piú oltre il cuore. Proska cercò tremante i bottoni, ne slacciò uno e infilò la mano sotto il cappotto. Poi la ritrasse e la guardò angosciato. La mano non era insanguinata, forse la linfa rossa non era ancora passata oltre la casacca. L’aprí con fatica, senza smettere di gemere, tastò con i polpastrelli il petto caldo e cercò il sangue. Ma non trovò nulla. Poteva dire con precisione dove era situato il dolore, ma le sue ricerche non lo portarono a niente.

Wolfgang arrivò strisciando carponi.

«Walter!» gridò.

«Va’ via» gli disse Proska a fatica. «Io non riesco a camminare. La strada la troverai anche da te. Non è lontano. Per niente, appena due passi».

«Che ti prende? Aspetta, ho con me un pacco di bende».

«Non serve piú» disse Proska.

«Sta’ buono, girati, su! Ti taglio il cappotto e vedrai che torni a posto. Mancano pochi passi».

Il mitra riprese a crepitare ma le pallottole fischiarono sopra le loro teste, altissime, troppo alte.

Wolfgang tagliò il cappotto di Proska sulla schiena, la casacca e la camicia. La pelle era intatta, non un foro d’entrata, non uno d’uscita. Eppure Proska doveva essere stato colpito. Che strada aveva preso il metallo?

«Dove te lo senti?» chiese Wolfgang.

«Devi correre» disse Proska. «Subito, va’, svelto. A me ormai devono solo dare il colpo di grazia. Ma se beccano te...».

«È qui?».

Tre aerei passarono veloci sopra il villaggio, spararono, virarono cosí bassi che le ali quasi sfiorarono terra e sparirono. Il mitra ammutolí.

«Ora possiamo andare avanti» disse Wolfgang.

Inaspettatamente, Proska si alzò e recuperò il fucile.

Era soltanto caduto con il petto contro una zolla di terra appuntita e congelata. Presto non ebbe piú dolori.

Raggiunsero il villaggio saltellando a zigzag.

Dietro alla legnaia di Rogalski si fermarono a decidere il da farsi. Non sapevano se il cognato di Proska fosse scappato o rimasto lí, la fattoria aveva l’aria abbandonata. Non potevano nemmeno fermarsi tanto poiché avevano una missione importante da portare a termine, e se per un caso la missione non li avesse fatti passare da casa di Rogalski, di loro iniziativa forse non ci sarebbero nemmeno venuti. Proska aveva ottenuto l’incarico solo perché conosceva ogni sentiero e ogni pietra del circondario, e si era portato Pandilatte perché quattro occhi vedono meglio di due, perché due fucili fanno piú danni di uno e perché in generale un’impresa compiuta in due ha piú possibilità di successo che se ci si cimenta uno solo.

Un vento pungente come spilli gli sferzava in faccia, gli bruciava le guance e gli irrigidiva le dita. Nel parlare quasi non muovevano le labbra. All’orizzonte c’erano nuvole cariche di neve e di tanto in tanto nel ghiaccio sul lago si apriva una crepa, con un rombo di temporale. Proska si aspettava che il cane uscisse ad attaccarli, ma il cane non uscí, di certo dormiva acciambellato nella sua cuccia con la testa fra le zampe e la catena sotto il corpo. Oppure Rogalski l’aveva portato con sé da qualche parte. Dietro alla legnaia erano al riparo degli sguardi, ma non potevano vedere nulla neanche loro.

«E adesso? Hai intenzione di startene qua?» chiese Wolfgang.

«Andiamo nella corte».

Girarono intorno alla legnaia. Proska aprí il cancello della corte, che cigolò. Wolfgang gli stava attaccato alle spalle.

In quel momento esplose uno sparo, l’eco rimbombò nel cortile. Non capirono da dove fosse venuto il colpo. Proska gridò: «Giú!» e tutti e due si ritrovarono distesi nella neve. Passarono in rassegna le finestre e gli abbaini. Erano convinti che la pallottola fosse partita da là.

«Dobbiamo andare al fienile, Wolfgang. Parti prima tu. Quando sei là ti raggiungo.

Mentre Pandilatte saltava in piedi e cercava di raggiungere il fienile a grandi passi, Proska tenne d’occhio gli abbaini. Partí un secondo proiettile, il botto rimbalzò contro il fienile, fu rigettato verso la legnaia e da lí all’abitazione. Proska aveva nelle orecchie un ronzio sonoro e persistente, spalancò la bocca per farlo sparire.

