2.

A Prowursk diedero da bere alla piccola locomotiva. Spostarono una proboscide mobile di ferro sopra il suo corpo arroventato, girarono un volante e un grosso getto d’acqua si riversò in un’apertura sul fianco.

Proska sentí l’acqua scrosciare e si affacciò dal finestrino sfondato dello scompartimento. Riuscí a scorgere la minuscola stazioncina bianca con un numero sul timpano, un marciapiede desolato, due cataste di legna e niente piú; il paese era a una mezz’ora buona dalla stazione, dietro un bosco di latifoglie. A fianco del treno passava il soldato che faceva la guardia. Si era slacciato il colletto per il caldo. Portava a tracolla un fucile da assalto con la stessa naturalezza con cui una madre africana porta il suo piccolo. Quando ebbe raggiunto la coda del breve convoglio formato da locomotiva, vagone rifornimenti e postale, fece dietrofront senza nemmeno sollevare la testa e ciabattò indietro. La ronda si ripeté alcune volte. Il paesaggio dava l’impressione di un gigantesco braciere abbandonato; niente vento, nemmeno un colpo d’aria, non un fruscio nei cespugli secchi.

«Ci fermiamo molto?» chiese Proska quando la guardia fu alla sua altezza.

«Fin quando si riparte».

«Credevo che servisse solo acqua per la locomotiva».

«Ah sí?» fece la guardia di malumore, «serviva acqua?».

Di colpo il soldato sollevò la testa e guardò giú per il viottolo sterrato che conduceva a Prowursk. In piedi al finestrino, anche Proska guardò da quella parte e vide una ragazza che si avvicinava svelta agitando la mano verso il treno. Indossava un abitino verde foglia e un’alta cinta in vita, che si stringeva e la rendeva simile a una clessidra. Arrivò sul marciapiede a passi veloci e andò dritta dalla guardia. Aveva capelli rossi lucenti come seta, un nasino corto e gli occhi turchesi. Ai piedi portava scarpe di tela marrone.

«Lei che vuole?» bofonchiò la sentinella fissandole le gambe nude.

«Signor soldato...» disse lei tremando. Appoggiò a terra una brocca di terracotta e ci posò sopra un impermeabile ripiegato.

«Cos’ha nella brocca? Latte, acqua?».

Lei scosse la testa e si lisciò indietro i capelli. Proska le ammirò il profilo dei seni.

«Scommetto che cerca un passaggio» disse la guardia.

«Sí, solo un pezzetto. Fino alle paludi di Rokitno. Posso anche darle dei soldi o...».

«Sparisca, e alla svelta! Non possiamo portare nessuno. Lo sa benissimo. Non me l’ha già chiesto una volta?».

«No, signore».

«Lei è polacca, vero?».

«Sí».

«Dove ha imparato il tedesco?».

In quel momento la piccola locomotiva emise due fischi, uno lungo e uno breve. La guardia piantò lí la ragazza, gettò a Proska un’occhiata scontrosa e partí verso la testa del treno. Montò imprecando nel vagone rifornimenti, sedette su una cassa e si mise a fumare. Il fucile pesava, ma per pigrizia non lo tolse.

Sulla terra riarsa tremolava la calura.

La locomotiva diede uno strappo, sfiatò; il trenino si mise piano in movimento.

La ragazza raccolse la brocca e l’impermeabile e si mise a camminare accanto al treno. Sollevò lo sguardo implorante verso Proska. Gli andò piú vicino che poté e sussurrò: «La prego, mi faccia salire».

L’assistente non riuscí a resistere a quegli occhi, ai capelli, alle gambe nude e al profilo provocante dei seni. Spalancò lo sportello, mise un piede sul predellino e allungò una mano. La ragazza gli passò brocca e impermeabile, saltò anche lei sul predellino e si fece aiutare a salire nello scompartimento. Proska richiuse lo sportello e si voltò. Se la ritrovò davanti che lo guardava sorridente.

«Scendo prima delle paludi» gli disse come per scusarsi.

Lui tacque e le fissò i denti forti.

«Il suo camerata si arrabbierà» sussurrò la ragazza.

Proska faticava a tenere le mani in tasca.

«Crede che mi fucilerà?» gli chiese sorridendo.

Sorrise anche lui, tirò fuori un pacchetto di sigarette e disse: «Ne prenda una. La calmerà un po’».

«Non fumo».

«Be’, almeno sediamoci».

Sedettero. Proska aveva le ginocchia a pochi centimetri da quelle della ragazza.

Il sole gettava uno dei suoi raggi dentro lo scompartimento, Proska vedeva la polvere danzare su e giú. Tacquero e ascoltarono la piccola locomotiva che sbuffava, fuori dal finestrino sfondato scorreva il paesaggio: pascoli e campi bruciati e macchie di betulle e molto di rado una casetta con il tetto di paglia sopra cui talvolta stava immobile nell’aria secca una colonna di fumo. Nei campi non lavorava nessuno, nei pascoli qualche vacca guardava torpida avanti a sé, schioccando di quando in quando la coda con rassegnata indolenza per scacciare le mosche dal posteriore ossuto.

«Vive a Prowursk?» domandò Proska.

«Sí, sono nata qui».

«Non pensavo che da queste parti crescessero ragazze come lei. Anche suo padre è un allevatore?».

«Mio padre era guardaboschi. È morto».

«Da poco?».

«Due anni».

«Caduto in guerra?».

«Non so. Due anni fa a Prowursk hanno sparato a un soldato. I gendarmi sono arrivati da noi in paese all’alba a perquisire tutte le case in cerca di uomini e fucili. Noi abitiamo un po’ fuori, cosí sono passati prima da noi. Mio padre non ha avuto tempo di nascondersi come si deve, si è infilato nell’armadio e basta. Quando sono entrati i gendarmi io li ho portati in giro facendo vedere loro la casa. Stavano quasi per andarsene, ma quando eravamo di nuovo nella stanza dove c’era l’armadio a mio padre è venuto da tossire, cosí un gendarme ha tirato fuori la pistola e ha sparato quattro volte all’armadio; due volte in alto e due in basso».

«Presto sarà tutto finito» commentò Proska. Lei posò le mani sulle cosce e fece dondolare i piedi.

«È sposata?» le chiese.

«No. Meglio aspettare dopo i ventotto anni...».

«E perché?».

Lei lo guardò a lungo. A un tratto scivolò verso di lui, gli prese la testa fra le mani calde e gli fiatò sulla fronte. La mano di Proska si posò sulla spalla della ragazza, ma lei si staccò subito e tornò al suo posto.

«Volevo leggerle la fronte».

«Ah, qui si usa cosí? E che cosa c’è scritto?» Proska si batté la testa con la mano aperta. «Cosa ci ha letto?». Lei inspirò sollevando il petto. Lo guardò piena di mistero e a lui parve di potersi immergere in quegli occhi turchesi come in uno stagno.

«Che andrà tutto bene» gli disse, «o forse no».

Proska rise e chiese: «C’è scritto cosí?».

«Proprio cosí» confermò la ragazza.

«Allora sei una specie di profetessa. Ma a profeti come te si crede volentieri. Come ti chiami?».

«Wanda».

«E quanti anni hai?».

«Ventisette. E tu?».

«Ventinove».

«E ti chiami?».

«Walter».

«Walter e Wanda. Se il tuo camerata non mi fucila ci incontreremo di nuovo» scherzò, e sorrise.

«Che sciocchezze» disse Proska, «non ti farà niente».

Tacquero fingendo di non guardarsi e ascoltando il ritmo del treno: hum-tum-tum, hum-tum-tum, hum-tum-tum. Proska pensò che certe parole avevano qualcosa in comune con quel ritmo, parole di abissale malinconia, parole di beato struggimento e di gioie d’amore trascorse. Hum-tum-tum, hum-tum-tum: suonava come nu-vole, o un bel dí o a-mami, o fi-dati o ba-ciami.

Nello scompartimento il caldo diventò insopportabile. La fronte di Proska si bagnò di sudore, aveva la gola riarsa. Lei guardò il fucile da combattimento che lui aveva appeso a un gancio, con la canna nera rivolta verso il basso.

«Hai mai sparato con quello?» gli chiese.