Wolfgang fu colpito dalla pallottola a metà di un balzo; gli diede una breve scossa secca e lo sbatté indietro. Il suo braccio descrisse un brusco movimento circolare, i piedi cedettero.

Proska era rimasto a guardare come pietrificato. Staccò lo sguardo da Wolfgang e lo passò sulla casa, dove notò la porta d’ingresso che si stava muovendo piano e la canna di un fucile che spuntava poco sopra il freddo impiantito di cemento, puntata verso di lui. Disperato, Proska si accostò d’istinto il calcio del fucile, prese di mira la porta da cui un tempo era entrato tante volte in casa e premette il grilletto.

Davanti ai suoi occhi scese buio.

La porta fu risbattuta indietro dall’impatto dei proiettili, nell’aria limpida luccicarono schegge di legno.

Dopo un po’ Proska sollevò la testa e guardò verso la casa. Nell’ingresso di cemento c’era un uomo riverso, le pallottole l’avevano raggiunto oltre il legno.

Proska balzò in piedi e corse da Wolfgang, lo prese in braccio e lo portò al fienile. Lí davanti lo posò a terra, con la schiena appoggiata alla parete di assi. Si inginocchiò accanto all’amico.

«Wolfgang, mio Dio, cos’è successo santo cielo, come stai, eh? Non mi senti? Di’ qualcosa». Intanto frugava con le larghe mani rossastre il petto di Wolfgang, e cercava ripetutamente di impedire che la testa gli sprofondasse. Dentro il cranio di Proska si rovesciò un’ondata di calore. «Ohi!» gridò, «perché non mi rispondi?».

Proska si compresse le mani sulla fronte e Wolfgang ricadde di lato. Proska sentí in gola un rigurgito, ebbe l’impressione che in bocca gli si raccogliesse in una volta sola tutta la sua saliva. Raddrizzò ancora la testa dell’amico. «Parlami Wolfgang, rispondimi, apri gli occhi!» Lo carezzò delicatamente sulle guance e non si accorse che il cappotto gli stava diventando scuro sul petto. L’assistente scosse Wolfgang per le spalle facendogli sballottare la testa avanti e indietro, gridò: «Perché non mi rispondi, eh? Perché fai cosí? Dimmi che hai!».

Wolfgang aveva gli occhi chiusi, la faccia tesa e stravolta come se stesse sopportando un dolore. Le braccia gli pendevano flosce, dalla bocca non usciva piú il fiato. Proska si gettò nella neve accanto a lui e gli abbracciò le gambe. Aveva la schiena scossa dai sussulti; stava singhiozzando.

Dopo un po’ si fece calmissimo; si alzò e trascinò Wolfgang sul terreno coperto di neve. Lo portò lontano in mezzo al campo e lo sistemò piano, come se fosse ancora possibile fargli male. Si inginocchiò lentamente accanto a lui.

«Addio, Wolfgang. Addio».

Gli passò piano le dita sulla fronte, quindi lo lasciò lí e tornò angosciato alla corte.

Circospetto ed esitante, spalancò con uno spintone la porta di casa e vide che l’uomo abbattuto dietro la porta dai suoi proiettili era il cognato Rogalski.

Proska restò lí come se una trave infuocata fosse crollata a terra pochi centimetri davanti a lui. Sentí un calore ardente investirgli la faccia e fu colto da un improvviso stordimento. A tastoni allungò la mano verso il muro. La parete gli diede sostegno. Non lo piantò in asso, poté appoggiarvisi, non andò in pezzi quando la toccò, anche se in quel momento la cosa non l’avrebbe stupito.

Sono anche questi frutti insperati della coscienza, Proska.

Colpiamo meglio ciò che ci è piú vicino dei bersagli lontani. Siamo fatti per la lontananza e se la vogliamo raggiungere dobbiamo superare la vicinanza, oltrepassarla con la cecità diurna delle civette. E adesso che fai?

Proska guardò l’uomo a terra, si staccò dal muro e barcollò dentro casa.

«Maria!» gridò roco, «Maria? Dove sei? Maria!».

Non ottenendo risposta, uscí; in ingresso calciò di lato sul pavimento il fucile di Rogalski.

Andò al fienile, aprí la porta e ascoltò.

«Maria!» gridò. «Sei qua? Sei nascosta? Sono io, Walter!».

Fece per tornare fuori quando udí un fruscio nella paglia.

«Maria?».