Lui non rispose, si alzò, andò allo sportello e infilò la testa fuori dal finestrino. L’aria gli tagliava la faccia, gli tirava indietro i capelli biondi, ma il fresco fu un sollievo. Sentiva che lei lo stava osservando, e pensò: “Se solo ci fossimo fermati a Prowursk una notte! Ha seni straordinari. E come stanno bene quei capelli rossi con gli occhi turchesi. Fra due ore farà buio. Chissà se...”. Si voltò e chiese: «Hai idea di quanto ci mette ancora il treno fino alle paludi?».

«Circa quattro ore. Se non succede niente».

«E cosa può succedere?».

«Mine» disse lei sorridendo.

«Come lo sai?».

«In paese la gente chiacchiera».

«A Prowursk?».

«Sí. Come lo sappiano loro non so, però a volte ne parlano».

«Glielo sussurrerà la calura» scherzò Proska, «il cielo ipocrita o i vostri alberi flosci. E se ne parla spesso di disgrazie con il treno?».

«Tutti i giorni».

«Salta per aria un treno al giorno?».

«No. Ma quando succede la gente ha da discutere per una settimana. E poi succede di nuovo».

Proska andò a sederle accanto e premette la coscia contro la sua.

«Quando è stata l’ultima volta che hanno fatto saltare un treno?».

«Cinque giorni fa». Si voltò verso di lui, gli posò le braccia morbide sulle spalle, sporse le labbra e disse: «Sono stanca. Il caldo mi fiacca».

Proska guardò oltre l’orecchio di lei, verso il finestrino sfondato. Stavano attraversando un bosco misto che si era già riconquistato mezza scarpata della ferrovia, mandando in avanscoperta giovani betulle, abeti e arbusti. La piccola locomotiva emise un breve fischio, forse senza sapere bene nemmeno lei perché.

«Invece a me il caldo mette sete» disse Proska. «Ho una gran voglia di bere. Una birra fredda o... che cos’hai nella brocca? Latte o acqua?».

La ragazza scosse la testa e ritrasse le braccia dalle spalle di Proska.

«Niente da bere. Dentro c’è mio fratello».

Lui guardò il recipiente di terracotta e disse: «Che vuol dire?».

«Non mi credi?».

Proska le diede un pizzicotto al braccio, ma non sembrò farle male.

«Allora non sei una profetessa, sei una maga. Nella palude i ranuncoli crescono che è un piacere, perché non dovrebbe attecchire anche un fratello? Hai intenzione di piantarlo là, dico bene?».

Wanda tornò seria, o cosí diede a intendere, lisciò l’abitino verde foglia sulle ginocchia ed evitò di guardarlo negli occhi.

«Nella brocca ci sono le ceneri di mio fratello. Lo abbiamo fatto cremare a Lemberg. Faceva il ferroviere ed è saltato in aria con un treno. Sto andando a Tamaschgrod, dove abita sua moglie. È stata lei a chiedermi di portarle le ceneri».

«È morto su questa tratta?».

«Non lo so».

Proska la cinse con un braccio e fissò a disagio il modesto recipiente di terracotta. Si sentiva come se fosse sotto costante osservazione, e piú cercava di scrollarsi di dosso quell’impressione, piú si radicava in lui caparbia e resistente. Provò pena per Wanda, le scivolò con le dita grandi e forti sul collo, poi tirò la testa della ragazza verso di sé e le baciò i capelli.

«Presto sarà tutto passato» disse serio. «Vedrai che ogni cosa sparirà nel giro di una notte cosí com’è venuta. Aprirai la finestra – non domani, ma prestissimo – e il sole ti inonderà gli occhi augurandoti il buongiorno. In giardino vedrai un merlo, lo ascolterai e capirai che è cambiato tutto. Ci credi che succederà cosí, Wanda? Non riesci nemmeno a immaginarlo, eh? Del resto hai solo ventisette anni, hai davanti ancora un anno intero».

Tacquero. I vecchi abeti che vivevano in cupa solennità vicino al terrapieno della ferrovia gettarono verso di loro un breve sguardo imperturbato. Lui le picchiettò le dita sulla clavicola, poi di colpo la mano scivolò a toccarle il seno destro. Lei si sfilò immediatamente dall’abbraccio, si scostò e lo guardò con aria di rimprovero, ma sorridendo. E quel sorriso si frappose tra loro come un ostacolo magico, come una barriera insormontabile.

«Voglio dormire un po’» annunciò Wanda.

«Puoi appoggiarti alla mia spalla» le offrí lui.

«Troppo pericoloso».

«Stai tranquilla non ti faccio nulla, almeno finché non copri con l’impermeabile la brocca».

«Che vuoi dire?».

L’assistente indicò il recipiente e spiegò: «Ho l’impressione che quell’affare mi guardi. Non sembra anche a te che abbia gli occhi? È come se non smettesse di osservarmi. Capisci cosa intendo?».

«Se lo dici tu» disse lei, si distese per il lungo sulla panca e gli posò la testa in grembo. Guardò benevola in su verso di lui e prese a respirare profondamente.

«Dormi già?» le chiese Proska dopo un po’.

«Sí» disse lei, «sto sognando di te, che ci incontriamo di nuovo».

«C’è anche tuo fratello? Voglio dire, vedi in giro la brocca?».

«No, siamo soli. Solissimi, ed è una meraviglia. Nessuno che ci osserva. Ci vogliamo bene. C’è solo il tuo fucile a guardarci. Però sta zitto. Il tuo fucile sa stare zitto, vero?».

«Se proprio deve. Dormi, Wanda, dormi e sogna. Aspetta che ti metto piú comoda».

Per come gli era possibile da seduto, sfilò la giacca dell’uniforme, le sollevò la testa dal grembo e infilò l’indumento ripiegato a farle da cuscino.

«Grazie» sussurrò lei.

L’assistente non disse nulla e restò a fissare la brocca. Pensò: “Se non fosse per lei, quello stupido affare lo butterei dal finestrino. Mai avuto un compagno di viaggio del genere, prima d’ora. Se fanno saltare il treno, suo fratello finirà per volteggiare nell’aria. Se lei se la cava, dopo dovrà andare a raschiarlo dalle foglie. Un dito dalla betulla, chissà, un orecchio dal tronco dell’abete”.

La pelle d’oca gli corse su per la schiena. Si alzò, fece qualche passo nello scompartimento e si fermò davanti alla brocca che era in un angolo e vibrava leggermente per gli scossoni del treno. Era un recipiente semplice, di certo cotto artigianalmente, con un robusto manico su un lato. La bocca era chiusa con della carta oleata e, perché non si staccasse, la ragazza o chi per lei l’aveva fissata avvolgendoci intorno uno spago sottile ma resistente, annodato con cura.

Proska lanciò una rapida occhiata alla ragazza, vide che non sollevava le palpebre e stabilí che stesse cercando di dormire; afferrò deciso l’impermeabile, lo aprí e lo gettò sulla brocca. Lei sembrò non accorgersi di nulla. Proska si sentí subito risollevato e piú sicuro; stiracchiò le braccia e andò al finestrino. Dalle cime degli alberi lo salutò il sole, un coniglio corse via nel sottobosco a scarti improvvisi e dileguò. La piccola locomotiva trainava sferragliante il suo carico attraverso il bosco. Proska pensò alle foreste che circondavano Lyck, la cittadina masura in cui era nato. L’odore era proprio identico; un tempo il lago di Borek, almeno là dove confinava con quello di Sunowo, gli dava le stesse sensazioni. L’assistente scorse uno scoiattolo che guardava in basso il treno con occhietti scuri e lucidi.

“I capelli di Wanda hanno quasi lo stesso colore di quella pelliccia. D’ora in poi la chiamerò scoiattolino”.

Si staccò dal finestrino. Lei era distesa sulla panca, quieta, le gambe accavallate, una mano in grembo e l’altra sulla bocca. Proska si avvicinò piano, le prese l’orlo del vestito fra due dita e sollevò leggermente la stoffa. Poi si chinò e le baciò la gamba abbronzata, appena sopra il ginocchio. La guardò in faccia: teneva gli occhi chiusi, ma ebbe un fremito alle labbra. Quando Proska si raddrizzò, lei disse: «Non sulla bocca. Chi mi bacia sulla bocca viene colpito da sventura».

«Davvero?».

«Stai attento!».

«Non m’importa. Me ne infischio del pericolo, io».

«Non ti conviene» disse lei e sorrise.

Lui le sollevò la testa e la baciò. Wanda restituí il bacio, gli cinse le braccia intorno al collo muscoloso e poi lo staccò di nuovo da sé con tenerezza.