Sopra il mucchio di paglia apparve una donna. Guardava impaurita in basso, verso Proska.

«Su, vieni» le disse lui in tono spento.

Maria scivolò giú e si avvicinò esitante.

«Hai paura di me?» le chiese Proska, e tentò di sorriderle. Nessuno dei due porse all’altro la mano.

«Perché quegli spari?» chiese Maria sconvolta.

Lui disse: «È stato sciocco da parte tua nasconderti nella paglia; se prendeva fuoco il fienile saresti morta».

«Mio Dio, da dove salti fuori Walter, che cosa è successo? Hanno sparato nella corte, piú volte. L’ho sentito fortissimo. Sei stato tu?».

«Abbiamo poco tempo» le disse.

«Hai parlato con Kurt?».

«Sí».

«Dov’è?».

«Via».

«Via?».

«Al sicuro».

«Senza di me?».

«Ti sta aspettando».

«Faccio una corsa in casa».

«Tu resti qui. Non c’è tempo. Ti mostro io come metterti al sicuro. Dobbiamo andare alla baia di Barannen».

«E Kurt?».

«È già partito. Vieni, lo raggiungerai là».

«Ma le mie cose, Walter? Ho già fatto i bagagli. È successo tutto cosí in fretta, sai? In cantina ci sono ancora vasetti di conserva d’oca».

«Svelta» le ordinò Proska serio. «Se restiamo qui ancora un solo minuto sarà troppo tardi».

Prese Maria per il polso e la trascinò via con sé.

Se la tirò dietro sul campo innevato, attraverso un bosco di pini, in silenzio, senza nemmeno cambiare espressione. Lei si lamentava per la stretta ma lui non l’allentò. Maria aveva smesso di fargli domande. Era intimorita dalla determinazione del fratello. Quando giunsero a una strada, la seguirono.

A un certo punto sentirono lo scoppiettare di un motore e Proska spinse Maria dietro il tronco di un albero sul ciglio della strada. Non lontano da lí scorsero un autocarro che doveva essere rimasto impantanato nella neve di un viottolo secondario e stava cercando di risalire verso la strada. Proska osservò attento i soldati che infilavano rami e cartoni sotto le ruote posteriori, poi disse: «Adesso tu vai da loro. Ti prenderanno con sé. Addio. Ora va’».

«Ma tu?» chiese Maria.

«Ti raggiungerò dopo».

Maria lo guardò sgomenta e si allontanò. Proska cambiò nascondiglio e attese, poco dopo l’autocarro arrivò con fracasso sulla strada e si allontanò. Sopra le casse nel retro c’era seduta Maria, che guardava disperatamente nella direzione dove poco prima si trovava il fratello.

Quando il veicolo scomparve alla vista, Proska si accasciò. In lui cresceva la consapevolezza di quanto era accaduto. Un mal di testa fortissimo prese a martellargli la fronte.

“Via di qua... via da questo Paese... via da questo mondo... abbandonato, solo, come posso andare avanti... Com’è che il mondo non trattiene il respiro?... Com’è che i corvi volano sopra il campo?... Possibile che nessuno capisca che cosa è successo?... La vita non può interrompersi nemmeno una volta, solo un istante?... Per rispetto? Com’è che siete cosí indifferenti, cosí pazienti, cosí cinici? Davvero non provate nulla? Siete tanto insensibili al mio dolore?... La mia sofferenza non vi fa ammutolire?... Non sono proprio nulla, io?... Tutto dev’essere ignorato?... Possibile che non vi si arresti il cuore?... Il mio dolore è cosí poco il vostro?”

Proska barcollò indietro. Sopra di lui fluttuavano nubi grevi, si mise a nevicare. Fiocchi leggeri si posavano sulla mano e si scioglievano.

La strada dove camminava non aveva bivi. Lui si affidò, e lei lo prese con sé. Le tracce fresche delle lepri furono pian piano cancellate. Proska diede un’occhiata fugace al cielo. Era di un colore cupo, metallico; aveva in serbo molta neve.

Non si voltò piú. I suoi occhi indicavano avanti. E davanti c’era l’orizzonte di acciaio che lui stava aiutando ad ampliare, verso ovest, incontro al tramonto rosso. Un giorno quel muro di acciaio sarebbe sprofondato, si sarebbe sciolto come nebbia nelle mani operose del vento... un giorno.

Ma per adesso c’erano uomini che lo sorreggevano e lo portavano determinati avanti. Non sarebbe mai finita?