«Tra un’ora e mezzo farà buio» disse Proska. «Dobbiamo rivederci».

«Hai coperto la brocca con l’impermeabile».

«Sí, non potevo piú vederla. Mi dava fastidio».

«Toglilo, per favore. Fra un’ora e mezzo farà buio».

Proska lo tolse ostentando indifferenza, si mise sull’altra panca, strizzò un occhio a Wanda e provò a dormire. Ma il sonno non viene a comando, e piú lui cercava di dare briglia sciolta ai sensi e dimenticare quanto lo circondava, piú sembrava impossibile addormentarsi. La guardò con gli occhi socchiusi e disse sottovoce: «Scoiattolino?».

«Come?» chiese lei.

«Non riesci a dormire neanche tu, scoiattolino».

«Che cos’è uno scoiattolino?».

«Sei tu uno scoiattolino».

«Cosa sono io?» domandò lei svogliata.

«Una bestiola rosso bruna con gli occhietti curiosi e piccole orecchie a punta. Giochi sugli alberi e hai fatto amicizia con un vecchio nocciolo brontolone. E stuzzichi i rami piú giovani e li sfidi e lasci che ti fiondino nell’aria. Ma in inverno, mio scoiattolino, allora te ne stai lí e dormi, e se a un certo punto ti viene fame afferri una noce dalla dispensa alle tue spalle e...».

«Mi hai baciato sulla bocca» gli ricordò lei.

«Hai capito che cos’è uno scoiattolino, adesso?».

«Mi hai baciato e verrà una sventura».

Lo disse con una serietà pacata, e lui stentò a riconoscerle la voce. Allarmato, si alzò in piedi.

«Pensi che succederà qualcosa al treno?».

«Ti avevo messo in guardia...».

«E tu non hai paura? Non ti importa se di botto...».

Staccò il fucile dal gancio, lo soppesò tra le mani, accarezzò l’otturatore ed estrasse un caricatore dal tascapane.

«Che intenzioni hai?» domandò Wanda che era rimasta a guardarlo sdraiata.

«Per ogni evenienza» rispose lui e inserí il caricatore.

«Quante pallottole ci sono lí dentro?».

«Quante bastano». Posò il fucile senza sicura in un angolo e infilò la testa nel buco del finestrino.

«Cosa vedi?» gli chiese la ragazza.

«Il tramonto».

«Si riesce a vederlo?».

«Si comporta come se avesse una gran paura, bisogna stare bene attenti per riconoscere su quali sentieri striscia fino a noi. Che cosa diresti se io mi ritrovassi costretto a sparare?».

«Perché lo vuoi sapere?».

«In fin dei conti sarebbe la tua gente» ragionò lui, e si accese una sigaretta.

«Presto ci attaccheranno».

Le andò vicino.

«Alzati» le disse.

Lei restò distesa.

«Ti ho detto di alzarti, Wanda».

«Sono cosí stanca. Sta per fare buio».

Proska fu colto da una strana agitazione; le chiese brusco: «Chi ci attaccherà presto? Che vogliono dire queste mezze frasette profetiche?».

«Le zanzare. Nelle paludi ci sono tante di quelle zanzare...».

L’assistente rise, e la risata fu una liberazione.

«È che dovreste tenervi piú uccellini. Cosí avreste meno zanzare. Invece nel vostro paese gli uccellini muoiono ancora piccoli. E i pochi che ho visto si sentono soli e volano tristi nel cielo. Le canzoni gli restano incastrate in gola».

«Una volta era diverso» disse lei.

«Lo so».

All’improvviso la piccola locomotiva emise un roco fischio prolungato e diminuí la velocità. Il soldato afferrò il fucile e appoggiò il calcio sull’anca.

«Per Tamaschgrod manca ancora un bel po’».

«Mi sa anche a me» disse lui. «Vedrai che ora si balla».

Il treno ormai procedeva a passo d’uomo.

«Di giorno se ne stanno acquattati come gufi nel nido e non osano uscire. Appena scende il tramonto però si svegliano e si danno da fare. Si appostano sotto le vesti della notte, dove scostano spiragli da cui sparano come fosse pieno giorno».

«Ma di chi parli?» domandò lei.

«Di quelli che fanno saltare in aria i treni».

«Stai dicendo che non dovrebbero?».

«Stai buona, va’».

Aprí piano lo sportello dello scompartimento, si sporse e gettò uno sguardo nella direzione di marcia. Poi si girò e le disse trafelato: «Via, subito! Svelta, è la polizia militare. Facile che salgano a controllare. Muoviti! Buttati giú distesa sulla scarpata e aspetta. Ti faccio segno io quando il campo è di nuovo sgombro. Scendi dall’altro lato del treno».

Wanda balzò in piedi e si precipitò allo sportello. «È bloccato» disse con la disperazione nella voce.

Lui ritrasse un piede e sferrò un gran calcio alla maniglia.

«Muoviti, Wanda, salta giú! Se ti trovano qui sono guai per tutti e due».

La ragazza saltò e atterrò dritta sulla scarpata, scivolò un po’ piú in basso e si sdraiò di pancia.

Il trenino proseguí altri cinquanta metri, poi i freni stridettero.

Mentre si infilava svelto la giacca dell’uniforme, Proska pensò: “Speriamo che riesca a correre dietro al treno. Non sono neanche cinquanta metri. Non sia mai che mi pianta in asso. Ma non può perché là c’è la brocca, e ha lasciato qua anche l’impermeabile. Non lo posso piú vedere, quell’affare maledetto!”. Avvolse la brocca nell’impermeabile e la spinse in fondo sotto la panca. Mentre si rialzava, un gendarme montò nello scompartimento.

«Allora» disse, «tutto a posto, qui? Posso vedere il tuo ordine di missione?».

Proska gli porse un foglio sgualcito e pieno di timbri.

«Dove stai andando?» gli chiese il gendarme.

«Vicino a Kiev».

«E da dove vieni?».

«Lyck. Ero in licenza».

«Dove sarebbe il paesello?».

«In Masuria, a diciassette chilometri dal confine polacco».

«Il vecchio confine» lo corresse il gendarme e sollevò la luce di una torcia elettrica rettangolare che teneva appesa al collo. Diresse il fascio di luce sul pezzo di carta. Controllò tutti i timbri, indicò con un indice ingiallito una firma e disse: «Qui ci sarebbe scritto Kilian, giusto?».

«Signorsí, esatto. È il nome del mio capitano. Ha firmato lui la licenza. Ho con me un pacco per lui da parte di sua moglie».

«Il pacco puoi anche rispedirlo subito al mittente. Il capitano è morto».

«Caduto?».

«Proprio cosí. Gli ha sparato un calmucco, dritto in mezzo agli occhi».

«Quando è successo?».

«Quattro giorni fa. Io avevo da fare là avanti. Hanno trasportato il capitano per due chilometri fino all’infermeria da campo, ma non si è piú svegliato».

«E adesso cosa faccio del pacco?».

«Che cosa c’è dentro?».

«Scaldapolsi e paraorecchie, mi ha detto sua moglie. D’inverno soffriva il freddo, soprattutto alle orecchie».

«Ormai è quasi estate» disse il gendarme. «Se pensi che i paraorecchie possano tornarti utili il prossimo inverno tienili pure tu».

«Grazie, ma soffro il freddo solo ai piedi».

Il gendarme guardò il cielo. «Oggi la luna è talmente curiosa, mi sa che finisce per vedere qualcosa».

«Credi che faranno saltare il treno per aria?».

«Tu tieni la testa lontano dal finestrino» consigliò il gendarme, spense la torcia e scomparve.

L’assistente si gettò sull’altro lato dello scompartimento. Frugò con gli occhi la scarpata. Di Wanda non c’era ombra. Attese un istante e poi chiamò: «Scoiattolo! Mi senti? Puoi uscire! Wanda! Dove ti sei cacciata? Vieni qua!». Ma lei non venne. Non spuntò come lui sperava da dietro un albero, non si alzò come lui desiderava dal terrapieno della ferrovia.

Il treno si mosse.

«Wanda!» chiamò Proska piú forte, «perché non vieni?».

Il treno prese velocità.

«Guarda che ci rivedremo» gridò lui, «ci rivedremo presto».

Sbatté lo sportello che aveva tenuto aperto nella speranza di facilitarle la risalita a bordo e si mise a sedere.

“Ha dimenticato la brocca e l’impermeabile. Doveva avere piú paura di quanto voleva far credere. Consegnerò io la brocca a Tamaschgrod”.

L’assistente si alzò, tirò fuori la brocca da sotto la panca e la sistemò davanti a sé. Sul recipiente cadeva la luce della luna. A Proska parve che gli facesse l’occhiolino.

«Non temere» mormorò, «non ti butto dal finestrino. Non ci vorrebbe niente, ma non lo farò. Ti tratterò come è dovuto a un uomo, anche se tu non sei piú un uomo. Però lo sei stato, ed è una cosa che tengo in gran conto. Puoi credermi».

Ma poi il soldato fu colto da una curiosità atavica, dentro la testa prese a bruciargli una domanda elementare; estrasse lento la baionetta dal fodero e si avvicinò alla brocca.

“Voglio vedere che aspetto si ha quando si arriva a quel punto. Tanto a te non può mica farti male. Non prendertela se te ne porto via la punta di un coltello”.

Infilzò la baionetta nella carta oleata sulla bocca del vaso, allargò il buco con la lama e tirò fuori con mano tremante una punta di cenere. L’annusò, non sapeva di niente.

“Come fosse di legno, o di tabacco, o carta”.

Proska si alzò cauto e portò la lama davanti al finestrino rotto. Il vento che entrava la investí spandendola nell’aria.

«Perdonami, se puoi» borbottò l’assistente.

Lo faceva arrabbiare che la ragazza non fosse tornata. Tornò piano a sedersi vicino alla brocca e senza pensarci infilzò una seconda volta le ceneri. La baionetta però non penetrò molto a fondo. La brocca era piena di cenere al massimo per un terzo.

“E questo che sarebbe? Dal rumore sembra una cosa metallica. Che sotto la cenere ci sia dell’altro? Vuoi vedere che la profetessa coi seni belli mi ha imbrogliato? Voglio proprio controllare che cosa c’è sotto la cenere. Sta’ a vedere che suo fratello era un ciocco di legno”. Prese la brocca fra le mani e la sporse dalla finestra. Il vento aspirò fuori la cenere. Sul fondo del recipiente occhieggiavano quattro candelotti di dinamite.

A Proska tremavano le mani; tutto si aspettava meno quello. “E io sono stato cosí fiducioso, cosí stupido da aiutarla a trasportare questi aggeggi: sufficienti per due treni e due settimane di chiacchiere tra la gente in paese. Quattro candelotti di dinamite vogliono dire binari saltati, vagoni squarciati e morti spappolati; vogliono dire nuovi disordini, nuova paura, nuove rappresaglie”.

Chiuse gli occhi, fece un respiro profondo, si riempí il petto con l’aria della sera fino a scoppiare e ritrasse leggermente la mano destra. Poi, espirando, scagliò con tutte le forze la brocca giú dalla scarpata. Il recipiente colpí il tronco di un abete e andò in pezzi, ma non ci fu alcuna esplosione.

Proska indietreggiò esausto dal finestrino e sedette su una panca. Sentiva il sudore scorrergli dall’incavo delle ascelle e bagnargli la camicia.

«Vipera» mormorò.

«Vi-pera» sferragliò il trenino.

“Perfida” pensò.

«Per-fida» sussultò il convoglio.

Incominciarono le paludi. Nello scompartimento si insinuò un odore dolciastro, un odore rotondo, un odore di vita che sgorga rigogliosa.

Proska pensò: “Bella ricompensa. Se ne stava lí sdraiata sulla panca, con le gambe allungate. Belle gambe, questo bisogna riconoscerglielo. Se avessi saputo che nella brocca invece del fratello c’erano dei candelotti di dinamite... Quell’essere subdolo! Ma se ti incontro un’altra volta, io... ti concio per le feste!”.

La notte avanzava sulla palude, scacciando la calura. Si fece piú fresco. Nello scompartimento, l’assistente rabbrividí. Le conifere diradarono. Su entrambi i lati del terrapieno c’erano ancora soltanto modeste betulle. Con quanta indifferenza il bosco aspetta l’ascia! L’anima dell’uomo è un cucú; quando esce il sole vola a Dio. Gli arbusti sonnecchiavano in disparte come vecchi mendicanti. Mai fidarsi di loro. Fai la nanna pecorella. Sopra la panca la capra campa, sotto la panca c’è la dinamite. Fai la nanna bimbo bello, fai la nanna!

Si allungò sulla panca, prima cercò di prendere sonno sul fianco sinistro, poi si girò sul destro e di lí a poco si addormentò.

In quel modo nemmeno vide il villaggio palustre di Tamaschgrod. La piccola locomotiva del resto non si fermò piú di due minuti. Sembrava impaziente di raggiungere la sua rimessa fuligginosa. La sentinella seduta nel vagone rifornimenti non smontò nemmeno a terra. Infilò solo un momento il naso nella notte; ma non riuscendo a distinguere niente, o niente di importante – per lui non era importante la luna, non era importante il silenzio sulla palude o lo strillo solitario e strano di un uccello – insomma non riuscendo a individuare nulla che gli paresse degno di nota tornò a sedersi sulla sua cassa, accese una sigaretta, la girò dalla parte della brace e l’osservò.

Se Proska non avesse dormito forse avrebbe gettato dal finestrino anche l’impermeabile scordato dalla ragazza. E con quello avrebbe scagliato giú dalla scarpata anche l’ultimo ricordo che gli restava di lei.

Invece stava dormendo, dormiva con la bocca aperta, il cranio duro contro la dura panca.

Il treno si rimise in moto piú rapidamente che a Prowursk. La locomotiva era piccola ma evidentemente sapeva già che ci sono cose piú belle del lavoro. Tamaschgrod, il nido traballante e pidocchioso nella palude, restò immobile.

«Fi-fi-fiiiii» strillò la locomotiva.

Proska sentí il fischio nel sonno e si voltò sul lato sinistro. Che coincidenza! Nel medesimo istante a Sybba, vicino a Lyck, si girò sul lato sinistro nel suo letto di piume d’oca anche Kurt Rogalski, il cognato di Proska. Il caso aveva dato a entrambi un pizzicotto nei lombi, il puro caso. Il signor Rogalski però non poteva certo sapere che il signor Proska era su quel minuscolo treno. E non poteva nemmeno sognarlo, perché quando sognava lui vedeva sempre e soltanto frumento, rape e patate. Del resto erano piú presenti nei suoi pensieri di quanto lo fosse il cognato Proska, fratello di sua moglie Maria.

Il fucile se ne stava appoggiato senza sicura in un angolo. Sulla retina dello scompartimento, proprio sopra la testa del soldato assopito, c’era il pacco con i paraorecchie e gli scaldapolsi per il capitano Kilian. In cielo sfrecciò una stella cadente. Proietto di Dio. Lo gettava per dare imperscrutabilmente a intendere ai pochi che sollevavano lo sguardo verso di Lui che armassero la loro ricerca di vigile pazienza e che Lui esisteva, ma pur comprendendo quell’anelito non poteva offrirsi alla loro vista. Per lenire e alleviare il dolore della ricerca, però, ecco che gettava proietti, cosí da alimentare le speranze.

Poco dopo mezzanotte il treno passò sopra una mina. La piccola locomotiva fu sollevata nell’aria con una spinta spaventosa, il suo corpo di metallo caldo fu squarciato. Il vapore imprigionato si liberò sibilando. Quattro civili, che casualmente avevano con sé dei mitra e dall’albero su cui casualmente sedevano ebbero modo di osservare la curva dove si verificò la disgrazia, all’inizio credettero sul serio che la motrice stesse solo spiccando un salto mostruoso sui binari incurvati, ritorti e divelti per poi riatterrare come non fosse successo niente sulla massicciata e proseguire la sua corsa. Ma quegli uomini dovettero poi ammettere di aver sopravvalutato la piccola locomotiva. Dal muso scaturí un raggio incandescente, il locomotore si ribaltò, precipitò sul bordo della scarpata, non riuscí piú a fermarsi e rotolò giú dal pendio come una bestia pesante colpita a morte, trascinando con sé nella fossa i due vagoni che gli erano stati affidati. Due ruote posteriori continuarono a girare a vuoto, erano i movimenti di una tartaruga quando la ribalti sulla schiena. Il resto dell’acqua che aveva ricevuto a Prowursk fuoriuscí da una conduttura spezzata e si riversò nella terra.

I soccorritori trovavano spesso gente che non era morta da molto, con i calzoni bagnati.